Nessun dubbio su cosa significhi: il governo non ha cambiato idea su nulla, conferma il suo impianto fino all’ultima virgola, i sindacati costretti nell’infame ruolo dei “complici” che accettano mutamenti epocali nelle relazioni industriuali e nelle politiche contrattuali senza nemmeno aver fatto finta di voler far pesare la propria “rappresentatività” sociale. I gruppi dirigenti di Cgil, Cisl e Uil hanno qui confermato i peggiori sospetti. una svolta storica “subita” senza dichiarare né un’ora di sciopero né una manifestazione di protesta. Un record mondiale, probabilmente inegualiabile.
La stampa padronale palude al decisionismo, al metodo del “confronto” senza mediazioni, lamentandosi molto di non aver ottenuto ancora abbastanza per le imprese. Le quali predicano sempre bene e razzolano malissimo. Se si guarda infatti alla protesta per l’aumento dei contributi per le assunzioni a tempo determinato, si capisce che non hanno nessuna intenzione di “stare sul mercato con le regole del mercato”, ma pretendono di poter usare qualsiasi mezzo. Come hanno sempre fatto, rimanendo un’anomalia rispetto al resto d’Europa.
«Chiuderemo l’intesa entro sette giorni»Francesco PiccioniMonti ha parlato. Ed ha voluto chiarire quali siano – e siano sempre stati, finora – i margini di discussione lasciati alla «trattativa» con le parti sociali sulle materie (pensioni e mercato del lavoro) che il suo governo considera decisive: «se pressioni delle corporazioni o di colleghi ministri dovessero chiederle un passo indietro, Elsa Fornero dovrebbe, con lo stile e la determinazione che la caratterizzano, abbandonarli al loro destino».
Non è una sorpresa per chi guardi al merito delle cosiddette «riforme» piuttosto che alle dichiarazioni di circostanza. Come sulle pensioni, infatti, il governo arriva alla fine del «confronto» con l’identico testo messo sul tavolo fin dall’inizio. Spazzando via i distinguo e le «manutenzioni» che per settimane hanno tenuto banco sui giornali, ma non dentro il palazzo. Su Rai e giustizia, al contrario, si può tranquillamente trovare un punto di equilibrio con gli interessi dei partiti che devono votare i provvedimenti decisi dentro palazzo Chigi; su chi comanda nei luoghi di lavoro o su quanta parte della ricchezza prodotta vada all’impresa e quanta alla «manodopera», no. Neppure sui tempi viene ammessa discussione: «la settimana prossima si chiuderanno le trattative sul mercato del lavoro e sugli ammortizzatori sociali». Anche perché è sua intenzione «andare con il governo e le parti sociali che vorranno in Germania, Regno Unito e altrove, così come si fanno i road show industriali per presentare la maggiore attrattività economica in Italia» garantita dalla macelleria sociale che sta promuovendo.
Concetti ripetuti negli incontri informali avuti ieri a marine del convegno Cambia Italia – la fantasia ormai scarseggia anche nei titoli… – organizzato da Confindustria in occasione dell’addio di Emma Marcegaglia alla poltrona di presidente di Confindustria. Proprio viale dell’Astronomia era stata la più determinata a chiedere modifiche al testo, protestando per «l’aumento del costo del lavoro» previsto per scoraggiare gli abusi cui contratti a termine. Ma anche i sindacati avevano mostrato aperto scetticismo sulla possibilità di arrivare a un’intesa, soprattutto su ammortizzatori sociali e art. 18. La più esplicita è stata ancora ieri mattina Susanna Camusso, segretario generale della Cgil: «siamo belli lontani da un accordo, mi sembra complicato trovare un’intesa e che la trattativa si concluda martedì». Raffaele Bonanni, leader della Cisl, se l’era invece presa proprio con la Cgil, accusata di «giocare al massacro» perché senza un cedimento radicale dei sindacati ora «il governo farà da solo e sarà una riforma più dura».
Su questo, Monti ha tagliato i ponti: «se veramente teniamo al futuro e crediamo gli uni degli altri, allora bisogna cedere qualcosa rispetto al legittimo interesse di parte». Chi deve cedere e cosa? Il sindacato, ça va sans dire, naturalmente anche sull’art. 18. «Il ministro Fornero ha pronto un testo incisivo che prevede subito interventi volti a eliminare la segmentazione tra precari e lavoratori a tempo indeterminato e che modifica immediatamente l’articolo 18 per i nuovi assunti», ha chiosato per sgombrare il campo dagli ultimi dubbi. Incidentalmente, si aprirebbe così un nuovo «doppio regime» tra i «vecchi» che mantengono un art. 18 svuotato di efficacia e i «neoassunti» che ne sarebbero privi da subito. E per sempre.
Ma la sua è stata una poderosa offensiva su molti temi scottanti ancora aperti. Sulla Tav in Val di Susa non ha lasciato spiragli. «Quante volte abbiamo sentito dire soprattutto da sinistra, che bisogna che la Ue superi una visione arida e finanziaria e che serve più attenzione per la crescita: la Tav rientra alla lettera in questo auspicio. È un opera che l’Europa ha voluto e finanziato, che l’Italia ha voluto e che la Francia ha già fatto». Sui finanziamenti, in realtà, l’Europa ha fin qui dato ben poco, e ancor meno darà nei prossimi anni, visto proprio il vincolo di pareggio in bilancio imposto a tutti i paesi. Quanto alla Francia, il premier è incorso in un tipico sfrondone berlusconiano: sul versante francese, infatti, i lavori sono fermi. Appena tre «sondaggi», quasi immediatamente richiusi. Soprattutto, stanno crescendo le perplessità sulla convenienza dell’opera rispetto alla «prevista crescita del Pil». Dubbi espressi, nello scorso dicembre, dall’Agenzia Nazionale per l’Ambiente d’oltralpe, con un lundo documento che affronta tutte le criticità negative di lavori tutti ancora da effettuare.
Definitive, infine, anche le parole di Monti sulla Fiat. «Credo che il rapporto fra l’Italia e la Fiat sia un rapporto che ha avuto una grande importanza storica, ma credo che non sia stato sempre un rapporto sano». Gli si potrebbe quasi dar ragione, pensando a quanta politica sbagliata della mobilità questo «rapporto malato» abbia prodotto. Ma il punto vero era un altro: «chi gestisce la Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti e per le sue localizzazioni più convenienti». La traduzione è semplice: non faremo nulla per trattenere Marchionne & co. qui in Italia. Mica siamo come Obama, noi…
da “il manifesto”
Marcegaglia lascia, le imprese no e «sognano» crescitaTommaso De Berlanga
Nel paese dalla memoria corta, Confindustria è l’organizzazione «di categoria» che più spesso dimentica il proprio operato. Emma Marcegaglia, presidente uscente all’ultimo discorso pubblico in questa veste – giovedì l’assemblea degli industriali sceglierà il successore tra il moderato Giorgio Squinzi e il «marchionnesco» Alberto Bombassei – ha avuto il buon gusto di ricordare l’epoca in cui l’associazione cui appartiene «trattava sussidi per questa o quella impresa». Non si tratta di tracce perdute nella nebbia dei secoli, ma roba di oggi o quasi. Però, ha giurato, «abbiamo realizzato un cambio di mentalità e approccio», e quei tempi «spero che non tornino più»; perché «abbiamo deciso di essere la voce di chi lavora sul mercato e si batte per il mercato».
Fosse vero… Uscendo, Marcegaglia ha invece «chiesto» ancora qualcosa al governo. Ammettiamo senza problemi che stavolta non si tratta di «sussidi per questa o quell’impresa» – un lavoro da sensali, più che da «sindacato delle imprese» – ma comunque una pressione sul governo e sui sindacati dei lavoratori affinché «la riforma del mercato del lavoro che non sia al ribasso». Ovvero che comprenda l’abolizione dell’art. 18 e dei «sovraccarichi contributivi» previsti per chi decide di assumere ricorrendo ai contratti a termine. Il quel caso, ha promesso, «non ci sarà la firma di Confindustria». Diverso è il discorso sugli ammortizzatori sociali, a cominciare dalla cassa integrazione. La quale – per chi non lo sa – è un istituto chiesto per prassi dalle imprese perché è a favore delle imprese; che possono smettere di pagare stipendi per una parte dei propri dipendenti per il periodo che il ministero riconosce esser necessario. Incidentalmente, torna utile anche ai lavoratori, che infatti contribuiscono a finanziarla con trattenute mensili. Se Elsa Fornero ha deciso di «diluire» l’entrata a regime nel «nuovo sistema» di ammortizzatori – via molte forme di cig e dentro un sussidio di disoccupazione universale di molta più breve durata – è stato in primo luogo proprio per la resistenza di Confindustria.
La quale, però, coltiva illusioni economiche davvero pericolose. Quasi ideologiche, se si può dire. Lo studio presentato al convegno Cambia Italia dal direttore del Centro studi, Luca Paolazzi, prova a quantificare ciò che il governo non aveva osato: quanto potrebbe contribuire alla crescita la «riforma» che si sta discutendo (per modo di dire, come si può leggere di fianco). Il quotidiano di Confindustria «spara» il risultato in modo pateticamente propagandista: «con le riforme la crescita triplica».
Sorbole!, direbbero in Romagna. Peccato che le cifre siano – intanto -del tutto ipotetiche, proiettate da qui a 20 anni. E, in secondo luogo, irrisorie. Invece di un +0,7% annuo (teorico, visto che siamo in recessione) si arriverebbe al 2,2. I grafici mostrano «impennate» là dove altri ricercatori vedrebbero risalite impercettibili. Ma la domanda vera è: tutta questa distruzione della coesione sociale, del «patto costituzionale» tra impresa e lavoro, della vivibilità e della futura domanda solvibile… per un +1,5% annuo? A questo siete ridotti?
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Adelante Leonhardt
Il sindacato confederale è morto, se ne è accorto persino Bonanni. Per noi lavoratori inizia l’anno zero. E tutto da ricostruire!