“I carri armati americani si muovono come se passassero sui cuori e sulle anime degli Iracheni”. Sono dirette le dichiarazioni del portavoce del governo iracheno, Ali al Dabbagh, rilasciate durante un’intervista alla televisione di Stato. Ancora più forti perchè pronunciate nel giorno in cui nel paese è sbarcato il vice presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, arrivato a Baghdad in visita nel quadro del completamento del ritiro delle truppe di Washington dal Paese. Oggi le forze armate statunitensi hanno consegnato al governo iracheno la loro più grande base nel Paese, la Victory Base Complex, vicino a Baghdad, già sede del comando Usa, dove fu anche tenuto prigioniero l’ex dittatore Saddam Hussein.
Proprio in vista della fine ufficiale dell’occupazione militare statunitense del paese arabo – in realtà in Iraq rimarranno migliaia di consultenti e militari oltre all’esercito dei contractor – i giudizi sull’invasione da parte di Washington sono sempre più netti ed emotivi, anche quando provengono dal nuovo establishment iracheno. Secondo alcune stime ritenute oltretutto prudenti, sarebbe di almeno 110 mila il numero delle vittime della guerra scatenata dagli Stati Uniti e dai loro alleati nel 2003. “La presenza americana in Iraq ha causato molto danno al Paese”, ha dichiarato Dabbagh, denunciando “la morte di centomila iracheni per mano di soldati Usa”.
Intanto nel paese il caos sembra regnare sovrano: secondo il rapporto mensile dei ministeri della Difesa, dell’Interno e della Salute, a novembre è di 187 morti e 325 feriti il calcolo delle vittime di scontri armati e attentati terroristici. Attualmente rimangono in Iraq circa 12.000 soldati Usa, rispetto ad un massimo di 170.000 raggiunto nel momento più caldo della guerra.
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