La vera misura del “segno di classe” della manovra si nasconde nelle pieghe dell’azione sull’Irpef (imposta sulle “persone fisiche”, che a noi normali lavoratori si manifesta come trattenute in busta paga, con aliquote crescenti col crescere del reddito).
Per giorni avevano fatto girare l’ipotesi innalzare dal 43 al 46% l’aliquota per i redditi al di sopra dei 75.000 euro annui. Veniva presentata come il contrappeso necessario all’azione contro le pensioni per rendere evidente l’”equità” complessiva della manovra.
Al momento della presentazione però quest’ipotesi è scomparsa senza lasciare traccia. Quei redditi elevati (da 75.000 euro in su, che diamine…) pagheranno esattamente come prima. Gli introiti che sarebbero stati possibili sono stati assicurati con un aumento dell’addizionale regionale Irpef – quella che le Regioni possono imporre, e lo fanno ormai sempre al massimo delle possibilità legali, vista la drastica riduzione dei trasferimenti dallo Stato centrale agli enti locali – dallo 0,9 all’1,23% e con un aumento di due punti dell’Iva, che scatterà erò il 1 settemrbe dell’anno prossimo.
Cosa cambia?
Beh, l’Irpef la paghiamo proprio tutti (almeno noi lavoratori dipendenti, che non possiamo proprio evaderla). Quindi è un aumento delle tasse che riguarda chiunque abbia un reddito. La misura è in percentuale, quindi chi guadagna poco pagherà di meno. Ma è vero anche che proprio chi gudagna poco “soffe” di più per ogni singolo euro in meno sulla busta paga, mentre al di sopra dei 75.000 ci si fa certamente meno caso…
Peggio ancora con l’Iva. Questa è una tassa sui consumi. La si paga quando si acquista qualcosa. Esistono diverse aliquote Iva: 4%, super-ridotta, applicata ad esempio alle vendite di generi di prima necessità (alimentari, stampa quotidiana o periodica, ecc.); 10%, ridotta, applicata ai servizi turistici in Italia per incentivare il turismo (alberghi, bar, ristoranti e altri prodotti turistici), a determinati prodotti alimentari (tipo la carne) ed a particolari operazioni di recupero edilizio; 21%, aliquota ordinaria, applicata in linea generale a tutti i beni e servizi per i quali non è prevista specificamente una delle due aliquote precedenti.
Dal primo settembre le avremo al 4, al 12 e al 23%. Mangeremo meno carne, andremo meno al ristorante e in pizzeria, cercheremo di girare meno in macchina (oltre alle “accise”, sulla banzina si paga l’Iva sulla somma di prezzo industriale più accise) e così via. Ache l’Iva, infatti, è una tassa che colpisce indistintamente tutti, a prescindere dal reddito. Ed è altrettanto ovvio che pesa di più sui redditi bassi che non su quelli alti.
In definitva, dunque, si è rinunciato a colpire selettivamente – ancorché poco più che simbolicamente – i redditi alti o altissimi. E si è “spalmato” l’effetto-entrata sull’intera popolazione, sia cche percepisca un reddito (già falcidiato dall’aumento dell’Irpef) che no.
Si dice che questo sia un accenno di passaggio “dalla tassazione dei redditi alla tassazine dei consumi”, come avviene in altri paesi europei.
E’ un falso. Sarebbe vero se, come in Francia e in Germania, si togliesse la “tassazione alla fonte” (le trattenute Irpef in busta paga), obbligando anche i dipendenti non proprietari a presentare la dichiarazione dei redditi (portando a detrazione un gran numero di fatture e scontrini). Ma finché si mantiene questo sistema, un aumento dell’Irpef e il contemporaneo aumento dell’Iva significa raddoppiare il peso fiscale sui redditi da salario o da pensione, mentre si sfiora soltanto quelli elevati.
Un esempio di “equinità” asinina. Un insulto all’intelligenza e alla vita concreta della maggioranza della popolazione.
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