Sin dagli albori della sua storia evolutiva Homo sapiens ha fatto della modifica dell’ambiente l’arma del suo indiscusso successo. Oggi quell’arma gli si sta rovinosamente rivoltando contro e il cambiamento climatico ne è la prova più evidente e drammatica. Un recente studio analizza le radici evolutive della trappola ecologica che l’uomo si è creato e le ragioni per cui fatica ancora oggi a coglierne l’urgenza, tracciando infine alcune soluzioni per disinnescarla.
Nel comunicare i rischi legati al cambiamento climatico e il nostro rapporto con la biosfera, troppo spesso emerge una narrativa a senso unico. Da una parte c’è un pianeta da salvare – è là fuori, altro da noi, apparentemente con interessi in conflitto con i nostri; dall’altra, la specie invasiva responsabile del danno e su cui incombe la scelta di un ultimo atto “eroico”.
Un’immagine che tradisce tutta la presunzione di Homo sapiens, e ignora un’asimmetria fondamentale: siamo noi ad aver bisogno di biodiversità ed ecosistemi in buona salute, in grado di garantirci servizi gratuiti e fondamentali (disponibilità di acqua, terreni fertili, mari produttivi, impollinazione delle piante) e di mantenere stabile la nicchia climatica che ci ha permesso di prosperare per migliaia di anni.
Il pianeta, in fondo, ha fatto a meno di noi per gran parte della sua storia e troverebbe ugualmente il suo corso anche se la scimmia nuda desse definitivamente forfait.
Come si argomenta in un recente paper pubblicato sulla rivista Biology & Philosophy [1], le nostre straordinarie capacità trasformative sono dovute a ciò che i biologi evoluzionisti chiamano “costruzione di nicchia” (niche construction, [2]).
Già Darwin aveva colto l’importanza di tale fenomeno, dando alle stampe qualche mese prima di morire un volume sul contributo e l’azione dei lombrichi sulla formazione del suolo e gli effetti sul paesaggio inglese, su cui aveva condotto studi per oltre 40 anni [3].
Gli organismi infatti svolgono un ruolo attivo nell’evoluzione, e non sono relegati a un mero problem-solving, dove l’ambiente pone limiti e sfide adattative e sta all’organismo proporre passivamente una soluzione. I viventi, attraverso le proprie attività biologiche e metaboliche, oppure semplicemente migrando, perturbano e modificano attivamente il profilo dei loro habitat.
I castori, ad esempio, realizzano vere e proprie opere ingegneristiche in natura (le dighe) come mezzo di protezione per le tane e di difesa dai predatori, impattando sensibilmente sulla conformazione del territorio circostante, provocando esondazioni e condizionando gli altri inquilini della medesima nicchia per diverse generazioni.
Questa abilità di plasmare gli ambienti risponde tipicamente a dei bisogni adattativi. In questo l’uomo è diventato campione indiscusso, grazie a capacità senza pari di apprendimento sociale, di trasmissione delle informazioni e di cooperazione su larga scala.
Le nostre strategie di costruzione di nicchia sono deliberate e pianificate. Alcuni sostengono che esse abbiano un’origine profonda nella nostra storia evolutiva e risalgano almeno al tardo Pleistocene, con le prime migrazioni di un manipolo di colonizzatori fuori dall’Africa alla conquista di una nicchia globale.
Ma questa strategia sarebbe divenuta sistematica con la diffusione dell’agricoltura in epoca neolitica, che ha modificato in maniera incontrovertibile le pressioni evolutive su piante, animali e interi ecosistemi, e ha lasciato tracce indelebili nel record archeologico [4].
La prospettiva di costruzione di nicchia è fondamentale per due ragioni. Per prima cosa, introduce la nozione di “causalità reciproca”: se gli organismi modificano un ambiente con una costanza e un’intensità tali da alterarlo nelle sue pressioni selettive, queste inevitabilmente retroagiranno su di loro e sulla loro progenie, costringendoli a produrre delle contro-risposte a fronte di un nuovo contesto ecologico ed evolutivo.
Io cambio l’ambiente, che a sua volta cambia me (e quindi no, non c’è un pianeta “esterno a noi” da salvare: nella crisi climatica e ambientale ci siamo dentro con tutte le scarpe). In secondo luogo, l’ambiente così alterato viene appunto ereditato dalle generazioni successive fintanto che le attività perturbatrici non cessano, per il principio di “ereditarietà ecologica”: si delinea in questo modo un gioco intergenerazionale.
Oggi siamo arrivati a trascinare la biosfera sull’orlo di una nuova estinzione di massa – la sesta, dopo le catastrofiche Big Five in cui sono scomparse il 75% o più delle specie viventi sulla Terra, e in cui il cambiamento climatico compare come un fattore causale comune [5]. Ce la giochiamo con asteroidi, esplosioni vulcaniche e altre maggiori forze geologiche.
Ma se questo “talento” di costruttori di nicchia e la nostra capacità di colonizzare ambienti estremi ha garantito il nostro successo planetario a discapito di altri, portandoci a una crescita demografica di quasi 8 miliardi di individui e una presenza pressoché capillare su tutto il globo, ora i cambiamenti innescati mostrano un volto maladattativo per noi stessi costruttori.
Rischiamo, in altre parole, di infilarci in quella che gli ecologi chiamano una “trappola evolutiva”: organismi che mantengono comportamenti e scelte un tempo vantaggiosi rischiano di inoltrarsi, per mano propria, in un vicolo cieco [6,7].
Gli effetti per noi deleteri della nostra stessa condotta sono sotto gli occhi di tutti.
L’anno scorso The Lancet, un’autorevole rivista medico-scientifica, ha pubblicato un rapporto che mostra come le scelte che facciamo oggi in materia di clima condizioneranno la salute dei bambini che nascono oggi in ogni fase del loro sviluppo [8].
Tra i maggiori fattori di rischio: un’esposizione sempre più probabile a ondate di calore e alla diffusione di patogeni (l’aumento delle temperature interferirà con il ciclo di sviluppo e con l’areale di organismi vettori, aumentando il rischio di epidemie), una peggiore qualità dell’aria e un aumento di eventi meteorologici estremi.
A fronte di un’urgenza dalle dimensioni sempre più allarmanti, e che pone un rischio concreto anche per noi, cosa ci impedisce di comprendere la realtà del cambiamento climatico e di produrre risposte efficaci per strapparci dalla trappola evolutiva da noi innescata?
A tal proposito, è possibile avanzare una seconda lettura evoluzionistica. Dagli studi di scienze cognitive sappiamo ormai da decine di anni che nei nostri processi di decision-making, in presenza di determinate condizioni, intervengono dei pattern di deviazione dalla razionalità – i cosiddetti “bias cognitivi”, forme evolute di comportamento mentale [9].
Queste scorciatoie mentali intervengono in condizioni di incertezza, quando abbiamo una carenza o un eccesso di informazioni, e sono innestate nella nostra psicologia perché molto probabilmente ci hanno aiutato, nel corso della nostra evoluzione, a far fronte ad ambienti ostili e in rapido e visibile cambiamento.
Abbiamo così la tendenza a voler confutare processi di lungo periodo con osservazioni locali (end-point bias); la nostra percezione tende a normalizzare fenomeni che evolvono lentamente quando più dovremmo esserne preoccupati (shifting baseline syndrome) e tendiamo a preferire un beneficio immediato, seppur minore, rispetto a uno futuro ma più grande (hyperbolic discounting). Il cambiamento climatico è per noi un “iper-oggetto” di cui non vediamo i confini nello spazio e nel tempo, e che sfida la nostra miopia cognitiva.
Ma questo non può diventare un alibi per l’inazione. La trappola deve essere disinnescata. La posta in gioco è alta: salvare il nostro futuro e quello dei nostri discendenti. Da costruttori di nicchia navigati e figli di decine di migliaia d’anni di evoluzione culturale, dobbiamo esser in grado di riprendere in mano le redini del nostro potere trasformativo e “direzionare” il nostro sviluppo e la nostra evoluzione.
Come? Puntando su ciò che ci ha garantito un successo planetario: la capacità di darci delle regole attraverso forme istituzionali auto-imposte, in grado di garantire una cooperazione e un coordinamento su larga scala, la creatività e l’innovazione tecnologica, che siamo chiamati a promuovere attraverso ricerca e politiche internazionali adeguate, per guidare la transizione verso uno spazio operativo sicuro.
* da climalteranti.it
Per approfondire
[1] Meneganzin A., Pievani T., Caserini S. (2020) Anthropogenic climate change as a monumental niche construction process: background and philosophical aspects. Biol Philos 35, 38. https://doi.org/10.1007/s10539-020-09754-2
[2] Odling-Smee F.J., Feldman M., Laland K.N.(2003) Niche construction: the neglected process in evolution. In: Monographs in population biology, vol 37. Princeton University Press, Princeton
[3] Darwin C. (1881) The Formation of Vegetable Mould, through the Actions of Worms, With Observations on their Habits. London: John Murray
[4] Boivin N.L., Zeder M.A., Fuller D.Q. et al (2016) Ecological consequences of human niche construction: Examining long-term anthropogenic shaping of global species distributions. Proc Natl Acad Sci 113(23):6388–6396 www.pnas.org/content/113/23/6388
[5] Ceballos G., Ehrlich P.R., Dirzo R. (2017) Biological annihilation via the ongoing sixth mass extinction signaled by vertebrate population losses and declines. Proc Natl Acad Sci USA 114:E6089–E6096 www.pnas.org/content/114/30/E6089
[6] Schlaepfer M.A. et al (2002) Ecological and evolutionary traps. Trends Ecol Evol 17:474–480
[7] Robertson B.A. et al (2013) Ecological novelty and the emergence of evolutionary traps. Trends Ecol Evol 28:552–560
[8] www.lancetcountdown.org/2019-report/
[9] Gilovich T., Griffin D., Kahneman D. (eds) (2002) Heuristics and biases: the psychology of intuitive judgment. Cambridge University Press, Cambridge
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