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Analisi della manovra 2: addio alle pensioni

Le pensioni sono il campo dove il governo ha fatto le scorrerie più sanguinose. E se dobbiamo dar retta al commento di Davide Colombo e Marco Rogari su Il sole 24 Ore, non è nemmeno finita qui.

Confermate le peggiori previsioni della vigilia:

  • il sistema di calcolo col “contributivo” viene esteso a tutti, anche a chi aveva più di 18 anni di servizio prima del 1995 (al tempo della “riforma Dini”); è da ricordare che il “retributivo” era stato introdotto nel 1976 proprio per sostituire il “contributivo” (l’ammontare dell’assegno viene calcolato ai contributi effettivamente versati), che aveva prodotto una marea di “pensionati poveri”; ora si torna a quello scenario sociale;

  • viene cancellata “l’anzianità” – ovvero la possibilità di lasciare il lavoro dopo 40 anni, anche se non è è ancora raggiunta l’età minima pensionabile; il minimo diventano infatti 42 anni di contributi, con “disincentivi” (un assegno pensionistico più magro) per coloro che intendono avvalersi di questa possibilità prima del raggiungimento dell’età pensionabile: il 3% dell’assegno per ogni anno prima dei 62;

  • contemporaneamente viene cancellata la “rivalutazione” dell’assegno in base all’aumento dell’inflazione;

  • età pensionabile che viene a sua volta innalzata, in modo da accorciare il più possibile il periodo della vita in cui si percepisce l’assegno pensionistico (l’ideale capitalistico è un’età pensionabile che coincide con le aspettative di vita); le donne che lavorano nel settore privato andranno in pensione a 62 anni, a partire da gennaio, qualsisai sia la loro “anzianità”, e gradualmente si arriverà ai 66 anni nel 2018;

  • per gli uomini la “vecchiaia” si raggiunge a 66 anni da subito;

Relativamente al “pezzo” qui allegato, bisogna sottolineare alcune falsità palesi.

Ad esempio, si dice che l’”anzianità” sia un’”anomalia italiana”. In Germania l’età pensionabile “teorica” è a 65 anni, quella “effettiva” a 61,8. Magari non si chiama anziantià, ma c’è sicuramente un meccanismo analogo che consente – a determinate condizioni – di lasciare il lavoro prima senza penalizzazioni.

E’ falso che siano “i giovani” a “pagare” la pensione ai padri. La pensione è “salario differito”, ovvero una quota del salario “trattenuta” ogni mese e accantonata (nell’Inps o in altri istituti previdenziali), che viene “restituita” al momento del ritiro. Quindi chi va in pensione se l’è già pagata.

Sul piano linguistico, infine, non si riesce proprio a capire perché elevare l’età pensionabile sarebbe una “scalta coraggiosa”. A noi sembra soltanto “prepotente”, un atto d’imperio crudele e senza senso economico-produttivo: quale azienda si tiene al lavoro un ultra-60enne, se non nei ruoli di dirigente o comunque “concettuali”?

Chiarissimo invece cosa la borghesia italiana intenda per “equità”: quella “attuariale”: ossia “quando a tutte le storie contributive e pensionistiche individuali è garantito lo stesso tasso di rendimento interno”. Che c’entrano le classi e le persone…

Anche la scheda de Il Sole è un capolavoro di eufemismo: l’impossibilità pratica di uscire dal lavoro diventa “la strada stretta”. Chissà come avrebbero chiamato le forche caudine…


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Il coraggio dell’equità per chiudere il cantiere

Davide Colombo e Marco Rogari

Il cantiere delle pensioni può finalmente chiudere i battenti. Almeno per un po’ di tempo. Il Governo Monti, sotto la spinta del ministro del Lavoro Elsa Fornero, è riuscito a mettere insieme in un colpo solo, e per decreto, una lunga serie di interventi invocati da più parti da lunghi anni.

Quella di superare subito l’ormai antica anomalia dei pensionamenti di anzianità e quella di far salire significativamente la soglia di vecchiaia di lavoratori e lavoratrici è una scelta coraggiosa. E lo è ancora di più considerando che quello presentato dal Governo e un piano all’insegna dell’equità tra generazione, come hanno tenuto a sottolineare il ministro e lo stesso presidente del Consiglio.
Ai giovani toccherà ancora “pagare” le pensioni dei padri ma con la garanzia che qualche elemento in più di equità sarà garantito. La decisione di adottare immediatamente e a tutto campo il metodo contributivo vincolando maggiormente l’importo degli assegni ai contributi effettivamente versati, così come il ricorso a un contributo di solidarietà nei confronti di chi continua a godere di trattamenti privilegiati vanno chiaramente in questa direzione.

E anche la scelta di ricorrere a un meccanismo di uscite flessibili premiando chi resta più a lungo al lavoro rispetto a chi opta subito per il pensionamento è un messaggio rassicurante per la solidità del sistema e per chi guarda. Dal cantiere infinito delle pensioni si esce con la nascita di Super Inps e l’avvertimento molto forte mandato alle casse privatizzate: per loro il passaggio al contributivo impone l’adozione di misure urgenti (entro il prossimo mese di marzo) per garantire l’equilibrio previdenziale dei bilanci. È un’altra faccia dell’equità attuariale promessa della riforma.


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La scheda de Il Sole chiarisce come il sistema di “incentivi” e “disincentivi” obblighi di fatto i lavoratori a “scegliere” l’età pensionabile più alta, pur di mantenere un assegno pensionistico non troppo penalizzato.

 

Strada stretta per l’uscita anticipata

 

Nella previdenza «a due vie», ordinaria o anticipata, disegnata dalla nuova riforma, il dato chiave per capire se si potrà salire sul primo binario o bisognerà attendere l’assegno di vecchiaia è la data di ingresso al lavoro. A regime, il discrimine dovrebbe attestarsi in genere attorno ai 25 anni: chi ha iniziato prima, e ha versato i contributi con regolarità, potrà utilizzare la prima via, che permette di lasciare il lavoro dopo 42 anni di contributi (42 anni e 3 mesi dal 2014), gli altri dovranno attendere l’età minima per l’uscita di vecchiaia: età che dal 2012 si alza a 66 anni, ed a 66 anni e mezzo nel caso dei lavoratori autonomi.La nuova architettura previdenziale, che entra in vigore da gennaio (con possibilità, per chi matura i requisiti prima, di farselo certificare), elimina i bizantinismi che fino a oggi hanno complicato il calcolo, comprese le finestre «mobili» che ritardano di un anno l’uscita dei dipendenti e di 18 mesi quella degli autonomi.

Per preventivare il proprio futuro previdenziale, occorre ora tenere conto solo di due fattori: i requisiti (42 anni e 3 mesi di contributi per l’anticipata, 66 anni di età per la vecchiaia dei dipendenti, 66 e 6 mesi per gli autonomi), e l’impatto degli incrementi automatici legati alla speranza di vita, che la riforma non abroga. Secondo le previsioni della Ragioneria generale, gli incrementi periodici chiederanno un anno in più dal 2022, due anni in più dal 2031 e imporranno ulteriori passaggi d’anno nel 2040 e 2052. Il tutto vale dal 2012 per gli uomini e le donne del pubblico impiego, e dal 2018 (con avvicinamento graduale) anche per le lavoratrici del settore privato.

Qualche esempio aiuta per iniziare a districarsi nelle nuove regole (con l’avvertenza che la tabella a fianco, come quella pubblicata nella pagina precedente e riferita alle donne del settore privato, ipotizza per uniformità che l’ingresso al lavoro sia avvenuto sempre al 1° gennaio): un lavoratore nato nel 1955, se ha iniziato a lavorare a 18 anni, matura i requisiti nel 2015, dopo aver accumulato 42 anni e tre mesi di contributi. Attenzione, però: se deciderà di andare in pensione, subirà un taglio del 9% (3% per ogni anno inferiore a 63), che potrà essere evitato aspettando fino al 2018. La penalizzazione diventa ancora più pesante per chi ha iniziato prima: entrando al lavoro a 14 anni, si matura il diritto ad uscirne a 56, ma la sforbiciata sarà del 21 per cento.
Le dinamiche del sistema, però, porteranno la tagliola a scattare sempre meno nel tempo. Fra un ventennio, a meno di impreviste inversioni nell’aspettativa di vita, occorreranno più di 44 anni di contributi per il pensionamento «anticipato», per cui la penalizzazione potrebbe scattare solo nei confronti di sceglie questa strada avendo iniziato a lavorare prima della maggiore età.

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L’esercizio fatto da Repubblica sui nati tra il 1951 e il ’52

 

Sono i nati del 1952 i più penalizzati dalla riforma del sistema pensionistico varata dal governo Monti. Per la classe ’52, infatti, è previsto un posticipo della pensione che rischia di arrivare fino a cinque anni rispetto ai più fortunati nati nel 1951, magari pochi giorni prima. E anche per questi ultimi l’uscita in tempi brevi verso la pensione dipende dagli anni di lavoro fatti (è salvato chi lavora almeno dal 1975 e ha raggiunto i 36 anni di contributi nel 2011 mentre dovrà lavorare ancora a lungo chi ha cominciato nel 1976).

Ecco in sintesi alcuni esempi simulati di persone che potrebbero uscire o, al contrario, restare bloccate dalla riforma annunciata, che prevede per gli uomini 66 anni di età per la vecchiaia, 42 anni di contributi per la pensione anticipata e per le donne 66 anni per la vecchiaia dal 2018, 41 anni di contributi per la pensione anticipata.

Uomini. Nato nel 1952 – Compie 60 anni a gennaio del 2012, lavora dal 1976, sperava di andare in pensione di anzianità a gennaio 2013, una volta raggiunti i 60 anni e i 36 di contributi e attesa la finestra mobile di 12 mesi. Viene invece bloccato dall’abolizione delle quote e dall’innalzamento dei requisiti per l’anzianità: potrà lasciare il lavoro solo nel 2018 quando avrà 66 anni di età e 42 di contributi.

Nato nel 1951 – Nato a dicembre del ’51, nel 2011 compie 60 anni di età e 36 di contributi riesce quindi ad andare in pensione con i requisiti

attuali, una volta attesi i 12 mesi di finestra mobile, a dicembre 2012 quando avrà  61 anni di età. Avrà la pensione calcolata interamente con il metodo retributivo (requisiti raggiunti entro il 2011).

Nato nel 1951, ma contributi insufficienti – Ha compiuto 60 anni, ma non i 36 di contributi necessari a raggiungere la quota 96 entro il 2011. Sperava di uscire nel 2013 (una volta raggiunti i requisiti nel 2012 e attesa la finestra mobile); invece dovrà attendere il 2017 quando avrà 66 anni di età e il diritto alla pensione di vecchiaia. La sua pensione sarà calcolata con il retributivo fino al 2011 e con il contributivo tra il 2012 e il 2017.

Donne. Nata nel 1951, dipendente privato – Va in pensione di vecchiaia nel 2012, una volta raggiunti 60 anni di età e decorsi i 12 mesi di finestra mobile.

Nata nel 1951, dipendente pubblico
– Va in pensione di vecchiaia nel 2017 a 66 anni poiché dal 2012 il requisito per la vecchiaia passa da 61 (più 12 mesi di finestra mobile) a 66. A meno che non abbia 41 anni di contributi e quindi abbia cominciato a lavorare prima del 1976.

Nata nel 1952, dipendente privato – Dal 2012 il requisito per le pensioni delle donne sale a 62 anni, ma dovrebbe salire di un ulteriore anno nel 2014. Uscirà quindi nel 2015, a meno che non abbia cominciato a lavorare prima del 1974 e abbia quindi 41 anni di contributi prima di quella data.

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2 Commenti


  • Colombo Vittorio

    Cari signori siete convinti che anche i vostri iscritti condividano questa manovra?Anche se usate l’alibi che saremo andati a ramingo,non vi crede neanche CACCAMO!!


  • Antonio Neglia

    vorrei proporre a lor SIGNORI un semplice compitino per casa: mettetevi IN PIEDI alle ore 08 ,00 del mattino , davanti a un mobile solo guardandolo; se fa freddo aprite tutte le finestre e porte, se fa caldo chiudete; questo per simulare l’ambiente delle fabbriche. Alla fatica di stare in piedi in quella condizione , aggiungete il dover lavorare certificando a fine giornata , la produzione effettuata. IL tutto moltiplicatelo per QUARANTA ANNI o quasi e il risultato recapitarlo al sig “monti” e alla sua scudiera “fornero”. E’ un esercizio molto semplice ; bisogna solo eseguirlo alla lettera scrupolosamente

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