Già a luglio il Servizio di monitoraggio atmosferico Copernicus (Cams) dell’Ue, segnalava che dall’inizio di giugno c’erano stati stati oltre cento incendi lungo le coste artiche, coinvolgendo non solo la Russia, ma anche l’Alaska, il Canada e la Groenlandia. Negli stessi giorni, sono arrivate le notizie secondo cui ci sarebbe un record di incendi in Amazzonia, mentre da sabato un violento incendio ha devastato l’isola di Gran Canaria, la seconda più grande dell’arcipelago spagnolo nell’Atlantico. L’Organizzazione Meteorologica Mondiale delle Nazioni Unite (Omm) conferma che il fumo dei roghi in Siberia è arrivato a ricoprire una superficie di circa 5 milioni di chilometri quadrati. Un’area più vasta dell’Europa e di più della metà degli Stati Uniti. A fare il punto della situazione degli incendi nel mondo, è un interessante servizio dell’agenzia Agi.
A monitorare un fenomeno come quello degli incendi ci sono diverse agenzie e organizzazioni – oltre quelle già citate – che cercano di quantificare il numero di roghi in singole aree del pianeta, attraverso strumenti diversi, come le immagini satellitari e non solo.
I ricercatori si concentrano su una serie di parametri diversi, che vanno dalla superficie bruciata alle emissioni prodotte. Secondo il Global Fire Atlas, gli incendi sono una fonte significativa dei gas e dell’areosol atmosferico: le aree che di recente hanno visto un aumento della frequenza dei roghi di conseguenza hanno poi registrato anche maggior CO2 nell’aria.
Di conseguenza, a seconda della metodologia utilizzata, i numeri possono essere diversi. Sono necessari anni per avere stime precise sulla quantità di roghi effettivamente verificatasi.
Le immagini satellitari in tempo reale sono comunque un buon punto di partenza per quantificare il fenomeno.
Dall’ inizio anno a oggi, secondo il Global Forest Watch Fires, le osservazioni registrate dal Moderate-resolution Imaging Spectroradiometer (MODIS), anche dal sito della Nasa) rilevano oltre 2 milioni e 910 mila “allerta incendio”. Nello stesso periodo del 2018, erano stati quasi 100 mila in meno; nel 2017, circa 200 mila in meno. Nel 2016 e nel 2015 questo dato era stato più alto, aggirandosi intorno ai 3 milioni di allerta incendio in tutto il mondo.
È vero però che alcune anomalie si stanno registrando in alcune regioni raramente coinvolte in passato. Ad esempio quest’anno nel Circolo Polare Artico gli incendi registrati sono stati costantemente sopra la media rispetto al periodo tra il 2003 e il 2018.
In regioni come l’Amazzonia, invece, in questi giorni sta circolando una statistica dell’Istituto nazionale di ricerche spaziali del Brasile (Inpe), che – oltre ad avere suscitato le ire del presidente Bolsonaro – segnala come dall’ inizio dell’anno sono stati calcolati oltre 75.300 incendi in tutto lo stato sudamericano, l’84% in più rispetto all’anno scorso. Secondo l’Inpe, inoltre, la superficie andata a fuoco ad agosto 2019 è stata il 40% in più rispetto allo stesso mese dello scorso anno.
È vero dunque che in Brasile quest’anno si sta registrando un numero di incendi record almeno rispetto agli ultimi 7 anni, anche se occorre tenere conto che l’area dell’Amazzonia è più ampia di quella contenuta solo nei confini brasiliani.
Il 60 per cento della foresta pluviale (si tratta di oltre 4 milioni di chilometri quadrati) è incluso nel Brasile, mentre il restante 40 per cento è suddiviso tra altri Paesi sudamericani, come l’Ecuador, la Guyana, il Perù e il Venezuela.
Secondo i numeri del Global Fires Atlas (elaborati sulla base di quelli della Nasa), dal 1° gennaio 2019 ad oggi, in tutta la regione amazzonica sono stati registrati 99.590 incendi, contro i 53.935 dello stesso periodo del 2018. Tra il 1° gennaio 2016 e il 21 agosto 2016 (anno con il dato più lontano nel tempo disponibile) però erano stati più numerosi: 106.404. A fine 2018, il numero totale dei roghi in Amazzonia registrato era di 192.515, contro i 301.2016 dell’anno precedente.
La domanda che molti si pongono è se ci sia un nesso tra i cambiamenti climatici e i grandi incendi che si stanno registrando nel globo.
Secondo alcune fonti il riscaldamento globale sta facilitando e rendendo più diffuse le condizioni che permettono alle fiamme di divampare in grandi aree geografiche. Un fenomeno non dissimile da quello degli uragani che ormai si manifestano anche in regioni dove erano eventi rarissimi.
E’ evidente come un pianeta sempre più caldo risenta di periodi di siccità sempre più lunghi e su aree sempre più vaste. Sia il suolo che la vegetazione, privati dell’acqua, saranno più predisposte a prendere fuoco.
Secondo un ricercatore del servizio Copernicus, le ondate anomale di caldo registrato nell’Artico sono indubbiamente tra le cause dei roghi tra Siberia e Alaska. Analogamente secondo uno studio prodotto dalla rivista Nature, “maggiore sarà il livello di aumento medio delle temperature in futuro, maggiore sarà la quantità di superficie devastata dalle fiamme, in un intervallo che va dal 40 per cento al 100 per cento a seconda degli scenari”
Una pianeta più caldo inevitabilmente sarà un pianeta con un maggiore rischio incendi, un processo che alimenta un circolo vizioso e rovinoso aumentando con gli incendi le emissioni nell’atmosfera, che a loro volta portano ad un aumento delle temperature.
Gli eventi “naturali” di queste settimane ci dicono che alcune aree come l’Artico e l’intero Brasile stanno vivendo delle situazioni più critiche rispetto agli anni scorsi. I dati e le rilevazioni scientifiche continuano a rilevare – e prevedere – peggioramenti a causa del riscaldamento globale. Con grande propabilità, in un futuro prossimo, l’aumento generale delle temperature medie renderebbe così “normali” situazioni fino a ieri “anomale” come gli incendi nell’Artico e in Siberia.
Non c’è molto tempo per correre ai ripari. Nè si può fare affidamento sempre e solo sulla resilienza della natura. Il problema non è se ci è simpatica o meno Greta. Una rivoluzione ecologica, e la sua pianificazione, sono all’ordine del giorno, quello di oggi.
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