Queste ore hanno in tutti noi prodotto sconcerto e tanta rabbia, amplificata adesso dalla conferma degli arresti domiciliari per Sergio e l’obbligo di firma per Irene in attesa dell’udienza del 18 settembre. I due compagni sono stati arrestati ed accusati di lesioni aggravate, resistenza ed oltraggio a pubblico ufficiale. Ciò è avvenuto in occasione di un presidio in risposta alle farneticanti dichiarazioni di un consigliere comunale che, con il pretesto del decoro urbano – inneggiando alla repressione, agli sgomberi, al ricorso alla psichiatria – criminalizzava ogni forma di disagio sociale, marginalità, e opposizione.
Da parte nostra la mobilitazione non si ferma: attraverseremo la città, piazze e quartieri in un percorso che vogliamo collettivo, determinato e fortemente comunicativo. Perché il 18 intendiamo portare davanti al tribunale tutta lo sdegno e la determinazione di chi ha deciso di ribellarsi ad ingiustizie e deliri fascistoidi.
Sappiamo infatti che Irene e Sergio sono sotto processo non per quello che (non) hanno fatto, ma per quello che sono. Pagano la colpa di appartenere a due realtà occupate ed autogestite, di essersi battuti per i senzatetto, di aver solidarizzato con i migranti, di aver partecipato alle mobilitazioni contro il Muos e di aver contestato la presenza della base americana in Sicilia.
Se l’incredibile misura degli arresti è la cifra del dispositivo repressivo scattato contro il movimento antagonista e la sua agibilità politica, le polemiche intorno al presidio sono l’emblema della pochezza degli schemi interpretativi che questa città utilizza per la narrazione di se stessa e delle contraddizioni sociali che l’attraversano.
Non è possibile tacere sul ruolo che in questa, come in altre vicende, ha svolto la “Gazzetta del Sud”. Il quotidiano locale ha lanciato in questi giorni una vera e propria crociata nei confronti degli “antagonisti”. Il culmine di questa campagna denigratoria, che fa leva su perbenismi ed ipocrisie, è stato raggiunto dall’articolo di ieri del giornalista (…?) Lucio D’amico, che semplifica in modo rozzo e terroristico quanto non capisce o fa finta, colpevolmente, di non capire.
Questa rappresentazione stigmatizza chi lotta per creare spazi, percorsi di libertà e di emancipazione collettiva come persone prive di ogni “buonsenso” e consapevolezza del “vivere civile”, portatori e fomentatori di degrado.
Ma il degrado non è quello rappresentato da una tenda in un’aiuola davanti al rettorato. Il degrado è la povertà dilagante – quella che non si vede e non turba le pupille sensibili della gente.
Il degrado che vediamo noi è innanzitutto un degrado antropologico, fatto di rapporti umani relegati tra la paura e la diffidenza generalizzata; di una pace sociale in cui l’individuo si vorrebbe costretto e rassegnato alla solitudine, all’indifferenza, al menefreghismo del quieto vivere borghese; il degrado culturale, di una comunicazione e un pensiero continuamente soppressi, costretti in un universo di discorso limitato.
Siamo proprio noi a batterci contro il degrado: il degrado di una città che, sfregiata dalla cementificazione, non riesce ad assicurare un tetto a centinaia di famiglie, pur contando diecimila case vuote; quello di più generazioni stritolate dalla crisi, impossibilitate ad autodeterminare il proprio percorso di vita; quello dei poveri, dei precari, degli sfruttati, a cui i custodi del decoro di aiuole e muretti non hanno davvero nulla da dire né da offrire.
SERGIO E IRENE LIBERI !
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