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Il grande capitale abbandona persino il greenwashing e torna al fossile

Non ci stancheremo mai di ripetere che il problema della crisi ecologica non può essere risolto all’interno del modo di produzione capitalistico. Di fondo rimane infatti la contraddizione tra la continua messa a valore della natura e la finitezza di un mondo sferico e quindi senza  risorse infinite.

Non vogliamo convincere nessuno della bontà del Socialismo, ma torniamo spesso sull’argomento solo per mostrare che al Socialismo non esiste alcuna alternativa se vogliamo sopravvivere. Anzi, a rendercelo evidente è poi la semplice esposizione delle scelte su cui si instrada la ricerca del profitto.

Un paio di settimane fa Wael Sawan, da gennaio amministratore delegato della Shell, la più grande compagnia privata del fossile, ha affermato: “investiremo nei modelli che funzionano, quelli con i rendimenti più alti”.

Il sottinteso è che questi sono legati agli idrocarburi, che continuano a mantenersi redditizi e si prevede resteranno tali.

La società ha deciso di stabilizzare la produzione di petrolio fino al 2030, così come la British Petroleum ha rivisto i suoi piani di tagli sull’oro nero, col valore delle azioni aumentato del 17%. La Shell ha confermato l’impegno a raggiungere le zero emissioni nette entro il 2050, ma senza un piano chiaro e dettagliato per raggiungere questo traguardo.

Intanto, ha chiuso il bilancio 2022 con 40 miliardi di profitti e aumenterà il dividendo degli azionisti del 15%, tra l’altro meno di quel che si aspettavano. La Exxon, che non ha mai nemmeno preso in considerazione di privilegiare le rinnovabili agli idrocarburi, ha raggiunto invece 59 miliardi di profitti, i più alti mai registrati da una compagnia del settore.

Nel rapporto che accompagna il bilancio di quest’ultima compagnia leggiamo: “è altamente improbabile che la società accetti il peggioramento degli standard di vita che richiederebbe il raggiungimento delle emissioni nette zero nel 2050”.

Per Exxon la colpa è dello stile di vita, loro si adattano semplicemente al contesto… macinando miliardi senza dispiacere.

Questa è una narrazione tossica come le emissioni, poiché non è il consumo individuale a determinare il paradigma produttivo ed energetico. Vi sono senza dubbio sprechi, ma è la proprietà privata dei mezzi di produzione e il fatto che le scelte di investimento sono in capo ad essa a modellare le forme stesse del consumo (ad esempio, con la centralità data al trasporto privato).

La onlus Amici della Terra ha dichiarato che si continua a “mettere ancora una volta il profitto davanti a tutto da parte degli inquinatori, a danno della gente e della salute del pianeta”. E questo vale per la Shell, per la Exxon, ma anche per ENI.

È notizia di pochi giorni fa che la multinazionale di cui il ministero dell’Economia è il principale azionista ha acquisito Neptune Energy, per ampliare le esplorazioni e le estrazioni di gas. L’amministratore delegato Descalzi ha ribadito che questa è una “fonte energetica ponte cruciale per la transizione energetica”, ma intanto aumenta ancora l’attenzione al fossile.

Del resto, si prevede che la domanda di petrolio andrà rallentando, ma senza fermarsi mai: ad oggi se ne consumano 100 milioni di barili al giorno, ma l’OPEC prevede si arriverà ai 110 entro il 2045. E aumenterà contestualmente anche la domanda di gas naturale.

Ma ci sono parecchi dubbi sulla disponibilità di riserve di petrolio ancora non sfruttate…

Per questo colossi finanziari come Vanguard e BlackRock non hanno intenzione di rivedere i finanziamenti sugli idrocarburi. Come detto dai dirigenti di quest’ultima, il fondo è “obbligato ad agire sempre nel miglior interesse finanziario dei nostri clienti”, e dunque a discapito dell’intera collettività.

La logica del capitale sta tutta qui, e ci sta rubando il futuro. E ormai non viene nascosta più nemmeno dietro il greenwashing, alla ricerca di una legittimazione: la barbarie capitalista si mostra per quel che è.

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