Ora che il corpo s’è preso il definitivo riposo lo spirito di Carlos Fuentes viaggerà con le migliaia di pensieri disseminati in libri, articoli, interventi che hanno costellato le ottantatre primavere della sua vita. Ben oltre una patria grande come l’intera America Latina che non gli bastava perché da vero apolide amava dire “E’ perfetto colui che non si trova a casa da nessuna parte”. Naturalmente casa e radici le aveva messe, in Messico dopo un’infanzia itinerante dietro il padre diplomatico che lo fece nascere a Panama per poi condurlo a Quito, Rio de Janeiro, Montevideo, Buenos Aires e anche Washington. Alcuni di questi luoghi, come il Cile dove conobbe Neruda o l’Argentina della sensualità tanguera e la scoperta di Borges, saranno tappe fondamentali per la sua formazione umana e letteraria, per la scelta del mestiere di scrittore, per l’impegno politico che ne ha caratterizzato esistenza e produzione artistica. In questa, accanto all’occhio critico della nazione messicana di cui era cittadino, riportò le domande spesso irresolute di quel cordone ombelicale esistente fra il vecchio continente europeo e il nuovo mondo americano, diviso fra un nord distaccato e poi espressione del moderno imperialismo e il sud ispanico, coloniale e segnato da passione e violenza.
Come il Messico di cui nell’ultimo romanzo ricordava i drammi legati a un tessuto sociale compromesso da contorni sempre più torbidi che coinvolgono l’intera società, ma soprattutto i più deboli incapaci di avere voce. Sul tema la sua tensione per il riscatto delle popolazioni s’era incupito senza comunque farne calare la tensione nella missione di scrittore e di ambasciatore delle parole e delle idee. Certamente proprio per la prossima scadenza elettorale dell’ormai popolosissimo Messico (di cui ricordava il boomerang del boom demografico che in secolo aveva portato la popolazione da 20 a 110 milioni di abitanti) scuoteva la testa su ciascuno dei tre candidati alla presidenza (il centrista Pena Nieto, la nazionalista Vazquez Mota, il gauchiste Lopez Obrador ). “Sono cattivi candidati – aveva dichiarato in una recente intervista – troppa diversità fra le loro persone e la gravità dei problemi”. Però ricordava anche come il degrado sociale fosse ormai un problema mondiale senza che questo diventasse un alibi né una giustificazione per una nazione ostaggio della criminalità. Fuentes rilanciava quello sguardo al mondo che aveva caratterizzato tanti anni e impegni della sua vita: dalla vicinanza alla Cuba castrista, al rifiuto di recarsi nell’Argentina della dittatura militare, alla celebre invettiva saggistica contro Bush junior.
Riparlava lo spirito ribelle e antimperialista che l’avvicinava da una vita a Garcia Marquez e lo distingueva da Vargas Llosa, un ex compagno di lettere e di strada da tempo ammaliato dal liberismo. Comunque lo scrittore peruviano gli ha reso omaggio “Fuentes ci lascia un’opera enorme che è una testimonianza eloquente di tutti i grandi problemi politici e delle realtà culturali del nostro tempo”. La costante attenzione per le questioni sociali, diciamo noi, era il suo forte assieme alla meticolosa cadenza quotidiana della ritualità della scrittura. Un’arte di profonda solitudine nella quale occorre amare le genti per sfuggire l’autoreferenzialità e riportare sul foglio di carta bianca quell’immensa esperienza umana chiamata Storia.
- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO
Ultima modifica: stampa