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Taranto e Priolo. Il grande inganno

La questione ecologica comprende in sé e nella sua gestione le diseguaglianze in termini economici, sociali, di salute, quindi di qualità della vita. La risposta alle contraddizioni che il sistema capitalista stesso crea su questi temi è la conservazione di se stesso, per mezzo di strutture e dispositivi.

L’ordinamento penale e i suoi strumenti sono un esempio concreto e lampante. Spesso istituti e istituzioni di questo sistema entrano in un cortocircuito che gli permette di controbilanciare i temi, conservando le cellule che gli permettono di sopravvivere e continuare i processi di messa al valore totale, costruendo anche da un punto di vista ecologico, l’inganno.

Infatti, mentre la Corte europea dei Diritti dell’uomo (CEDU) si è pronunciata qualche mese fa con quattro condanne nei confronti dello Stato italiano per le emissioni dell’Ex Ilva, sottolineando la loro pericolosità per la salute dei cittadini e la mancata tutela da parte delle istituzioni, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto legge denominato “Misure urgenti per impianti di interesse strategico nazionale” coinvolgendo siti come il polo siderurgico di Taranto e il depuratore Ias di Priolo e di conseguenza il polo siderurgico che serve.

Entrambi i siti, con differenti tempistiche, sono stati oggetto di interventi da parte della magistratura e di enti pubblici di controllo, nonché da iniziative di comitati, movimenti e organizzazioni politico-sindacali, per problematiche di tutela ambientale, sanitaria, oltre che attraversati, nonostante la strategicità del settore, da ristrutturazioni e crisi occupazionali, ponendo in conflitto reddito-ambiente-salute.

Lo stesso decreto pone una sorta di “scudo penale” per questi tipi di impianto, sospendendo di fatto la possibilità dell’azione penale per tutelare e sanzionare reati nei confronti di beni giuridici come il reddito, la salute, l’ambiente, demandandola a un commissario o in caso di sequestro da parte della magistratura alle prescrizioni di un giudice.

Per garantire la continuità produttiva si sospende l’applicazione delle leggi di tutela ambientale, della salute, della sicurezza della popolazione generale e di quella lavorativa? Dove si pone il limite di questo controbilanciamento tra continuità della produzione e beni giuridici come salute e sicurezza dell’ambiente e delle persone?

Per esempio, potrebbe venire meno l’applicabilità della legge 231 del 2001 sulla responsabilità amministrativa delle imprese, prevedendo che non possano mai essere comminate alle imprese ‘strategiche’ (ex Ilva e depuratore di Priolo) sanzioni interdittive che prevedano l’interruzione delle attività. Il tutto viene sostituito da un commissario o nei casi più gravi, gestito da un giudice.

Bisogna precisare che attorno all’ex Ilva, ruotano almeno 17 mila persone (tra dipendenti diretti e non) e che la vendita del suo acciaio nel 2021 si è aggirata attorno ai 1,2 miliardi di euro. Per mezzo di Invitalia (l’Agenzia governativa italiana che si occupa degli investimenti dello Stato) ad oggi lo Stato possiede il 32% del capitale, in attesa che la quota superi la maggioranza a maggio del 2024.

Il prestito appena approvato dal Governo, oltre a risanare parte dei debiti, è stato erogato anche con questa finalità. I 680 milioni sono infatti “convertibili”, trasformabili cioè in capitale sociale. Questo permetterà allo Stato di aumentare la propria “presenza” nell’azienda ancora prima del 2024, seppur continuando a mantenere rapporti con i soci privati. Secondo il Governo, sono già stati presi i primi accordi tra ArcelorMittal e Invitalia.

A quest’ultima, ad esempio, spetterà scegliere l’amministratore delegato, anche se non ancora in possesso della maggioranza, se non saranno rispettate determinate condizioni di “buona gestione”.  Collegata al depuratore Ias di Priolo c’è la vicenda della raffineria Lukoil (fornisce il 22 per cento del carburante che circola in Italia), appena venduta a un fondo cipriota, bloccata in questi mesi a causa della proprietà russa, con mille posti diretti e duemila dell’indotto – con un totale di circa 10 mila – a rischio da novembre. In entrambi i territori in cui sono presenti i siti, da decenni, rimangono critiche le condizioni di salute per problematiche connesse all’esposizione a inquinanti dentro e fuori i luoghi di lavoro (oltre che agli “incidenti” sul lavoro).

Proprio su questo sfondo, in cui lo stesso decreto pone una sorta di “scudo penale” per questi tipi d’impianto, sospendendo di fatto la possibilità dell’azione penale per tutelare e sanzionare reati nei confronti di beni giuridici come il reddito, la salute, l’ambiente, si manifesta la massima applicazione nei confronti di qualsiasi forma organizzata e individuale di dissenso e conflitto con questo stato di cose, ricorrendo a strumenti del diritto penale “ordinario” e a strumenti speciali ( es. sorveglianza speciale), per punire, arginare ( sempre spesso “preventivamente”) e costruire l’immagine del soggetto pericoloso, fino a cancellare l’idea di altri modelli di vita e relazioni possibili.

Questo soggetto pericoloso si configura nelle organizzazioni sindacali conflittuali, nei comitati in difesa dell’ambiente, nei militanti e negli attivisti, attraverso altri decreti o modifiche a quelli già in vigore.

Che sia un rave, un picchetto, una manifestazione non autorizzata, un’esplosione a basso potenziale senza conseguenze verso terzi, un’azione di imbrattamento simbolica, la risposta sarà repressione del dissenso, carcere, 41 bis, punizione, colonizzazione dei corpi, delle menti, della parola senza sciogliere le contraddizioni.

Perché questo soggetto pericoloso porta con sé il concreto rischio di strappare via le maschere di questo grandissimo inganno. Come fare? Continuare a essere pericolosi.

* da Osservatorio Repressione

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