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Un saluto affettuoso ad Alfredo Maria Bonanno

E’ morto all’età di 86 anni, a Trieste, Alfredo Maria Bonanno.

Definirlo compagno era una “sfida ed un azzardo” perché da “anarchico/anomalo” poteva anche offendersi e mandarti, tranquillamente, a quel paese.

Ai giovani di oggi questo nome non dice nulla ma per la “generazione vintage” Alfredo Bonanno è stato l’ispiratore (teorico ma conseguentemente pratico) del filone “anarco/insurrezionalista” che – con tutte le aporie e le contraddizioni che spesso abbiamo rilevato – ha avuto una sua cittadinanza nel variegato “movimento della sovversione sociale” che ha attraversato l’Italia ma, anche, numerosi paesi europei.

Alfredo, nella sua tumultuosa vita, è stato tante cose ed ha interpretato varie funzioni.

Alfredo è stato filosofo, letterato, organizzatore, rapinatore e “amante della vita” in tutte le sue sfaccettature.

Bonanno muove, fin da giovanissimo, i primi passi nel movimento anarchico siciliano dove approccia – concretamente – al tema “dell’insurrezione popolare” cominciando ad incasellare denunce, arresti e persecuzioni penali di ogni tipo.

Poi il suo attivo peregrinare – spesso in ambienti politici oggettivamente “spuri” – in giro per l’Italia e per il continente. Un attività “a tutto tondo”: dall’edizioni di libri e riviste, alla partecipazioni ad alcune formazioni armate anarchiche (Azione Rivoluzionaria), alla costruzione di comitati di solidarietà con i “prigionieri politici” fino alla sua ultima “disavventura giudiziaria” nel 2009, in Grecia, quando fu arrestato per “concorso in rapina” (ebbe una riduzione di pena perché la Magistratura Greca non aveva mai processato “rapinatori di banche” ultra settantenni).

Vale la pena ricordare che un suo testo (La Gioia Armata) – scritto nel 1977 in polemica teorica e pratica con un testo di Antonio Negri che in quegli anni “andava per la maggiore” (Il Dominio e il Sabotaggio) – fu condannato letteralmente al rogo (in quel periodo anche il film di Bertolucci, “Ultimo Tango a Parigi” subì la stessa mannaia oscurantista) attraverso un dispositivo di sentenza penale che imponeva questa “soluzione medievale” contro un testo classificato dichiaratamente come “blasfemo ed istigatore all’odio di classe”.

Recentemente il profilo umano e politico di Alfredo Bonanno è stato evidenziato – dagli opinion/maker della disinformazione deviante del capitale – come “cattivo maestro” a proposito della vicenda giudiziaria di Alfredo Cospito, tutt’ora ancora ristretto nelle maglie del famigerato Articolo 41 bis per l’esplosione di un petardo che non ha provocato un graffio a nessuno.

Non ci addentriamo in questa analisi dell’album di famiglia anarco/insurrezionalista. Non tocca a noi stabilire eredità teoriche, legami organizzativi o quant’altro.

Oggi ricordiamo – affettuosamente – Alfredo Bonanno.

Un uomo, un militante, un cervello sociale animato da sana passione politica. Una passione durevole che è il fondamento primario per chiunque allude al necessario cambiamento degli odiosi rapporti sociali vigenti.

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Il pensatore armato

Seduto al banco degli imputati in un’aula del tribunale di Roma il 15 dicembre del 1999, un mercoledì, Alfredo Bonanno si sente domandare dal procuratore Antonio Marini quale sia la sua idea di rivoluzione. La risposta è un compendio teorico che abbraccia quasi due secoli di pensiero libertario, tra dotte prolusioni e citazioni d’alto rango.

Il pm non è soddisfatto, però. Insiste sul merito della questione. Dice che, al di là delle pur ben argomentate teorie, il punto riguarda una bomba, che per poco non causava una strage di poliziotti, e un sequestro di persona finito male, con la morte della persona rapita. È così dunque che si fa la rivoluzione?

«Non so cosa dirle», fa Bonanno. Marini allora insiste: «Bisogna abbattere anche gli individui?».
«Ma è logico», risponde l’imputato, come stesse parlando della necessità di aprire l’ombrello quando piove.

Non c’è mai stato sottinteso nelle parole del siciliano Bonanno – morto ieri mattina a Trieste, dove abitava ormai da diversi anni con la moglie Annalisa -, è sempre stato tutto chiaro, spiegato per filo e per segno, senza metafore, senza mezze parole.

Era il 1977 quando nel classico La gioia armata (dodici edizioni in italiano, svariate traduzioni, almeno centomila copie vendute) si domandava in maniera sarcastica per quale motivo gli attentatori di Indro Montanelli gli avessero sparato alle gambe e non in testa: «Sbrigati ad attaccare il capitale, prima che una nuova ideologia te lo renda sacro. Sbrigati a rifiutare il lavoro prima che qualche nuovo sofista ti dica, ancora una volta, che il lavoro rende liberi. Sbrigati a giocare. Sbrigati ad armarti», era l’invito al lettore.

Il volume, ovviamente, fu sequestrato quasi subito e lui, l’autore, venne condannato a un anno e mezzo. Non era la prima volta: cinque anni prima, per un pezzo che incitava alla rivolta uscito su Sinistra Libertaria, di anni di condanna ne prese due.

Nel corso dei ’90 farà parte del mucchione degli imputati del processo Marini: decine di persone a processo; una complicata inchiesta condotta dal Ros; un teorema che metteva insieme anarchici e banditi senza particolari affiliazioni politiche; una storia di rapine, sequestri, riviste, volantini, comizi, bombe esplose, bombe difettose, bombe solo ipotizzate.

Tutto per dimostrare l’esistenza di una banda armata che non è mai esistita, l’Orai, «Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionalista», di cui lui, Bonanno, sarebbe stato il capo e l’ideologo.

In realtà era solo un’idea, l’unica traccia esistente dell’Orai è nella sbobinatura di un incontro tenuto in Grecia al quale aveva partecipato anche lo stesso Bonanno. Alla fine non se ne fece niente. Del resto ogni tentativo politico di mettere insieme gli anarchici insurrezionalisti è sempre stato un buco nell’acqua e ancora oggi quell’area è un arcipelago frastagliato di piccoli collettivi, singoli individui, gruppetti che talvolta neanche si parlano tra loro.

Infatti il processone di Marini, cominciato tra squilli di tromba, arresti in mezza Italia e capi d’accusa altisonanti, finì con poche condanne per singoli fatti, con l’associazione sovversiva solo sullo sfondo, priva di reale concretezza nelle prove (e nelle sentenze).

Bonanno ne uscì con una condanna a sei anni per apologia e propaganda sovversiva, senza però reati associativi a suo carico.

L’ultima impresa è dell’ottobre 2009, quando venne arrestato a Trikala, in Grecia, per due rapine. Condannato a quattro anni dal tribunale di Larissa, verrà scarcerato quasi subito perché ormai aveva superato i 70 anni di età.

La sua carriera di uomo d’azione finisce lì, ma quella di teorico è andata avanti fino alla fine, soprattutto grazie alla casa editrice Anarchismo, che ha dato alle stampe tutti i suoi scritti (si contano nell’ordine delle decine) e ospitato svariate curatele.

A dimostrazione di una statura intellettuale fuori dal comune, una volta Bonanno fece arrabbiare – e pure parecchio – niente meno che Jean-Paul Sartre. Nel 1978, per le solite edizioni Anarchismo, uscì un libro a firma del filosofo francese, per la traduzione di tale Giuseppe Alvisi. Titolo: Il mio testamento politico. Dedica in esergo: «Ai miei amici anarchici da me ingiustamente disprezzati e alla memoria del mio amico Camus», a testimonianza di un ravvedimento teorico e della decisione di abbracciare i sin lì sempre disprezzati ideali libertari.

Il testo, peraltro ristampato di recente, è un lungo e sanguinario elenco di nefandezze contro lo Stato, contro la religione, contro l’aristocrazia, contro la società borghese. Si evoca la violenza rivoluzionaria più brutale, l’insurrezione più violenta delle masse proletarie oppresse.

Era un falso, ovviamente. Bonanno si era limitato a tradurre uno scritto – che lui stesso definì «follemente delirante» – dell’anarchico ottocentesco Joseph Déjacque.

La notizia finì comunque su tutti i giornali: La Stampa definì lo scherzo come «opera di imbecilli», il Corriere della Sera ne parlò invece come di un tentativo di suscitare le ire del francese per smascherarne le ambiguità ideologiche. Infatti, via telegramma, Sartre inviò una minaccia di querela alla quale in ogni caso non avrebbe mai dato seguito.

«Era più che evidente che il vecchio stalinista non poteva rivolgersi alla magistratura, proprio per le sue non remote posizioni contro la repressione in Italia», commentò Bonanno, consapevole di averla fatta grossa.

Sommerso dagli eventi e mai in cerca di notorietà, negli ultimi anni Bonanno si era ritirato a Trieste, con la moglie e un figlio che porta il suo stesso nome. Una vita tranquilla, anche se sempre sotto gli occhi della questura, che ha continuato a trattarlo come un nemico pubblico fino alla fine, anche perché il tenore dei suoi scritti non si è ammorbidito con il tempo. Anzi.

Anche per ammissione degli investigatori, però, i legami tra l’insurrezionalismo storico e la cosiddetta Federazione Anarchica Informale sono sempre stati pochi e fortemente conflittuali.

Diverse visioni del mondo, in sostanza, anche se Alfredo Bonanno e Alfredo Cospito erano imputati insieme nel processo Marini (il secondo con una posizione molto marginale, infatti ne uscì quasi subito).

Al vecchio siciliano non è mai piaciuta la componente spettacolare delle nuove leve, pensava che fosse un odioso tentativo di personalizzazione della rivolta. Il dibattito, confinato tra i blog e le pubblicazioni semiclandestine di area anarchica va avanti ancora oggi.

Bonanno ha scritto parecchio al riguardo, con la verve che è riuscito a mantenere fino all’ultimo. Parliamo, infatti, di un intellettuale, anche raffinato nel suo argomentare, oltre che ricercato, quasi vezzoso, nell’eloquio.

Laureato in economia e poi in filosofia (con una tesi su Max Stirner), Bonanno ha lavorato quasi undici anni al Banco di Sicilia e poi per altri sette ha diretto un’industria farmaceutica. Sul punto, in uno degli svariati processi a cui ha partecipato come imputato, un giudice lo provocherà: «Insomma, lei è stato un capitalista».
E lui: «No, capitalista no, però servitore dei capitalisti sì».

Per sua stessa ammissione, infatti, Bonanno non era un ribelle. «Sono sempre stato quello che tristemente si definisce il primo della classe – spiegava di sé –, e resto sempre la stessa persona. Il rifiuto del potere da parte mia non è stato semplicemente una conseguenza del ragionamento, ma anche una questione di cuore».

La sua aspirazione, in fondo, è sempre stata quella di cercare di dar corpo alle idee. E se l’idea di fondo è la libertà, questa non può che essere assoluta, inarrestabile, impossibile da rinchiudere.

Mario Di Vito – il manifesto

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