Grande è stata la soddisfazione per queste giornate di lotta in solidarietà del popolo palestinese e contro il governo complice del piano genocida di Israele. Tanti interventi hanno già colto la possibilità che una nuova fase si apra dopo anni di stagnazione e di apparente rassegnazione.
Senza nulla aggiungere a quanto in tanti hanno già detto, vorremmo solo rilevare come se da un lato abbiamo visto una grande partecipazione alle mobilitazioni, negli stessi giorni, nelle varie scadenze elettorali che si sono succedute, abbiamo visto l’ennesima conferma di un fenomeno astensionista che va avanti da anni e che mostra il totale scollamento tra la rappresentazione politico-istituzionale, con il suo teatrino quotidiano di finte contrapposizioni e sostanziali convergenze nella applicazione delle politiche antipopolari e guerrafondaie dell’Unione Europea e della NATO da una parte, e un paese reale che cerca di sopravvivere in una quotidianità fatta di progressivo impoverimento, bassi salari, lavoro precario, servizi sempre più inadeguati e altre disgrazie conseguenza delle dinamiche di un capitalismo finanziario che sopravvive in modo parassitario con la predazione della ricchezza sociale accumulata.
Due mondi lontani e senza possibilità di relazione, quella relazione che un tempo la politica, i corpi intermedi, la partecipazione ed il consenso elettorale rendevano possibili. Due mondi lontani di cui uno, quello reale, fatto di persone che ogni mattina escono di casa per mandare avanti la baracca e sbarcare il lunario, sembrava ormai zittito e rassegnato; un mondo che se da un lato esprimeva la propria “alterità” nel rifiuto di una politica lontana e “inutile”, nell’astensione elettorale, nella sfiducia totale nel governo e nelle istituzioni, d’altra parte non sembrava in grado di reagire e mostrarsi con tutta la sua forza per rispondere ai mille attacchi e alle mille vessazioni di cui è vittima.
Poi il dramma e l’orrore del genocidio palestinese che tutti ha obbligato ad un atto di rifiuto della indifferente complicità, l’azione soggettiva di chi ha messo la speranza e i propri corpi su gusci di noce per attraversare il Mediterraneo, la lucida determinazione politica dei lavoratori portuali, dell’USB e di Potere al Popolo, hanno fatto da catalizzatore ad un malessere generale e da troppo tempo inespresso e finalmente esploso, con la parola d’ordine “Blocchiamo tutto”. E di questo non c’è che di essere soddisfatti.
Ma la soddisfazione non è cosa su cui i comunisti si possano attardare; l’antica domanda “che fare?” si ripropone oggi ancor più pressante proprio alla luce delle nuove opportunità che sembrano aprirsi, ma che ci impongono di fare i conti con vecchi e nuovi problemi.
Giustamente in un suo recente intervento su Contropiano, Dante Barontini individua il nocciolo del problema parlando di quanto accaduto nelle piazze: “questa voglia di contare e mettersi insieme non ha a disposizione, per il momento, forme e strumenti per farsi valere al di fuori del puro manifestare“.
Ed è un manifestare che oggi ha valenza ben diversa che 40 o 50 anni fa; a quel tempo di fronte all’immensità e alla radicalità delle piazze, il quadro politico istituzionale ne sarebbe stato scosso e lacerato e le dimissioni del governo potevano essere uno scenario possibile; a quel tempo la relazione tra “paese reale e paese legale” esisteva e la politica era la forma di tale relazione.
Senza consenso elettorale vero, il potere era precario e anzi illegittimo e manifestare era solo la prima forma di pressione che poi poteva divenire preoccupante contestazione elettorale.
Non è più così, il potere trae la sua legittimazione non dal consenso, ma dai padroni della finanza internazionale e d’altra parte la legittima sfiducia verso le istituzioni rende improbabile che “l’alterità” che ormai esprime gran parte della società, possa trovare espressione prevalente in forma elettorale.
E’ venuto meno uno dei cardini della politica europea del ‘900 il nesso tra attivazione di piazza, politica, sociale o sindacale e rappresentanza elettorale. Nè ha senso proporre improbabili “ritorni al proporzionale”: leggi elettorali e assetti istituzionali, sono la sovrastruttura di relazioni economico sociali e rapporti tra le classi e variano al mutare di essi. Senza entrare nel merito di analisi già note, dovrebbe essere evidente che la stagione democratica caratterizzata dalle costituzioni antifasciste si lega ad una specifica fase del capitalismo e si esaurisce con esso. Quel capitalismo mirava alla cooptazione di massa nella produzione e nel consumo.
Il capitalismo neoliberista e finanziario non mira alla cooptazione produttiva e consumistica, ma nella sua vocazione predatoria e parassitaria, produce esclusione, economica, sociale e quindi politica: questa la ragione strutturale dell’astensionismo.
Ma se è venuta meno l’opzione elettorale come via per il cambiamento, anche il tema del conflitto sociale e sindacale va collocato in un nuovo scenario. Dal punto di vista della strategia rivoluzionaria, il conflitto sociale e sindacale, la capacità di produrre e vincere vertenze parziali, offrendo concrete risposte ai bisogni della classe, sedimenta una coscienza collettiva che diviene coscienza politica.
Dalla metà dell’800 e per tutto il ‘900, seppur in diverse modalità, la crescita del conflitto sociale e sindacale si è accompagnato ad un miglioramento delle condizioni di vita e a una maggiore partecipazione politica. Questo ciclo positivo si è interrotto da quasi mezzo secolo, da quando cioè le trasformazioni capitalistiche hanno indebolite le capacità contrattuali della classe e la finanziarizzazione ha offerto opportunità di valorizzazione del Capitale svincolate dal lavoro produttivo.
Le lotte vincenti, che pure ci sono, sono lotte di resistenza di fronte agli attacchi dell’avversario, come dimostra la vicenda francese sulle pensioni, o in ambito diverso la lotta in Val di Susa, ma da tempo non producono effettivi avanzamenti nella condizione materiale della classe.
In sintesi, abbiamo un potenziale blocco sociale, frammentato, variegato e complesso, ma unificato nel rifiuto dell’establishment politico e finanziario, che però non può trovare espressione per via elettorale e non riesce a migliorare la propria condizione materiale attraverso il conflitto sociale e sindacale, che al massimo realizzano obbiettivi difensivi.
Un blocco sociale che si riconosce nella esclusione, esclusione dal benessere economico, dai diritti sociali e politici, una esclusione che può prodursi come vera e propria “alterità” antagonista, che sia in grado di manifestarsi, e che sul dramma palestinese si è manifestata con forza, ma che privato degli strumenti e delle opportunità della politica del ‘900, fatica a trovare il modo per ottenere quei risultati che cementano la forza e ne garantiscono la durata.
Al tempo stesso però una alterità antagonista che è soprattutto una espressione politica, non riconducibile ed estranea alla gabbia della politica bipolare. Come questa espressione politica possa organizzarsi e trovare le nuove forme della battaglia politica, in grado di incidere e modificare la realtà concreta e passare dalla sola manifestazione della forza alla capacità della forza di imporsi, è un tema complesso, in cui i due termini della rappresentanza politica e del conflitto sociale e sindacale rimangono centrali, ma vanno rideclinati nel nuovo contesto post-democratico che caratterizza l’Occidente.
Le soluzioni non sono semplici ma l’individuazione e la comprensione dei problemi è il primo passo per trovarle, aprendo una riflessione ad ampio raggio che inizi con il dare a questa espressione politica “in potenza”, almeno quegli elementi di una visione comune, in grado di opporre alla condizione frammentata che il nuovo blocco sociale subisce in conseguenza delle trasformazioni nel ciclo produttivo e dei meccanismi di valorizzazione del Capitale, una prospettiva di unificazione politica a partire dal riconoscimento di quei fattori che accomunano tutti i soggetti sfruttati, al di là delle loro peculiarità e della specifica collocazione nel ciclo produttivo.
In conclusione proponiamo alcuni ambiti su cui avviare la riflessione, elencati un po’ a caso.
1) una ridefinizione del ruolo della rappresentanza elettorale ed istituzionale, con una centralità dei livelli locali e municipali, rispetto a quelli nazionali, più permeabili alle istanze sociali e alla partecipazione dei cittadini;
2) una piattaforma di diritti “universali”, salario e pensioni minime dignitosi, reddito garantito ai disoccupati, che porti la battaglia sui diritti sociali immediatamente sul piano politico, che è quello su cui il blocco sociale ha mostrato di potersi ricomporre:
3) la pratica di un mutualismo che si configuri come concreta risposta ai bisogni sociali inevasi e contestualmente introduca un diverso modello di rapporti economici e sociali, costruendo relazioni solidali tra settori diversi del blocco sociale;
4) una profonda riflessione sul tema di come i processi di valorizzazione del Capitale incidono sui territori e quindi sulla vita delle persone, con la messa a profitto delle aree urbane di maggior pregio per la speculazione immobiliare, da cui i proletari vengono espulsi, la costruzione di ghetti periferici in cui i lavoratori possono essere ammassati, nell’esclusione, privi di servizi, ma sottoposti a controllo e repressione e infine con il definitivo abbandono di aree rurali, le cui potenziali risorse, non attrattive nella logica del profitto, vengono sacrificate alla desertificazione e al calo demografico;
5) una nuova visione della questione fiscale, che assuma il fatto che la leva fiscale ha cessato di essere uno strumento per la redistribuzione e la mediazione sociale e oggi serve prima di tutto a garantire la sostenibilità del sistema finanziario che lucra sul debito pubblico. Misure di innalzamento della No tax area, a fronte di aumento della pressione fiscale sui patrimoni e la rendita finanziaria, per unificare il mondo del lavoro dipendente, autonomo e precario e rompere il “blocco sociale” dell’evasione fiscale, che alimenta le destre populiste;
6) il tema fondamentale della guerra e del riarmo, nella coscienza che esso sarà il prossimo fronte di spaccatura orizzontale nel paese, quando centrodestra e centrosinistra dovranno presentarsi agli elettori, uniti nell’adeguarsi alle politiche di riarmo e nella necessità di destinarvi risorse da sottrarre al welfare e magari divisi sulle modalità in cui il riarmo dovrà attuarsi.
Siamo in una nuova fase dello scontro di classe e se i problemi davanti a noi sembrano grandi, ancor più grande è la speranza vedendo le piazze piene di tanti giovani che certo sapranno trovare le risposte ai problemi del loro tempo.
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Ta
D’accordissimo sui punti 2-6, ma mi sembrano in contraddizione con il punto 1… Questi temi non si possono certo affrontare in modo efficace sul piano municipale e locale, e tra l’altro è tutto da dimostrare che questo piano sia “più permeabile alle istanze sociali” ecc. Tanto è vero che l’astensionismo è altrettanto elevato anche a livello locale.
Pino Bertoldo
Cari compagni . Al punto 2) aggiungerei la rivendicazione dei contratti di lavoro a tempo indeterminato e “tipici” ( pur nell’ attuale “degrado” dei CCNL) come forma ordinaria, abituale e universale di ogni rapporto di lavoro. Poi una forma di difesa automatica e indicizzata di salari e pensioni dall’inflazione, dall’aumento dei prezzi e delle tariffe. Il punto 4) è assolutamente centrale perchè tale è nei processi di valorizzazione (e di accumulazione ) del capitale e nella possibile ricomposizione di un blocco sociale in ambiti (periferie urbane) segnate da processi di frammentazione sociale molto accentuata.