Attorno al Venezuela la morsa si stringe. Le provocazioni si moltiplicano, le pressioni economiche e militari si fanno sempre più aggressive, mentre da Washington si cerca deliberatamente la reazione di Caracas per poter poi rovesciare la narrazione, vestendo i panni del vittimismo e indicando il governo di Nicolás Maduro come responsabile di una possibile escalation bellica. È una strategia collaudata, cinica, che rientra pienamente nella nuova fase dell’imperialismo contemporaneo.
Le recenti dichiarazioni di Donald Trump sul blocco delle navi in partenza dal Venezuela, seguite dal sequestro di una petroliera che, secondo più fonti, non risulterebbe nemmeno sanzionata dagli Stati Uniti, rappresentano una prova di forza gravissima. Se sarà confermato che la nave fermata non rientrava nei regimi sanzionatori, ci troveremmo di fronte a un atto di vera e propria pirateria internazionale: un messaggio politico chiaro, volto a dimostrare che Washington si arroga il diritto di fermare, controllare e sequestrare qualsiasi flusso di petrolio venezuelano, indipendentemente dal diritto internazionale, dai partner commerciali coinvolti, dalla legalità formale.
È in questo contesto che parlo di “imperialismo pirata”. Non si tratta solo di atti pirateschi in senso tecnico, come bloccare una nave, sequestrarla e portarla via, ma di uno spirito piratesco che attraversa l’imperialismo nella sua fase attuale. Quando studiavamo l’imperialismo, a partire da Lenin, lo intendevamo come continuazione del colonialismo: dominio territoriale, appropriazione delle materie prime, sfruttamento dei Sud del mondo. Le “vene aperte dell’America Latina”, per usare le parole di Galeano, descrivevano bene l’accumulazione originaria basata sull’oro, sulle risorse, sul saccheggio coloniale.
Oggi, però, qualcosa è cambiato. L’imperialismo non domina solo attraverso il controllo diretto dei territori, ma soprattutto attraverso la moneta e la finanza. Il dollaro come moneta di regolazione internazionale è stato ed è lo strumento centrale del dominio statunitense sui mercati globali. L’esportazione del dollaro consente il controllo degli scambi, dei flussi di capitale, delle economie nazionali. Anche il progetto dell’euro nasceva come tentativo di costruire un imperialismo monetario alternativo, capace di contendere al dollaro il ruolo di moneta di riserva internazionale.
Ma oggi gli imperialismi sono entrati in una crisi profonda. Non solo una crisi di sovrapproduzione, ma una crisi di sovra-accumulazione e dunque di insufficienza dei capitali. La legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, analizzata da Marx, si manifesta con evidenza: cresce la massa dei profitti, ma diminuisce il tasso di profitto sui singoli investimenti. I capitali interni non bastano più a sostenere i ritmi di accumulazione necessari alla riproduzione del sistema. Da qui la necessità di importare capitali, di attrarli o di appropriarsene.
È in questo quadro che il petrolio venezuelano diventa un nodo strategico non solo come risorsa energetica, ma come leva finanziaria. Il petrolio è quotato in dollari, è immediatamente trasformabile in capitale finanziario. Appropriarsene significa alimentare un processo di accumulazione che altrimenti non sarebbe possibile. Ecco perché l’imperialismo di oggi agisce come un pirata: non si limita a imporre sanzioni, ma sequestra, blocca, ruba. Come i pirati di un tempo che non cercavano cibo, ma argento e oro, così oggi l’imperialismo statunitense punta a navi, petrolio, flussi finanziari, per trasformarli in capitale indispensabile alla propria sopravvivenza sistemica.
Di fronte a questo scenario, il popolo del Venezuela, il popolo di Chávez, continua a resistere. Resiste al blocco economico, alle sanzioni, alle minacce militari, alle operazioni di destabilizzazione. Resiste perché ha compreso che ciò che è in gioco non è solo un governo, ma la sovranità, il diritto all’autodeterminazione, la possibilità stessa di sottrarsi a un ordine internazionale sempre più predatorio.
Il cappio si stringe, ma non si spezza la volontà di resistenza. Ed è proprio questa resistenza che l’imperialismo pirata teme di più.
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