Menu

Attentati e disciplina morale “a gettone” dell’Occidente

L’Occidente, quando scatta il sangue, sa produrre due cose in tempi brevissimi: una “narrativa” dell’innocenza per chi merita protezione simbolica e un tribunale morale per chi viene trattato come sospetto permanente. Dal 2001 siamo nello stato d’eccezione come norma.

L’islamofobia funziona come tecnica di governo dell’emozione pubblica. Trasforma un crimine in indizio di identità, così si sposta più facilmente l’attenzione dall’autore di un gesto alla sua “appartenenza”, sociale, simbolica. In altre parole estende la responsabilità per contagio.

In questo schema, il musulmano resta chiamato a una prova di lealtà, un po’ come se la cittadinanza fosse un prestito revocabile. A quel punto il discorso smette di parlare di “sicurezza” e inizia a parlare di gerarchia umana.

Bondi Beach, Sydney, 14 dicembre 2025. Una celebrazione pubblica di Hanukkah. Due uomini aprono il fuoco su una folla radunata per “Chanukah by the Sea”. Le autorità australiane parlano di attacco mirato contro ebrei australiani. I numeri dei morti cambiano nel giro di ore, segno tipico delle prime fasi, fra conteggi ospedalieri e aggiornamenti clinici. Siamo intorno ai 16 morti e 38 feriti.

Secondo la polizia del Nuovo Galles del Sud, gli attentatori identificati finora sono un padre e un figlio: Sajid Akram (50 anni), ucciso sul posto, e Naveed Akram (24 anni), ricoverato in condizioni critiche sotto custodia.

Qual è il problema politico?

L’antisemitismo, realtà storica e attuale, viene spinto dentro una funzione politica: diventa un’arma di pressione diplomatica. La paura locale viene scalata a norma globale.

Il risultato produce un beneficio immediato per chi governa attraverso l’allarme. Lo scoprimmo già dopo l’11 settembre, lo abbiamo rivisto dal 7 ottobre.

Qualsiasi parola sulla Palestina rischia di essere trattata come combustibile, qualsiasi critica a Israele rischia di essere sporcata e di conseguenza adesso, dietro un gesto criminale e infame, qualsiasi gesto di solidarietà verso i palestinesi rischia di finire sotto interrogatorio ed essere riscritto come “amicizia con i terroristi“. Perché così funziona il nostro mondo.

Il fattore imprevisto

In mezzo a questa macchina emotiva accade un fatto che manda in crisi i professionisti dell’odio. Un uomo disarma uno dei tiratori. Reuters lo identifica come Ahmed al Ahmed, fruttivendolo di quarantatré anni, ferito a braccio e mano, operato e ricoverato.

Il Guardian, nella diretta del 14 dicembre, descrive un “heroic bystander” che blocca uno dei responsabili, mentre la polizia interviene. Qui la propaganda ha un problema. Perché quel gesto rompe il copione identitario. E lo rompe sul piano dei fatti, che resta il piano più pericoloso per chi vive di astrazioni.

E allora scatta il secondo movimento dei media, quello più raffinato. L’eccezione viene celebrata come eccezione. Stavolta sì. Il musulmano buono viene trasformato in alibi. Viene appeso al muro come trofeo morale, utile a dire che razzismo e islamofobia “esagerano”, salvo riprendere il giorno dopo il sospetto collettivo, identico, intatto.

Questa è una gestione tipica della paura: concedere un volto salvifico per continuare a colpire la categoria. “Ogni tanto ce n’è uno buono anche in mezzo a quelli lì” (commento letto sotto un post di repubblica stamani).

Che c’entra Gaza? Gaza c’entra sempre

A questo punto entra in scena anche Gaza, come sfondo politico che viene spinto ai margini proprio nei giorni in cui la cronaca occidentale ha bisogno di un evento capace di riunificare il pubblico attorno a un lutto “consensuale”.

Reuters stessa colloca Bondi dentro “a string of antisemitic attacks” in Australia “since the beginning of Israel’s war in Gaza”. Si parla ancora di guerra. Dopo l’attentato chi ha il coraggio di correggere con “genocidio”?

L’effetto mediatico più comune, in casi simili, consiste nel congelare la discussione su Gaza e riaprire invece il capitolo identitario, più facile, più vendibile, più utile per disciplinare parole e piazze.

Netanyahu

Benjamin Netanyahu, destinatario di un mandato di arresto della Corte penale internazionale per presunti crimini di guerra e crimini contro l’umanità, usa una strage in Australia per impartire lezioni politiche e morali. Uno che ha sulla coscienza almeno 100.000 civili morti, tra cui 22.000 bambini, si sente in diritto di dire: “La vostra richiesta di uno Stato palestinese getta benzina sul fuoco dell’antisemitismo. Premia i terroristi di Hamas. Incoraggia chi minaccia gli ebrei australiani e alimenta l’odio antiebraico che ora si aggira per le vostre strade”.

Non ho niente da aggiungere.

* da Facebook

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *