Come all’Ilva, una parte del sindacato nega problemi di inquinamento mentre la magistratura – dati ambientali alla mano – dispone di prendere misure efficaci. Ma a Colleferro anche la Cgil sta dalla parte sbagliata.
Veleni, sigilli alla Italcementi
Andrea Palladino
COLLEFERRO (Roma)
«Come vi permettete a parlare di un nuovo caso Ilva, qui è tutto apposto e quel giudice veramente non lo capiamo». Parole come macigni, che non ti aspetti da chi è stato eletto per rappresentare la dignità del lavoro, e quindi anche il diritto alla salute.
Colleferro, città dei veleni, della valle del Sacco, degli esplosivi. E del cemento. Cuore dell’Italia che costruisce, con una cattedrale di tubi e camini a meno di un chilometro dal centro cittadino, il tutto targato Italcementi, il colosso bresciano del clinker. L’impianto da ieri è sotto sequestro, con l’accusa – notificata al direttore Alfredo Vitale, ora indagato – di aver violato l’articolo 29 della legge ambientale del 2006, con camini non a norma e – in almeno un caso segnalato dalla procura di Velletri – con emissioni di inquinante «non conforme a quanto autorizzato».
«Questo è solo un can can che serve per non far parlare degli inceneritori», aggiunge un rappresentante Rsu della Cgil, chiedendo esplicitamente di restare anonimo. Parole che confermano un dato sotto gli occhi di tutti: nel cuore del Lazio c’è un nuovo caso Taranto, con un aperto e profondo conflitto tra il sistema lavoro e la tutela della salute.
I carabinieri del Noe sono appena andati via quando davanti alla strada d’ingresso dell’Italcementi si raduna una decina di ragazzi delle associazioni ambientaliste. Leonardo, poco più di vent’anni, non ha nessuna paura a dire quello che in tanti appena sussurrano nel polo industriale al confine con la provincia di Frosinone: «Io abito qui, a qualche centinaia di metri dal cementificio, ho sempre sofferto d’asma e come me tantissimi altri giovani. Dimmi, se questa ti sembra vita?». Ci mette la faccia Leonardo e come lui altri 4.000 ragazzi che solo tre giorni fa hanno sfilato sulla via Casilina, sfiorando il confine tra l’Italcementi e gli inceneritori, gridando la voglia di liberarsi dai tanti veleni che da quasi cento anni hanno invaso l’intera città. Invece non c’è nessun rappresentante dei sindacati davanti alla fabbrica sequestrata, gli operai sfilano veloci, con il viso basso. Un ragazzone si gira verso i giornalisti – per la verità pochi – per gridare appena, «Sono tutte cazzate, qui è tutto apposto». Ma basta appartarsi con qualche operaio delle ditte esterne per avere l’altra versione, l’altra faccia della medaglia: «Lì dentro è un inferno, ci sono polveri dappertutto, temperature elevate… Sbrigati a scrivere che mi stanno guardando». Lo sguardo di nuovo basso, il passo veloce. La dignità sparita. «Le polveri? Ma lo sanno che questa non è una cioccolateria?», replica il delegato anonimo delle Rsu. «Siamo in un cementificio, è normale, cosa ci vuoi trovare se non le polveri?». Poi tutti tacciono. Per il comunicato congiunto dei sindacati ci spiegano che dobbiamo aspettare la nota dell’azienda: «Solo dopo scriveremo quella nostra».
Avvicinarsi all’ingresso degli impianti è un’impresa quasi impossibile. Un altoparlante grida, «È zona privata, dovete andare via» appena una telecamera cerca di filmare i carabinieri del Noe mentre mettono i sigilli agli impianti. La disposizione arrivata dal pm Giuseppe Travaglini – e accolta dal Gip Giuseppe Cario – parla chiaro: un sequestro preventivo per «consentire alla parte nel termine di 10 giorni dall’esecuzione del provvedimento l’uso dell’impianto al fine della messa a norma». Poco più di una settimana, prima dello spegnimento dei forni e della chiusura dei cancelli.
Le prescrizioni ambientali che non sarebbero state rispettate sono contenute nell’autorizzazione integrata ambientale emessa dalla provincia di Roma due anni fa. Un tempo decisamente congruo che l’Italcementi ha avuto a disposizione prima di arrivare all’aut aut imposto ieri. Per l’azienda – e per l’anonimo interlocutore della Rsu – le accuse della procura sono in fondo questioni tecniche facilmente risolvibili, dettagli secondari in fondo. Non per il Gip Cario, che nel decreto commenta: «Appare assolutamente evidente che il protrarsi di tale situazione costituisca fonte di pericolo generale per gli scarichi in atmosfera». Quell’impianto – spiegano in sostanza i magistrati – così come funziona oggi è pericoloso per la salute, prima di tutto dei lavoratori. «Questa non è una nuova Ilva», ripetono come un refrain i sindacati, con in prima fila nella difesa della proprietà la Feneal Uil. «L’azienda ha sempre tenuto in gran considerazione la tutela dell’ambiente – ha spiegato in una nota il segretario della Feneal Uil Massimo Trinci – e della sicurezza dei lavoratori, mantenendo un costante dialogo con il sindacato». Per poi aggiungere: «Sappiamo bene tutti che con una recessione tanto devastante la priorità è il lavoro che deve ovviamente trovare la giusta armonia con la tutela dell’ambiente». Il lavoro ha un prezzo devastante nell’Italia dei veleni.
COLLEFERRO (Roma)
«Come vi permettete a parlare di un nuovo caso Ilva, qui è tutto apposto e quel giudice veramente non lo capiamo». Parole come macigni, che non ti aspetti da chi è stato eletto per rappresentare la dignità del lavoro, e quindi anche il diritto alla salute.
Colleferro, città dei veleni, della valle del Sacco, degli esplosivi. E del cemento. Cuore dell’Italia che costruisce, con una cattedrale di tubi e camini a meno di un chilometro dal centro cittadino, il tutto targato Italcementi, il colosso bresciano del clinker. L’impianto da ieri è sotto sequestro, con l’accusa – notificata al direttore Alfredo Vitale, ora indagato – di aver violato l’articolo 29 della legge ambientale del 2006, con camini non a norma e – in almeno un caso segnalato dalla procura di Velletri – con emissioni di inquinante «non conforme a quanto autorizzato».
«Questo è solo un can can che serve per non far parlare degli inceneritori», aggiunge un rappresentante Rsu della Cgil, chiedendo esplicitamente di restare anonimo. Parole che confermano un dato sotto gli occhi di tutti: nel cuore del Lazio c’è un nuovo caso Taranto, con un aperto e profondo conflitto tra il sistema lavoro e la tutela della salute.
I carabinieri del Noe sono appena andati via quando davanti alla strada d’ingresso dell’Italcementi si raduna una decina di ragazzi delle associazioni ambientaliste. Leonardo, poco più di vent’anni, non ha nessuna paura a dire quello che in tanti appena sussurrano nel polo industriale al confine con la provincia di Frosinone: «Io abito qui, a qualche centinaia di metri dal cementificio, ho sempre sofferto d’asma e come me tantissimi altri giovani. Dimmi, se questa ti sembra vita?». Ci mette la faccia Leonardo e come lui altri 4.000 ragazzi che solo tre giorni fa hanno sfilato sulla via Casilina, sfiorando il confine tra l’Italcementi e gli inceneritori, gridando la voglia di liberarsi dai tanti veleni che da quasi cento anni hanno invaso l’intera città. Invece non c’è nessun rappresentante dei sindacati davanti alla fabbrica sequestrata, gli operai sfilano veloci, con il viso basso. Un ragazzone si gira verso i giornalisti – per la verità pochi – per gridare appena, «Sono tutte cazzate, qui è tutto apposto». Ma basta appartarsi con qualche operaio delle ditte esterne per avere l’altra versione, l’altra faccia della medaglia: «Lì dentro è un inferno, ci sono polveri dappertutto, temperature elevate… Sbrigati a scrivere che mi stanno guardando». Lo sguardo di nuovo basso, il passo veloce. La dignità sparita. «Le polveri? Ma lo sanno che questa non è una cioccolateria?», replica il delegato anonimo delle Rsu. «Siamo in un cementificio, è normale, cosa ci vuoi trovare se non le polveri?». Poi tutti tacciono. Per il comunicato congiunto dei sindacati ci spiegano che dobbiamo aspettare la nota dell’azienda: «Solo dopo scriveremo quella nostra».
Avvicinarsi all’ingresso degli impianti è un’impresa quasi impossibile. Un altoparlante grida, «È zona privata, dovete andare via» appena una telecamera cerca di filmare i carabinieri del Noe mentre mettono i sigilli agli impianti. La disposizione arrivata dal pm Giuseppe Travaglini – e accolta dal Gip Giuseppe Cario – parla chiaro: un sequestro preventivo per «consentire alla parte nel termine di 10 giorni dall’esecuzione del provvedimento l’uso dell’impianto al fine della messa a norma». Poco più di una settimana, prima dello spegnimento dei forni e della chiusura dei cancelli.
Le prescrizioni ambientali che non sarebbero state rispettate sono contenute nell’autorizzazione integrata ambientale emessa dalla provincia di Roma due anni fa. Un tempo decisamente congruo che l’Italcementi ha avuto a disposizione prima di arrivare all’aut aut imposto ieri. Per l’azienda – e per l’anonimo interlocutore della Rsu – le accuse della procura sono in fondo questioni tecniche facilmente risolvibili, dettagli secondari in fondo. Non per il Gip Cario, che nel decreto commenta: «Appare assolutamente evidente che il protrarsi di tale situazione costituisca fonte di pericolo generale per gli scarichi in atmosfera». Quell’impianto – spiegano in sostanza i magistrati – così come funziona oggi è pericoloso per la salute, prima di tutto dei lavoratori. «Questa non è una nuova Ilva», ripetono come un refrain i sindacati, con in prima fila nella difesa della proprietà la Feneal Uil. «L’azienda ha sempre tenuto in gran considerazione la tutela dell’ambiente – ha spiegato in una nota il segretario della Feneal Uil Massimo Trinci – e della sicurezza dei lavoratori, mantenendo un costante dialogo con il sindacato». Per poi aggiungere: «Sappiamo bene tutti che con una recessione tanto devastante la priorità è il lavoro che deve ovviamente trovare la giusta armonia con la tutela dell’ambiente». Il lavoro ha un prezzo devastante nell’Italia dei veleni.
da “il manifesto”
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa