Rappresentanza sindacale a rischio proprio nel momento in cui ce n’è più bisogno, tra la crisi e un governo «piovuto dal cielo» che sta stravolgendo le mercato del lavoro. Senza naturalmente dimenticare il «modello Marchionne» che elimina del tutto il sindacato che non sia preventivamente d’accordo con l’azienda. La domanda è semplice: chi è che rappresenta legittimamente i lavoratori? In base a quali criteri?
Domande aumentate dopo l’accordo siglato da Cgil, Cisl e Uil con Confservizi, che ricalca per intero quello interconfederale del 26 giugno. Qui la «rappresentatività nazionale» e aziendale minima viene posta al 5%, come media ponderata tra iscritti e voti ricevuti alle elezioni Rsu. Come nel pubblico impiego, ma con qualche differenza pratica. Un accordo, per esempio, è valido se firmato dalla maggioranza dei componenti delle Rsu. Dove invece ci sono le Rsa (nominate dai sindacati stessi) è possibile chiederne l’abrogazione tramite referendum tra i lavoratori interessati. Ma per chiedere il voto bisogna raccogliere, entro 10 giorni dalla firma dell’accordo, il 30% delle firme tra tutti i dipendenti. Difficilissimo in un posto come la Fiat, dove ci sono ancora grandi concentrazioni di lavoratori; assolutamente impossibile nei servizi pubblici locali (trasporto, acqua, gas, municpalizzate). Non è difficile prevedere che non ci sarà mai nessun referendum.
Il tema della rappresentanza in effetti è anche uno dei temi della piattaforma per lo sciopero generale del 27 gennaio contro il governo, indetto dal sindacalismo di base e che ricevendo adesioni imprevedibili prima.
Ma di rappresentanza si parlerà scientificamente nel convegno indetto dal Forum diritti lavoro, martedì 24, alla Provincia di Roma. Si troveranno fianco a fianco delegati e sindacalisti Usb e Fiom (Giorgio Cremaschi, ma non solo), giuristi e responsabili lavoro di Pd, Idv, Prc, Sel. I primi, per mostrare che su certe questioni contano le posizioni di merito, non di sigla. I secondi, per non perdere il contatto con la parte ancora viva del paese.
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