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Arriva il cinquantennale dell’omicidio Calabresi. E le prime fake news…

Il prossimo anno, il 17 maggio, saranno 50 anni dall’assassinio del commissario Luigi Calabresi: un anniversario che sicuramente verrà colto dall’editoria libraria.

Primo al traguardo è Aurelio Grimaldi, regista e scrittore, autore di Fango. L’omicidio Calabresi e la sinistra italiana, pubblicato in ottobre da Castelvecchi. Tolta una entusiastica recensione apparsa su “il Giornale”, finora il suo libro è passato del tutto sotto silenzio. Merita invece un’analisi puntuale, a beneficio dell’eventuale lettore: perché è stracolmo di falsificazioni.

Il libro è scritto in prima persona, con piglio accusatorio e indignato, ed è fatto di numerosi brevi capitoli (oltre trenta) di poche pagine l’uno. L’autore fin dalla premessa prende un impegno: quello di «liberarmi del peso delle mie eventuali ideologie e di confinare la presenza dei miei dichiarati ideali a doverosa distanza dai fatti che costituiranno l’oggetto di riflessione di questo libro». Con quel “fatti” scritto in corsivo per sottolinearne il peso. Spesso compare pure con l’iniziale maiuscola, a rafforzare il concetto.

È un nobile impegno, quello di basarsi sui fatti invece che sulle ideologie. A patto che i fatti siano tali. E invece sono innumerevoli gli errori fattuali contenuti in Fango. Qui, per ragioni di spazio, ci si concentrerà su un unico capitolo: quello intitolato Certi anarchici. Braschi, Faccioli e Della Savia, alle pagine 126-130. Lette le quali, chi scrive ha ritenuto superfluo affrontare analiticamente la seconda metà del libro.

Grimaldi parte con un errore che pregiudica l’intero breve capitolo, sostenendo che le testimonianze degli anarchici Paolo Braschi, Paolo Faccioli e Angelo Della Savia fecero parte del dibattimento Calabresi-Lotta Continua, quello cioè per diffamazione del commissario da parte del periodico allora diretto da Pio Baldelli. Ma andiamo per punti, restando attaccati ai fatti.

Scrive Grimaldi, proprio nell’attacco: «Il presidente Biotti accoglie anche le testimonianze, chieste dalla difesa, degli anarchici sotto giudizio per attentati bombaroli terroristici». Falso.

Il 2 dicembre del 1970 il tribunale respinse l’istanza per ragioni procedurali, poiché Braschi e Faccioli erano appunto imputati in altro processo. Non vennero quindi mai sentiti. Poche righe dopo, Grimaldi attribuisce a Braschi, Faccioli e Della Savia la stesura di un volantino intitolato “Azione sabotatrice contro la Rinascente”, rinvenuto appunto nei magazzini “Rinascente” di Milano nell’agosto del 1968 assieme a un ordigno inesploso (ma tutto questo l’autore non lo scrive). E si tratta di un’altra circostanza falsa.

Mai infatti in alcun processo è stato loro attribuito quel volantino, poiché mai in alcun processo è stato loro attribuito quel fallito attentato.

Paragrafo successivo: «Nel marzo 1969, l’attivissimo gruppetto tenta il balzo di qualità posizionando tre bombe in luoghi cruciali della capitale: al Senato, al ministero della Pubblica Istruzione e persino nel cosiddetto “Palazzaccio” della Cassazione», si legge. E qui Grimaldi è estremamente impreciso.

Con quelle tre bombe infatti Braschi non c’entra nulla, mai gli vennero imputate. Mentre Faccioli venne ritenuto responsabile (in concorso con Della Savia) dalla sentenza d’assise solo di quella al “Palazzaccio”, venendo peraltro assolto in appello e cassazione. Le tre bombe di Roma sono quindi attribuibili solo a Della Savia.

Per inciso, l’accusa nei loro confronti di reato associativo cadde fin dalla sentenza di primo grado. Subito dopo, Grimaldi parla di un furto di esplosivo confessato dai tre indagati. E anche qui Faccioli non c’entra nulla: lo confessarono solo Braschi e Della Savia, peraltro poi ritrattando (e presto ci arriviamo). Ed è falso che «arsenale e cava furono prontamente ritrovati dalla polizia», come scrive Grimaldi: nella sentenza di rinvio a giudizio, infatti, il giudice istruttore Antonio Amati scrisse che «questo giudice tentò di individuare la cava e disporre indagini in proposito, che non ebbero risultato positivo».

Al processo (ma in realtà già in istruttoria) i responsabili della cava testimoniarono inoltre di non aver subìto alcun furto: e questo fu il dato acquisito in fase dibattimentale.

Si diceva delle ritrattazioni. Scrive Grimaldi: «Due dei tre imputati, Braschi e Faccioli, ma solo dopo la morte di Pinelli e la baraonda fangosa che ne segue, ritrattano le loro pur dettagliatissime (e riscontrate) confessioni e se ne escono, sia nel “loro” processo che in quello di Calabresi contro “Lotta Continua”, sostenendo che fossero state estorte con torture e pestaggi, e dichiarandosi ora innocenti!».

A parte quel «riscontrate», di cui si è detto, i falsi qui si accumulano. Lo si ripete: al processo Calabresi-Lotta Continua Braschi e Faccioli non vennero sentiti come testimoni. Ma soprattutto, le loro ritrattazioni non vennero dopo la morte di Pinelli: Braschi ritrattò già il 30 aprile 1969, Faccioli due giorni dopo. Mentre Pinelli morì precipitando dalla finestra dell’ufficio del commissario Calabresi nella notte tra il 15 e il 16 dicembre di quell’anno.

Entrambi lo fecero quando vennero interrogati non più in questura da agenti, bensì per la prima volta in carcere da un magistrato. Non solo: sia Braschi sia Faccioli confermarono le ritrattazioni la mattina del 18 novembre in sede istruttoria, davanti al giudice Antonio Amati.

È in questa occasione, in particolare, che Faccioli e Braschi parlarono di percosse e minacce da parte della polizia: dunque quasi un mese prima della morte di Pinelli, che dunque, contrariamente a quanto sostiene Grimaldi, non può essere ritenuta causa strumentale delle accuse dei due anarchici alla polizia.

Ancora: scrive Grimaldi, a proposito di Braschi e Faccioli, che «i due imputati ripetono in entrambe le sedi, sia da imputati che da testimoni, di essere stati pestati da Calabresi, Mucilli, Panessa. Il giudice Biotti chiede correttamente loro perché abbiano aspettato oltre un anno a riferirlo. La risposta dice tutto: “Oggi tutto il proletariato sa che Calabresi è un assassino”».

Ma lo si è già detto: Biotti non chiese loro nulla, non furono testimoni al processo che presiedeva. Tant’è che quella risposta citata da Grimaldi proviene dalle cronache di stampa dell’altro processo. È del solo Faccioli, che alla domanda del presidente Curatolo («lei non conferma nulla dei verbali?») replica più precisamente così: «Confermo solo di averli firmati. Il contenuto è frutto delle macchinazioni della polizia che, su episodi insignificanti che mi facevano raccontare, per esempio una gita al mare, un incontro con un amico, ha costruito una serie di accuse fantastiche. Ricordo tra l’altro che Calabresi mi diceva: “Siete quattro gatti, nessuno vi darà ascolto”. E invece si è sbagliato, perché oggi tutto il proletariato…». Eccetera.

Scrive poi Grimaldi che «Della Savia, il terzo imputato non aveva ritrattato né tanto meno accusato Calabresi e agenti di violenze, contraddicendo dunque i suoi due coimputati». Ed è vero. Ma non accusò la polizia di violenze per la banalissima ragione che non venne né arrestato né tanto meno mai interrogato da agenti della (e nella) questura di Milano.

Ad arrestarlo fu infatti la polizia svizzera, il 7 maggio 1969 a Losanna. E in carceri svizzere rimase fino al 4 dicembre, quando venne estradato. Scrivere che ha contraddetto i suoi due coimputati è quindi un falso particolarmente insidioso.

Sempre di Della Savia, peraltro, subito dopo Grimaldi scrive che «condannato in primo grado con i suoi complici ma a piede libero in attesa di appello, morirà per uno strano suicidio quella stessa estate (gas trovato aperto in casa), ma con la testa piena di escoriazioni e la faccia piena di ecchimosi appena precedenti al gesto “suicida”».

Una frase che sembra insinuare che quella morte sia dovuta proprio al fatto di aver “contraddetto” i suoi due imputati. Ebbene, Angelo Della Savia non è affatto morto per uno strano suicidio nel 1971: le ultime notizie, un paio di anni fa, lo davano agricoltore in Lunigiana, sposato e padre di due figli.

Speriamo che l’erroraccio di Grimaldi, come si dice in questi casi, gli allunghi ancor più la vita.

Si arriva ora alla parte in cui Grimaldi cita Camilla Cederna, Enrico Deaglio e Paolo Brogi, in particolare quanto hanno scritto sul processo in cui erano imputati Braschi, Faccioli e Della Savia. E qui occorre fare attenzione, perché la confusione che Grimaldi restituisce al lettore è massima.

Scrive infatti, polemizzando con i tre giornalisti, che «l’inchiesta del commissario (Calabresi) aveva retto la prova d’aula del tribunale causando quelle durissime condanne». Di quel processo, in Corte d’assise, l’autore però non dice tutto.

Ad esempio, che gli imputati non erano solo i tre citati, bensì otto, e che lo erano per un complesso di diciotto attentati avvenuti in tutta Italia tra l’aprile del 1968 e l’aprile del ’69. Dodici di questi attentati erano poi rubricati come strage, il che significa che gli imputati (tranne due, gli unici a piede libero, che rispondevano solo di falsa testimonianza: l’editore Giangiacomo Feltrinelli e la moglie Sibilla Melega) rischiavano dodici ergastoli.

La sentenza di primo grado assolse cinque degli otto imputati: uno di loro per non aver commesso il fatto (Tito Pulsinelli), due per insufficienza di prove (Giuseppe Norscia e Clara Mazzanti), due perché il fatto non sussiste (appunto Feltrinelli e Melega).

Anche la formula dubitativa, peraltro, si trasformò in assoluzione piena in appello e cassazione. Di fronte a cinque assoluzioni (con tre imputati incarcerati ingiustamente per un anno e mezzo) e a tre condanne a pochi anni rispetto al rischio di dodici ergastoli, dire quindi che l’inchiesta di Calabresi aveva retto è come minimo spericolato.

Anche perché quell’inchiesta e l’intero processo si basavano sulle rivelazioni di una “supertestimone”, Rosemma Zublena, confidente proprio di Calabresi: ma a dibattimento se ne riscontrò la totale inattendibilità, scoprendo anche che aveva un passato (giudiziario) di diffamazione continuata. E queste sono tutte circostanze di cui Fango non parla affatto.

Ma appunto, le condanne. Furono effettivamente quelle citate anche da Grimaldi: 8 anni a Della Savia, 6 anni e 10 mesi a Braschi, 3 anni e mezzo a Faccioli. E si tratta sostanzialmente delle stesse pene che vennero chieste dall’accusa in aula (tranne un inasprimento per Faccioli, che peraltro l’appello cancellerà): fu infatti lo stesso pubblico ministero, Antonino Scopelliti, tanti anni dopo vittima della mafia, a smantellare inesorabilmente il teorema accusatorio costruito in istruttoria sulla base delle indagini dell’Ufficio politico della questura di Milano.

Dei diciotto attentati che costituivano l’accusa mossa dalla questura e recepita dal giudice istruttore, infatti, solo sei ressero alla prova del giudizio (e prima ancora alla prova del pm). Anche tutto questo in Fango non lo si legge.

Grimaldi scrive poi che in appello le pene, ridotte, rimasero «pur sempre tra i 3 e i 7 anni». Ed è un altro falso notevole, visto che in secondo grado (sentenza del 7 aprile 1976, confermata in cassazione il 2 dicembre dello stesso anno) le pene furono più che dimezzate. Vediamo.

Si è già detto dell’assoluzione non più dubitativa ma piena per altri due imputati e, per Faccioli, dell’assoluzione per l’unico attentato di cui era stato giudicato colpevole in concorso. Nel dettaglio, per Della Savia la condanna passò da 8 anni a 3 anni e 4 mesi, per Braschi invece da 6 anni e 10 mesi a 3 anni e 2 mesi. La pena finale per Faccioli fu invece di 1 anno e 4 mesi, per il solo reato di porto di esplosivo: e qui siamo a poco più di un terzo rispetto all’assise.

Ricapitolando: in appello e cassazione le pene andarono da 1 anno e 4 mesi a 3 anni e 4 mesi, per Grimaldi invece rimasero «tra i 3 e i 7 anni». E sempre al netto del rischio di dodici ergastoli e delle cinque assoluzioni.

Tra l’altro, va detto che l’istruttoria si era chiusa con il proscioglimento di altre due persone, una coppia (Giovanni Corradini ed Eliane Vincileoni): cioè i primi due arrestati nell’inchiesta del commissario Calabresi. Vennero liberati a novembre del 1969, dopo oltre sei mesi di carcere.

Fin qui l’esame di cinque sole pagine su 260. E il resto? Servirebbe un altro libro per elencare errori e falsificazioni. Se ne citano qui solo alcuni, a volo d’uccello, e solo per le pagine che precedono il capitolo esaminato.

Pagina 17, sulla strage di Piazza Fontana e la questura di Milano che fin dalle prime battute indagava su terroristi sia di sinistra sia di destra: Grimaldi non si accorge di essere lui stesso a smentirsi, scrivendo che «infatti, i fascisti veneti saranno presto e altrove indagati», ma appunto altrove, non certo da parte della questura di Milano.

A pagina 19, sui depistaggi anti anarchici da parte della questura, Grimaldi scrive che «era noto già a suo tempo che l’ufficio Affari Riservati (…) avesse subitamente inviato a Milano, quello stesso 12 dicembre, il dirigente Silvano Russomanno per affiancare, con alcuni agenti, il questore Marcello Guida, il dirigente Antonino Allegra e, nel fondo della gerarchia, il commissario Luigi Calabresi; portando con sé la lista “informativa” degli estremisti sotto loro osservazione, composta in prevalenza da anarchici»: no, a suo tempo non era noto affatto, si è dovuto attendere il 1997 perché la notizia emergesse in interrogatori (e il 2013 perché venisse valorizzata in un libro di Gabriele Fuga ed Enrico Maltini, libro poi ampliato nel 2016).

Grimaldi avrebbe dovuto invece chiedersi perché per quasi trent’anni questa circostanza sia stata tenuta nascosta.

Ancora, a pagina 27, Grimaldi scrive delle bombe del 25 aprile 1969 a Milano, alla Fiera campionaria e alla Stazione centrale, che fecero venti feriti, «bombe fatte attribuire dai fascisti agli anarchici perché perfettamente imitanti quelle (anarchiche) di un mese prima»: gravemente falso, erano invece per la prima volta ordigni sofisticati, con un timer, diversissimi da quelli rudimentali delle azioni dimostrative anarchiche, e soprattutto non rivendicati (gli anarchici rivendicavano puntualmente) e fatti esplodere in luoghi pubblici e affollati (mentre gli anarchici sceglievano posti isolati e orari notturni).

Per dire che di quelle bombe del 25 aprile, attribuite dalla questura proprio a Faccioli e Della Savia (poi assolti), era facile intuire fin dall’inizio una matrice diversa.

Lo spazio impone di fermarsi qui, poiché è impossibile dare conto di tutti gli svarioni di Grimaldi pagina per pagina. Prendendone uno per tutti, è comunque sufficiente leggere dell’agente di polizia Antonio Annarumma, morto il 19 novembre 1969 a Milano in seguito a scontri di piazza durante una manifestazione sindacale.

Siamo a pagina 79, dove Grimaldi scrive che Annarumma è stato ucciso da uno sparo. E lo fa con la retorica che caratterizza il suo intero libro: «Chi ha sparato? Qualcuno di sinistra, visto che in campo c’erano i sindacati dei lavoratori (di sinistra) contro gli studenti sedicenti difensori della “classe operaia” (di estrema sinistra). In questa guerriglia civile, qualcuno irrimediabilmente di sinistra ha sparato e ucciso un figlio del proletariato del Sud di appena 22 anni pagato, davvero poco, dal governo democristiano per garantire il rispetto dello stato di diritto».

Ora: Annarumma, impossibile non saperlo se ci si occupa di storia d’Italia, morì colpito da un tubolare di ferro asportato da un cantiere, non per uno sparo, e i manifestanti non erano affatto in contrapposizione tra loro.

Prima che scrittore, Grimaldi è regista. Sicuramente starà pensando anche a un film. Meglio restare in guardia.

 * Giornalista – da Huffington Post

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