Tre giorni di manifestazioni, originariamente pacifiche sin che si vuole, ma che hanno provocato una reazione durissima della polizia, hanno riportato la Tunisia sull’orlo di una crisi – politica, ma soprattutto per la sicurezza – di esiti oggi difficilmente ipotizzabili. Coprifuoco nella ‘Grand Tunis’ dalle 21 alle 5, imposto sabato sera e subito attuato, quando ancora molta gente era in giro a passeggiare per le strade della capitale o a cenare nei ristoranti delle zone turistiche; piccoli centri delle regioni più disagiate teatro di vere e proprie azioni di guerriglia urbana; clima politico e istituzionale pericolosamente vicino ad un punto di non ritorno. Certamente, chi ha vissuto e animato le esaltanti settimane della «rivoluzione dei gelsomini», sperando in un futuro migliore per il Paese, oggi deve confrontarsi con disordini e saccheggi che nella capitale sono «ammantati» di politica, ma che nelle altre zone della Tunisia sono conseguenza della delusione di vedere ancora lontani gli obiettivi della democrazia e del benessere economico. Oggi a Tunisi la polizia ha sparato gas lacrimogeni per disperdere una folla di dimostranti che chiedevano le dimissioni del governo e del primo ministro Beji Caid Sebsi. I disordini di sabato mattina (nella centralissima avenue Bourghiba, dove ha sede il ministero dell’Interno) hanno avuto un pesante bilancio, in termini di danni materiali: si contano a decine i negozi. A Sidi Bouzid, la città da dove è partita, in dicembre, l’onda lunga della rivolta, sono stati assaltate e incendiate caserme della polizia e della Guardia nazionale. Gli incidenti di Tunisi hanno avuto come conseguenza anche l’arresto di una settantina di persone. Molte di loro, ha voluto precisare il Ministero dell’Interno, per fare capire quali possano essere le reali motivazioni che le hanno spinte a scendere in strada, hanno precedenti penali. E intanto il ministro dell’Interno in prima persona, Hebib Hessid, ha dovuto scusarsi con i vertici del Sindacato nazionale dei giornalisti tunisini per il pestaggio di una quindicina di cronisti (anche di testate straniere) che giovedì si trovavano in avenue Bourghiba per seguire gli incidenti e che, per ammissione delle autorità di sicurezza tunisine, hanno subito violenze da parte degli agenti «nel corso – si legge in un comunicato – del compimento del loro dovere professionale». Una frase che è più di un’ammissione di colpa e che ha un grande valore nel momento in cui lo stesso Ministero ha annunciato di avere avviato una inchiesta per i pestaggi e che sono stati già individuati gli agenti di polizia che hanno picchiato i cronisti, alcuni dei quali hanno anche avuto macchine fotografiche e pc portatili fracassati.
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