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Libia cent’anni dopo: democrazia o colonialismo?

La nozione di democrazia, così spesso evocata, infatti, a differenza del colonialismo che è una concreta pratica storicamente determinata, sfugge a una determinazione altrettanto precisa. Riemerge, dunque, l’antico quesito della definizione: che cosa è democrazia? Appare evidente che il patrimonio di storia delle idee che possediamo ci fornisce diversi modelli di democrazia (e anche modi diversi di attuazione dei medesimi modelli); eppure è altrettanto evidente che nel nostro mondo (all’interno, cioè, di quella parte di mondo in cui è nata la rivoluzione atlantica o occidentale) si è affermata in posizione dominante una ben precisa idea di democrazia.

Possiamo forse dire che essa rappresenta il pendant politico dell’affermazione di un modello unico di ragione. Analogamente l’idea di democrazia che si è via via affermata come dominante è quella della gloriosa rivoluzione inglese o quella borghese e liberale di una parte della Rivoluzione dell’89 e mai, s’intenda, quella popolare dei Diggers e dei Levellers inglesi o, in Francia, dei Giacobini prima e del Manifesto di Bebeuf e Buonarroti dopo. La nozione dominante di democrazia, proprio perché borghese e liberale, non è mai stata antitetica al colonialismo. Anzi: non era, al contrario, il giacobino Robespierre (sul quale si può pure dir tutto ma non che non fosse un sincero rivoluzionario) a sostenere, proprio contro chi difendeva quell’idea di democrazia, che non si dovesse esportare la “libertà in punta di baionetta”? Molto spesso, quindi, le ideologie, comunque progressiste, ereditate da questa parziale nozione di democrazia, cui si accennava prima e che dominano ancora oggi le nostre società, hanno rappresentato anch’esse un puntello della missione civilizzatrice che ha legittimato gli appetiti coloniali. Quando, ad esempio, nel 1920 la Società delle Nazioni attribuiva alla Gran Bretagna un Mandato sull’Iraq, lo faceva in nome dei principi espressi nei Quattordici punti del presidente statunitense Wilson. Diritto dei popoli all’autodeterminazione e alla sovranità ne erano le parole chiave: allora come oggi. E l’Italia liberale, con tutta la conseguente responsabilità che ne deriva (come anche col fascismo che altri, poi, copiarono), fu apripista di questo nuovo corso del colonialismo europeo con l’intervento in Libia del 1911. Voluto dalla borghesia industriale e finanziaria, l’impegno bellico era ideologicamente sostenuto anche presentandosi come lotta di liberazione dai dominatori turchi; come quando, mentre la Grande guerra era ancora in corso e l’armata britannica occupava Baghdad (mettendo fine a quattro secoli di dominazione ottomana) il generale Maude, a marzo del 1917, poteva proclamare: “Le nostre operazioni militari hanno come obiettivo di vincere il nemico e scacciarlo da questi territori. Per portare a buon fine questo compito, sono stato investito di autorità assoluta e suprema su tutte le regioni in cui operano le forze britanniche, ma i nostri eserciti non sono venuti nelle vostre città e nelle vostre campagne come conquistatori o come nemici ma come liberatori”. A gennaio del 1918 sono poi enunciati i Quattordici punti di Wilson e, l’8 novembre dello stesso anno, in una Dichiarazione franco-britannica si può leggere: “Lo scopo che perseguono la Francia e la Gran Bretagna con il loro impegno in Oriente nella guerra, nefasto risultato delle ambizioni tedesche, è la liberazione completa e definitiva dei popoli da tanto tempo oppressi dai turchi e l’istituzione di governi nazionali e di amministrazioni locali che poggino la propria autorità sull’iniziativa e la libera scelta delle popolazioni autoctone […]. Lungi dal voler imporre una forma particolare di istituzione su questi territori, esse non hanno altro scopo che assicurare, con il loro appoggio e la loro effettiva assistenza, il normale funzionamento dei governi e delle amministrazioni che i loro abitanti avranno adottato di loro volontà”.

Peccato che sotto gli auspici di Churcill nel 1921 i britannici insediarono lì la monarchia hashemita, concepita sul modello europeo di stato-nazione, facendo diventare lo stato iracheno una monarchia araba costituzionale e che, il movimento nazionalista dei Giovani turchi di Mustafà Kemal (Atatürk), con il vessillo ideologico della modernizzazione e della occidentalizzazione, s’impone nella stessa Turchia dopo la sconfitta dell’Impero ottomano. Allo stesso modo per la Libia che, colonia italiana fino al 1943, ottenne l’indipendenza dopo la conquista degli alleati costituendosi in uno Stato federale monarchico (Tripolitania, Cirenaica, Fezza) sotto la guida filoccidentale di re Idris. Eppure, il crollo dei grandi imperi coloniali europei fu uno degli eventi più rilevanti del dopoguerra: nel giro di alcuni decenni, dal 1945 alla fine degli anni Sessanta, l’Europa perse la propria posizione privilegiata di centro del mondo che si era garantita in quattro secoli. Un quarto della popolazione mondiale acquista un’indipendenza effettiva e contribuisce in maniera significativa a far mutare l’intero sistema dei rapporti internazionali; ma questa volta, però, non più grazie al piano di pacificazione elaborato da Wilson nei famosi Quattordici punti, ma grazie anche al principio leniniano dell’autodeterminazione dei popoli e soprattutto alla concreta contrapposizione tra blocchi ovest-est che diede una spinta decisiva ai movimenti indipendentisti.

Ed è in questo contesto, nel quale le dinamiche di difesa degli interessi nazionali degli stati giocano un ruolo fondamentale e indipendente dalla loro soggettività anticapitalista, che si colloca il colpo di stato con cui, nel 1969, Gheddafi depone re Idris perché subalterno alle politiche economiche delle potenze occidentali. La Libia, infatti, rivestiva un ruolo strategico sia dal punto di vista militare che economico dopo la scoperta, negli anni Cinquanta, d’ingenti giacimenti petroliferi. Gheddafi, allora, proclama la repubblica e nazionalizza le compagnie petrolifere.

Tutto questo, forse, ci dice poco sulla realtà interna della Libia di oggi (per lo meno all’alba del 19 marzo 2011), ma ci dice tanto (tutto?) sulla natura dell’intervento militare europeo a sostegno di un fronte di ‘ribelli’ che nelle piazze ha ripescato la bandiera della monarchia di re Idris.

Anche oggi, infatti, emergono, congiuntamente a quel preciso modello dell’ideologia progressista occidentale, le storiche motivazioni che hanno sempre portato le maggiori potenze europee a scatenare un’operazione militare. Nel contesto dell’attuale globalizzazione capitalistica che non ha eliminato (perché non può farlo) le contraddizioni tra gli stati nazionali, quel punto del mondo continua a svolgere una funzione strategica di primaria importanza.

Vladimiro Giacché ha giustamente (e nuovamente) parlato di fabbrica del falso (riprendendo il suo saggio del 2008) a proposito della guerra in Libia. Non è un caso che questa guerra, al pari, infatti, del conflitto in Iraq sia considerata paradigmatica della produzione di verità del potere. O, come direbbe Foucault (da un’angolatura meno marxista di quella di Giacchè), degli effetti di verità del dis-positivo del potere che, lungi dall’operare attraverso negazioni, persegue la ben più redditizia strategia della creazione di un sapere che irreggimenta. Non dimentichiamo, infatti, che la marxiana critica dell’ideologia considerava quest’ultima non solo falsa coscienza, ma anche strumento di dominio perché volta alla legittimazione dell’esistente. Che fare è, ormai, forse chiaro a tutti: contingenza e necessità lavorano per noi. Sul come farlo, invece, resta ancora qualche dubbio. Abbiamo però un obbligo: l’intelligenza di alzare la testa e rimettere in cima alla nostra agenda il tema della formazione di un pensiero critico, che recuperi categorie scientifiche di analisi della realtà, come anche quello dell’organizzazione concreta, vale a dire le gambe su cui far camminare efficacemente una recuperata capacità d’intervento sulle cose del mondo.

* Rete dei Comunisti

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