Anche il prestigioso New York Times ha fatto il suo “santino”, dipingendolo sì come un ex comunista, ma di quelli buoni. Uno che già al tempo dell’invasione della Cecoslovacchia stava “dalla parte dell’Occidente”.
Falso, naturalmente. A quel tempo di comunisti in giro ce n’erano così tanti, e di così tante scuole di pensiero, che si poteva tranquillamente essere contro l’invasione di Praga e “marxisti-leninisti” o addirittura maoisti, oppure a favore e “miglioristi” del sistema capitalistico. Ecco, Napolitano stava in quest’ultima inguardabile pattuglia.
E “il manifesto”, giustamente, ci tiene a ricordare che fu espulso proprio dai vari Napolitano e Cossutta, senza aver però condiviso con loro altro che la tessera.
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Comunisti e «improvers»
Il Nyt inciampa, però, quando comincia a scavare nel passato da comunista di Napolitano, un pezzo di geografia politica su cui in America si va spesso in confusione. Tutto bene finché il giornale ricorda il primo viaggio del dirigente del Pci negli Stati Uniti nel 1978 (aggiungiamo che la visita fu preparata con l’aiuto dell’allora corrispondente dell’Unità Gianfranco Corsini, e che Napolitano esibì subito un corretto inglese); e ancora come Henry Kissinger pare lo abbia chiamato il suo «favorite Communist» (il comunista preferito); e la collocazione di Napolitano nel Pci dei tempi, nell’«ala più conservatrice del partito, conosciuta come quella dei miglioristi (“the improvers”)». Ma a un certo punto, nel lungo ritratto si legge che «nel 1969, egli fece parte di un gruppo di comunisti italiani che ruppero con il Cremlino criticando la repressione della Primavera di Praga». Eh no, cari colleghi americani, Napolitano proprio no. Se insistete, ok per santo subito, ok al «quiet power broker» in una repubblica in cui la presidenza ha poteri «largamente simbolici»: ma a criticare la repressione di Praga furono altri nel Pci. Che finirono espulsi e fondarono questo giornale. Oggi il manifesto risulta essere letto con molta attenzione al Quirinale. Ma come si dice, a ciascuno il suo.
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