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Demilitarizzare il pianeta è anche una battaglia ecologica

Può sembrare ridondante la ricerca di nuovi argomenti che dimostrino la nefandezza della guerra. Lapalissiana, addirittura, soprattutto nel mondo occidentale e democratico, in cui i diritti civili e sociali di ogni essere umano sono considerati un bene inderogabile e il ripudio della guerra è spesso scolpito nelle carte costituzionali.

Mentre a Gaza continuano i bombardamenti, però, e oltre 17.000 persone sono state trucidate in un solo mese e 1 milione e mezzo di abitanti sono diventati profughi nel loro Paese, e dopo quasi due anni di polarizzazione e militarizzazione planetaria nell’impegno nel conflitto russo-ucraino, ciò che appare chiaro e scontato è esattamente l’opposto: il mondo è pronto a rinunciare a tutto, fuorché alla guerra.

A Dubai, i Paesi riuniti per la Cop28, la conferenza per il Clima delle Nazioni Unite, hanno discusso in questi giorni sul phase out, ovvero sull’eliminazione delle fonti fossili, e si stanno confrontando sui fondi da stanziare per il loss and damage, cioè sul piano di rimborso per i Paesi più colpiti dalla crisi climatica.

Nessuna menzione è stata fatta, per il momento, sulla catastrofe in cui la guerra continua a trascinare il pianeta, che non è solo umanitaria, ma anche ambientale.

Nel 2021, il Consiglio Militare Internazionale sul Clima e la Sicurezza ha riconosciuto che il settore della difesa è il consumatore istituzionale più significativo di idrocarburi. Una ricerca dell’Osservatorio sui Conflitti e l’Ambiente e degli Scienziati per la Responsabilità Globale, inoltre, ha rivelato come nel 2022 il 5.5% delle emissioni globali di carbonio siano state generate dalla macchina bellica.

Si parla di oltre 2,750 milioni di tonnellate di anidride carbonica, emesse per le operazioni militari, per mantenere le proprie basi all’estero e per gli spostamenti del personale impiegato negli eserciti.

Al primo posto tra i Paesi che inquinano a causa del loro impegno bellico nel mondo ci sono gli Stati Uniti, seguiti dal Regno Unito. L’impronta ambientale delle loro operazioni militari supererebbe, secondo l’inchiesta, quella di intere Nazioni. Il Pentagono, ad esempio, produce più gas inquinanti con le proprie decisioni militari di tutto il Perù o la Svizzera, per mantenere le sue oltre 750 basi militari in 80 Paesi.

Nonostante l’impatto gravissimo che le operazioni di guerra determinano sull’ambiente sia ufficialmente noto e riconosciuto, nell’agenda delle conferenze per il Clima il dibattito sugli effetti della militarizzazione globale sull’inquinamento atmosferico non è mai stato incluso. Né nella valutazione delle emissioni di carbonio dei singoli stati sono mai state conteggiate le tonnellate prodotte dai Paesi in guerra.

Una dimostrazione di due evidenze: da una parte, di quanto i calendari delle conferenze climatiche rappresentino in buona parte per gli Stati riuniti soltanto un’occasione di greenwashing dei loro peccati; dall’altro, di come la necessità della guerra non possa essere messa in discussione, neppure con argomenti e dati scientifici.

Basterebbe, tra l’altro, lungi dal tentare di cancellare la guerra dagli impegni dei Paesi sviluppati, quantomeno introdurre nella gestione delle risorse militari e degli eserciti strategie ecologiche basate sul risparmio delle emissioni, sulla riduzione del numero di trasporti e sull’ottimizzazione delle fonti energetiche.

La Cop28 potrebbe offrire effettivamente l’occasione per introdurre una riflessione sui costi ambientali della guerra, ora più che mai, che quotidianamente l’opinione pubblica internazionale assiste all’ecatombe che in Medio Oriente la follia bellica sta producendo.

A maggior ragione perché, se i Paesi riuniti nella conferenza per il clima volessero aiutarsi reciprocamente nel risolvere la propria miopia, potrebbero realizzare quanto i danni militari sull’ambiente determinino circoli viziosi, o meglio cortocircuiti, destinati a generare nuovi conflitti e ulteriori disastri umanitari.

Nei prossimi decenni più che in passato, i conflitti saranno guerre ecologiche e si svilupperanno intorno al controllo dei corsi d’acqua e delle aree fertili a causa della desertificazione, mentre i migranti ambientali si moltiplicheranno. 

Secondo il Centro Globale per la Mobilità climatica, fino al 10% della popolazione del Corno d’Africa nei prossimi anni sarà costretta a emigrare a causa della crisi climatica.

Se l’orrore umano di massacri e interi genocidi non riesce a fermare i miliardi di dollari che continuano a essere investiti nella macchina bellica, però, è difficile immaginare che possano farlo le tonnellate di anidride carbonica emesse nell’atmosfera.

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