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Chi inquina chi e soprattutto perchè

Sulla vicenda che interessa l’ILVA di Taranto – iniziata nei primi di agosto con l’emissione di una sentenza che imporrebbe la chiusura di alcuni reparti dell’acciaieria, cioè quelli dai quali fuoriescono e si spargono, nelle case e nel quartiere adiacente lo stabilimento, polveri e fumi di diossina – non ci pare il caso di smettere di parlarne e di scriverne, sia per gli effetti che ciò sta producendo in un settore importante dell’industria nostrana e nelle sue ricadute produttive e socioeconomiche.

Questa vicenda ha prodotto l’effetto come di una “bomba a grappolo”, facendo emergere anche altre vicende simili, e soprattutto quante industrie “tossiche e nocive” sono presenti nel nostro paese; come ci fanno notare alcuni commenti del nostro precedente articolo (https://www.contropiano.org/it/ambiente/item/10674-tutte-le-ilva-ditalia) – Ferriera di Trieste … Due ex proprietà Montedison, ora Solvay, a Bussi sul tirino (Pescara) dove c’è anche la più grande discarica abusiva di rifiuti industriali; e ad Alessandria.

Può apparire retorico e ripetitivo, riprodurre un passo di quanto scritto nella sentenza emessa dai giudici del tribunale del riesame di Taranto, cioè: …Il disastro prodotto dall’Ilva a Taranto è stato “determinato nel corso degli anni, sino ad oggi, attraverso una costante reiterata attività inquinante posta in essere con coscienza e volontà per la deliberata scelta della proprietà e dei gruppi dirigenti”…

La sentenza stessa si pronuncia però contro la chiusura dello stabilimento affermando che: “… dallo spegnimento degli impianti potrebbe derivare la «compromissione irrimediabile della funzionalità» con importanti ricadute che vanno a intaccare contrapposti interessi, pure costituzionalmente rilevanti, quali quelli della tutela dell’impresa produttiva e quello della tutela dell’occupazione e della manodopera”.

Si stanno compiendo, in questi giorni, iniziative contrapposte.

Da una parte, utilizzando strumentalmente quest’aspetto della sentenza, si è appuntata l’attenzione di quanti (sindacati confederali, governo e alcuni partiti che lo sostengono) vorrebbero continuare la produzione; nello stesso tempo il “costituendo” comitato di liberi pensatori e cittadini di Taranto (http://comitatocittadinioperaitaranto.wordpress.com/), spinge per una riconversione e la messa in sicurezza degli impianti inquinanti; “non vogliamo più morire per l’ILVA” chiedono giustamente i cittadini e lavoratori tarantini. Come non si può dargli ragione, quando vengono resi noti questi dati:

Gli ultimi dati ambientali disponibili (resi noti a inizio 2012) indicano che nel 2010 l’ILVA ha emesso dai propri camini:

4mila tonnellate di polveri

11mila tonnellate di diossido di azoto

11mila e 300 tonnellate di anidride solforosa

1 tonnellata e 300 chili di benzene

338,5 chili di IPA

52,5 grammi di benzo(a)pirene

14,9 grammi di composti organici di benzo-p-diossine e policlorodibenzofurani (PCDD/F)

Parliamo insomma di circa 150 kg di sostanze emesse ogni anno per ciascun residente.

Su tutta questa vicenda, e anche altre ricordate, è il caso di far conoscere, a quanti lo abbiano dimenticato oppure non lo considerino per niente, cosa reciti un articolo della nostra Costituzione, nella parte riguardante:

Parte I – Diritti e doveri dei cittadini Titolo III – Rapporti economici Articolo 41 – L’iniziativa economica privata è libera.

Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali [cfr. art. 43].

Coincidenza vuole che proprio questo articolo (insieme al famoso art. 18) sia stato oggetto di modifica da parte del governo Berlusconi, annullandone così le prerogative.

Gli estensori della carta costituzionale, per dare maggiore forza e per meglio chiarire i limiti e le prerogative che l’introduzione di questa norma comportava, hanno pensato bene emanare anche questo articolo; che recita così: “Articolo 43 – A fini di utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire, mediante espropriazione e salvo indennizzo, allo Stato, ad enti pubblici o a comunità di lavoratori o di utenti determinate imprese o categorie di imprese, che si riferiscano a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed abbiano carattere di preminente interesse generale.

E’ il caso però di affermare come i vari governi che si sono succeduti nel nostro paese, si siano ben guardati dal rispetto di questa normativa. Forse qualcuno pare che abbia dimenticato che lo stabilimento Ilva di Taranto prima di essere ceduta (“regalata”) al signor RIVA aveva il nome di ITALSIDER ed era di proprietà dell’IRI, cioè un’azienda statale!

Una breve ricostruzione storica.

L’Ilva/Italsider è stata una delle maggiori aziende siderurgiche del XX secolo (http://it.wikipedia.org/wiki/Siderurgia). Inizialmente nacque come Ilva (nome poi riacquistato con la cessione a Riva);

A fine anni ottanta, con la crisi del mercato siderurgico, che vide la chiusura di numerosi impianti siderurgici europei (come l’Italsider di Bagnoli o le acciaierie della Lorena in Francia) e dopo diverse traversie economico-finanziarie, fu acquisita una partecipazione azionaria dall’industria pubblica italiana Finsider in quella che venne poi chiamata Nuova Italsider, per essere poi rilevata, con l’originario nome di ILVA, dal gruppo siderurgico RIVA.
Nel 1995 l’Italsider di Taranto passò al gruppo Riva e riprese il vecchio nome di ILVA. Quello tra Riva e lo Stato è stato una sorta di patto tacito, visto il prezzo irrisorio di compravendita: 1.460 miliardi di lire.
Quando fu messa in liquidazione l’Italsider, l’acciaieria era già vista dall’Iri come una rogna di cui liberarsi, e lo stesso dramma occupazionale di quel periodo fu un problema che dopo qualche anno fu Riva a gestire” (http://www.lettera43.it/economia/macro/ilva-inquinamento-di-stato_4367559959.htm).

Erano del tutto conosciute le pericolosità delle produzioni e degli impianti, che destavano, in special modo fra dirigenza industriale, amministratori pubblici e popolazioni delle aree in cui si trovavano gli insediamenti produttivi, polemiche e perplessità anche nelle zone fortemente minate dall’inquinamento industriale provocato dalla presenza di altiforni.
Con gli anni novanta è iniziata l’opera di dismissione degli impianti produttivi e una riconversione delle aree precedentemente occupate dagli insediamenti siderurgici.

Pubblichiamo stralci di un originale contributo di Paolo Ciofi che sulla vicenda esprime una lettura assai pertinente (http://www.unoetre.it/opinioni/600-la-lezione-dell-ilva.html#.UDZHx0TQItE)

La vicenda dell’Ilva ha assunto un valore simbolico e un significato universale dal momento che è venuto in chiaro – in conseguenza dell’intervento della magistratura – che nel microcosmo dell’acciaieria e della città di Taranto sono in gioco il lavoro come mezzo per vivere, la vita stessa delle persone insieme all’equilibrio dell’ecosistema, vale a dire il destino dell’uomo e della Terra. E’ semplicemente aberrante che nel nostro tempo, caratterizzato da incessanti conquiste della scienza e dell’ingegno umano, un operaio, un essere umano, sia posto di fronte all’alternativa di morire per fame o per cancro. E che un’intera comunità urbana debba pagare le conseguenze di un modo di produrre che genera effetti mortiferi. (…) E’ apparso invece del tutto evidente che vi è stato un vuoto della politica; che i partiti da tempo hanno derubricato dalla loro agenda i temi del lavoro e dell’ambiente; che i sindacati e i movimenti ambientalisti non sono stati in grado di contrapporre al potere e alla cultura dell’impresa una condivisa piattaforma alternativa. (…) Marx aveva visto benissimo che al fine di ottenere un profitto, il capitalista, oggi proprietario universale, deve separare il produttore diretto dai mezzi di produzione spezzando il nesso organico che lega l’uomo all’ambiente naturale, e disporre così in uguale misura della forza-lavoro umana e della natura. Perché – chiarisce nella Critica al programma di Gotha – «il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d’uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è la manifestazione di una forza naturale, la forza di lavoro umana».

(…) Tuttavia, se la classe delle lavoratrici e dei lavoratori non dispone di una propria autonoma cultura e organizzazione politica, capace di promuovere lotte, di stabilire alleanze e di incidere sulle scelte di governo, vale a dire non è in grado di agire come classe per sé, permarrà in uno stato di sfruttamento e di subalternità, al pari della natura. Perciò porre mano alla costruzione di un’ampia coalizione politica delle lavoratrici e dei lavoratori subordinati del nostro tempo, e di tutti quelli che subiscono le conseguenze distruttive della crisi, dovrebbe essere compito prioritario della sinistra, di coloro che vogliono cambiare lo stato delle cose presente. Non è questione da rinviare, in attesa di tempi migliori.
L’impegno è di oggi, altrimenti non verranno tempi migliori”.

Concordiamo pienamente con la conclusione di Paolo Ciofi di cui pubblichiamo l’articolo integrale in altra parte del giornale.

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