Ennesima aggressione tra i vicoli del Portico D’Ottavia, il quartiere del centro di Roma che viene ancora chiamato “il Ghetto”. L’articolo de Il Fatto che riproduciamo più sotto, dettaglia molto bene la denuncia di quanto accaduto. Non è la prima volta che i gruppi paramilitari della comunità ebraica romana pestano persone che commettono “l’errore” di manifestare per la Palestina o di allestire nel centro mostre sgradite ai sostenitori di Israele (vedi Mèdecins Sans Frontiers) o di transitare per le strade del ghetto con la kefiah. Tre anni fa le reti solidali con la Palestina produssero un vero e proprio dossier dopo l’ennesima aggressione, in quella occasione sulla scalinata del Campidoglio. Nel dossier erano contenuti i dettagli di tutte le aggressioni avvenute nella Capitale dal 2002 e riconducibili agli ambienti della comunità ebraica, o comunque a settori riconoscibili di essa. Con modalità squadristiche che portano lo stesso presidente della comunità ebraica romana, Riccardo Pacifici, ad evocare Casa Pound, forse involontariamente e non accorgendosi della gaffe.
Le ripetute denunce delle aggressioni non contro ma dentro il quartiere ebraico, non hanno mai prodotto effetti giudiziari contro gli aggressori, confermando, in sedicesimo, la stessa impunità di cui la politica israeliana gode a livello internazionale. Un clima che va ben oltre la “tolleranza” e che di fatto produce nella città zone proibite, nelle quali la stessa legalità valida per tutti gli altri subisce una deroga non scritta, una extraterritorialità di fatto che politica e magistratura dovrebbero prima o poi giustificare in modo piuttosto convincente. La Digos spesso ha raccolto materiale, anche fotografico, ha inoltrato le denunce… ma tutto è sistematicamente scomparso nel “porto delle nebbie” ossia la Procura della Repubblica di Roma.
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L’articolo de Il Fatto Quotidiano
Pestati da una banda al ghetto ebraico di Roma”. Pacifici: “Qui non ci sono ronde”
La denuncia di quattro ragazzi un anno dopo l’aggressione contro gli attivisti del Teatro Valle: “Erano in quindici tutti armati di spranghe. Ci hanno minacciati di morte e poi picchiati”. Il presidente della Comunità: “Se vado a togliere una bandiera sotto Casapound cosa succede?”
Una denuncia che suona come un refrain. Ancora un’aggressione, ancora una squadraccia e ancora al quartiere ebraico di Roma. Era il 18 novembre 2012 quando il FattoTv raccolse e pubblicò la testimonianza di alcuni attivisti del Teatro Valle vittime, qualche giorno prima, di un pestaggio ad opera di ignoti nei vicoli dell’antico ghetto della Capitale. “Sabato scorso la storia si è ripetuta”, raccontano quattro ragazzi finiti malconci al pronto soccorso. Simile, se non uguale, la reazione del presidente della Comunità ebraica romana Riccardo Pacifici: “Le ronde da noi non esistono. Abbiamo un servizio d’ordine composto da genitori e nonni che operano congiuntamente alle forze dell’ordine”.
Ma la ricostruzione dei quattro ragazzi racconta un’altra storia e assomiglia in maniera inquietante all’episodio dell’autunno 2012. “Erano circa le quattro del mattino e, dopo una serata trascorsa in un locale in centro, siamo andati a mangiare una pizzetta in un forno aperto di notte dalle parti di via del Portico d’Ottavia”, racconta Vladimiro, una delle vittime. Dopo lo spuntino i giovani si incamminano verso casa e si imbattono in un cartello con scritto “Sharon uno di noi” dedicato all’ex premier israeliano scomparso proprio quel giorno. A quel punto il ragazzo, inconsapevole delle conseguenze del suo gesto, ha una pessima idea: strappa dal muro l’epitaffio in memoria dell’anziano leader. “Dopo neanche un minuto – spiega Andrea, un’altra vittima – ci siamo visti piombare addosso una quindicina di giovani armati di mazze da baseball, spranghe di ferro e un martello”.
Prima le minacce, poi le botte. “Ci intimidiscono al grido di ‘da qui non uscite vivi’ e ‘vi spacchiamo la faccia‘ – continua Vladimiro – In seguito ci intimano di inginocchiarci, ma subito dopo di andarcene. Quando tentiamo la fuga sono iniziate le mazzate”. Contusioni pesanti, tutte refertate dai medici del pronto soccorso. Il protagonista dell’azione contro il manifesto di Sharon subisce il colpo più pesante: una mazza gli apre una ferita sulla nuca ricucita con alcuni punti di sutura. Gli altri se la cavano con ematomi, lividi e escoriazioni sulla schiena e sugli arti. Di corsa riescono a raggiungere il gabbiotto dei Carabinieri di fronte alla Sinagoga, i militari li soccorrono e chiamano il 118 e in ambulanza arrivano all’ospedale.
Sono finalmente al sicuro e sanno che poteva andare molto peggio, rimane lo spavento e una serie di interrogativi. Primo su tutti l’identità degli aggressori: “Non avevano simboli politici, ma barbe folte e alcuni di loro indossavano la kippah (tradizionale copricapo ebraico, ndr)”, ricostruisce Vladimiro che continua: “La cosa che più ci ha colpito, a parte la violenza, è il fatto che sembrava un’azione coordinata e premeditata, come se ci stessero aspettando. Il capobanda a un certo punto ha intimato ai suoi sgherri di andare a prendere altre spranghe nascoste in un’auto posteggiata lì vicino”.A differenza del pestaggio di novembre 2012, le vittime non sono riuscite a filmare l’aggressione e, in assenza di immagini, le uniche prove sono i loro ricordi. Infatti per il numero uno della comunità ebraica sono “episodi tutti da verificare, si sarà trattato di una rissa da sabato sera”. Poi Pacifici si lancia in un paragone quanto mai azzardato: “Se qualcuno va a togliere una bandiera sotto Casa Pound, secondo lei cosa succede? La provocazione viene fatta passare indenne?”. Come se la sede dei fascisti del terzo millennio e le vie di un rione di Roma fossero la stessa cosa, luoghi in cui all’occorrenza si può anche fare valere la legge del taglione.
“Non avrei dovuto strappare quel manifesto e mi assumo la responsabilità del mio gesto”, ammette Vladimiro che però non riesce a capacitarsi “come nel 2014 certa gente possa considerare parte della città ‘roba loro’ tanto da auto-organizzare gang di delinquenti”. In attesa delle indagini dei Carabinieri, ai quali le vittime hanno sporto denuncia, la risposta la fornisce sempre Pacifici: “Questa è una comunità che in qualche maniera si deve tutelare. Conosciamo bene i gruppi neonazisti di Roma. Se vengono qui trovano qualcuno che li aspetta, fa parte del gioco”. Ma non chiamatele ronde.
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Qui di seguito alcune notizie sulle aggressioni avvenute a Roma in questi anni da parte di squadristi appartenenti a gruppi ultrasionisti della comunità ebraica di Roma
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