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Chi comanda a Napoli?

Giuseppe Manzo, Antonio Musella, Chi comanda Napoli. Clan, clientele politiche e Chiesa: i poteri forti che da vent’anni mettono sotto scacco la città, Roma, Castelvecchi, 2012, € 12,50

Il libro scritto da Manzo e Musella inaugura una interessante collana della Castelvecchi dedicata alla analisi del potere/dei poteri nelle principali aree urbane italiane (da Napoli a Torino, da Milano a Roma e Firenze). Per gli studiosi, i mediattivisti, i militanti politici, sindacali saranno di certo importanti strumenti di supporto alla mappatura dei territori entro cui operano.

“Chi comanda Napoli” è certamente un titolo ambizioso, tuttavia il lavoro degli AA. non ha la dimensione ed il respiro di opere che, in passato, si sono confrontate con le stesse tematiche delle strutture e delle relazioni di potere nella società napoletana. Si pensi, tra le varie, al classico lavoro di Percy Allum, Potere e società a Napoli nel dopoguerra, Torino, Einaudi, 1975.

“Chi comanda Napoli” opera su piani analitici differenti ed ambiti di indagine più limitati, ma è costruito attorno ad una brillante idea: quella di utilizzare le dinamiche del potere che si sono articolate attorno alla questione “monnezza” a Napoli quale caleidoscopio delle strutture di potere che hanno governato la città partenopea e l’intera Campania negli ultimi decenni.

Attorno alla “questione rifiuti” sono state costruite, consolidate e disarticolate trame del potere, dei poteri che hanno condizionato e per certi versi plasmato l’agenda politica locale e regionale recente: sul piano dell’attrazione di denaro pubblico; della messa in movimento di meccanismi di appalti e subappalti milionari per lo più pilotati; della ramificazione delle relazioni tra sfera politica, imprenditoriale, malavitosa; della sperimentazione di modelli di governance dispotici ed eccezionali (commissariamento e protezione civile) con le sue propaggini neoclientelari ben rappresentate dal coacervo di società miste o camuffate dallo spoil system e da quello delle consulenze esterne; della produzione di modelli disciplinari e narrativi estendibili con varie modulazioni ad altre realtà di mobilitazione della società civile e di vera e propria insorgenza (repressione delle lotte e discorso sulle proteste: sempre infiltrate – da sistemi criminali al Sud o da pericolosi sovversivi al Nord: dalla No-Tav al No-Ponte al No-Dal-Molin ecc…). Un vero e proprio laboratorio, quello napoletano/campano, utile anche ad aprire nuovi orizzonti (ad alta redditività) al fronte inceneritorista.

Dai tempi in cui Alessandro Iacuelli, nella introduzione ad una sua coraggiosa e ben fatta inchiesta, lamentava l’indisponibilità di qualsiasi editore a pubblicare il suo lavoro (inizialmente diffuso in formato .PDF gratuito e poi edito da Rinascita) ad oggi, la letteratura in materia è cresciuta esponenzialmente: da quella con approccio più tipicamente di inchiesta giornalistica a quella di impianto più storico-analitico fino alle analisi di natura politica [1]. Ecco perché non ci trova del tutto d’accordo il dato di partenza che ha mosso i Nostri a scrivere il libro: «In questo enorme lasso di tempo di “emergenza rifiuti”, quello che è mancato fino ad oggi è il tentativo di una ricostruzione storica di un vero e proprio disastro ambientale» (p. 7). Invero, molto è stato scritto ed anche con buona cognizione di causa in materia, anche in prospettiva storiografica. Basti pensare, tra i più recenti, al libro autobiografico di Tommaso Sodano che, sebbene con taglio eccessivamente narcisistico al limite del sopportabile, ricostruisce con precisione la lunga stagione dell’emergenza dei rifiuti in Campania.

Spigolature a parte, il libro è ben scritto, argomentato con solidità di riferimenti a fatti storici provati e spesso anche oggetto di procedimenti penali. Il lavoro degli AA. restituisce una ragnatela di intrecci, relazioni politiche, imprenditoriali, camorristiche, personali, che vedono coinvolte le principali espressioni del potere istituzionale e non, passando per il Moloch della protezione civile di Bertolaso e la stessa Chiesa: un vademecum degli interessi e dei personaggi da cui stare alla larga e contro cui organizzare la battaglia politica e della controinformazione.

Da encomio, per la scelta pionieristica, la puntuale ricostruzione del ruolo che hanno assunto le massime gerarchie ecclesiastiche napoletane, nella persona del cardinale Sepe, riguardo la questione rifiuti. Dal Giubileo in poi – ricostruiscono gli AA. – si saldano rapporti molto stretti tra Guido Bertolaso ed il cardinale Sepe, vicinissimo all’Opus Dei, coadiuvati da altri sodali referenti politici. Rapporti preferenziali che si riverbereranno anche nell’affaire “monnezza”: nel pieno dell’emergenza del 2008, con la città di Napoli e le sue periferie sommerse da cumuli di rifiuti, viene individuata, quale sito per l’allestimento di una nuova discarica, la cava del Poligono di Chiaiano, di proprietà dell’Arciconfraternità dei padri pellegrini, quindi della curia. I favori reciproci tra il cardinale Sepe e Bertolaso si concretizzeranno in vari altri episodi (assunzioni pilotate, parenti di Bertolaso che lavorano per l’Opus Dei, finanziamenti ad un progetto di raccolta differenziata gestito dalle parrocchie napoletane mai partito o comunque mai funzionato).

Nulla di nuovo, verrebbe da dire. Nulla di sorprendente. Tutto congruente con i continui scandali che ci restituiscono una Chiesa cattolica dalla dimensione sempre più spiccatamente di potere temporale, ove la carne (questione sessuale, morale, pedofilia), il denaro (IOR, Opus Dei, Comunione e liberazione, imprenditorialità filo-vaticana), il potere politico costituiscono i nodi salienti del filo rosso che collega la chiesa alla società civile ed agli apparati pubblici, istituzionali.

L’aver incentrato tutta la propria critica attorno ad una ricostruzione “personalistica” dei poteri, forse è il lato debole della tesi di fondo degli AA.: il paradigma interpretativo ed analitico utilizzato per ricostruire le trame del potere napoletano ricalcano quello tracciato negli ultimi anni dalla letteratura di inchiesta giornalistica (piuttosto che di impostazione sociologica) che ha concentrato la propria attenzione sulle “caste” e sulle “cricche”[2], coagulate attorno alla attività lobbystica o di diretta occupazione dei posti di comando, di strutture “clanistiche” di potere. Tale impostazione, molto efficace sul piano impressionistico, si tiene lontana da analisi più strutturali delle classi, dei ceti, delle élite, delle dinamiche del potere e della loro riproduzione su scala allargata nel rapporto tra dominanti e dominati; fuori anche dalle logiche dell’analisi microfisica dei poteri. Per dirla in breve: né Marx, né Veblen, né Wright Mills, né Foucault[3]. La analisi sistematica dei rapporti sociali di riproduzione di una formazione socio-economica è completamente aliena da tale approccio. Ciò che emerge è l’esistenza (indubitabile) di gruppi più o meno allargati di truffaldini e criminali, che si organizzano in strutture di potere più o meno durature, approfittando della spesa pubblica pilotata: a volte creando vere e proprie voci di spesa, a volte sfruttando quelle esistenti, piegate alle logiche dei propri interessi privatistici, utilizzando gli strumenti politico-amministrativi ordinari o quelli d’eccezione.

Ma come si riproducono nel contesto macrosociale queste caste, queste cricche? E quali rapporti intessono con le classi dominanti? Ne fanno parte, sono ad esse funzionali o solo delle escrescenze disfunzionali ad un progetto di dominio a più ampio raggio, di egemonia? Insomma, se tale letteratura ha il pregio assoluto di svelare meccanismi predatori e dare volto e nomi a soggetti dediti allo sciacallaggio delle ricchezze pubbliche, se tali lavori servono a descrivere la fenomenologia (spesso anche miserabile) del potere attuale, a restare oscure sono le fonti del potere e le sue radici.

Una simile impostazione interpretativa è forse uno dei frutti (per certi versi positivo, ma insufficiente) della sedimentazione della cultura legalitarista che negli ultimi decenni ha sostituito a sinistra buona parte dei suoi “totem classici”. La diffusa corruzione, il malcostume generalizzato, la sistematica sottovalutazione dei reati contro la pubblica amministrazione e l’ambiente, l’incapacità strutturale a condurre una seria guerra contro le organizzazioni criminali, la autonomizzazione completa del politico dalla sua base da rappresentare la questione morale, sono temi che – da Tangentopoli in poi, passando per i vari fenomeni dei girotondini fino al popolo viola ed al grillismo, passando per i corifei massimi di tale verbo – hanno performato la agenda politica della sinistra italiana negli ultimi decenni. La legalità intesa in termini giuridico formali ha sostituito i concetti politici di giustizia e legittimità della prassi. La magistratura si è sostituita al partito come potente strumento organizzato deputato al perseguimento della “giustizia” (sul piano giudiziario). Volenti o nolenti, si riducono gli spazi dell’agire politico e si ampliano a dismisura (distorcendone senso e funzione originaria) quelli del conflitto giudiziario. L’operato della magistratura diviene la nuova cartina tornasole del cattivo stato di salute della democrazia ed il discorso giudiziario, cristallizzato negli atti processuali, diviene fonte storiografica e di legittimazione politica.

V’è da dire che gli AA., sin dalle primissime battute, evidenziano tale pericolo, sostenendo anzi che “la storia non si scrive nei tribunali”, tuttavia è lo stesso paradigma interpretativo utilizzato per la loro brillante inchiesta a condurre pericolosamente verso i lidi della riduzione dello spazio del politico, riproducendo il discorso giudiziario, il suo senso e la sua logica (sebbene l’operato della magistratura non sia immune da critiche nel testo recensito).

In definitiva, la scelta della ricostruzione del potere come “casta” e/o come “cricca”, conduce alla narrazione di processi “degenerativi”, di “deviazione” dal corretto “uso” delle istituzioni attuali. La critica dello Stato e dei suoi apparati lascia il posto alla critica di una particolare modalità di occupazione e gestione degli stessi.

Contro tale deriva, più dell’azione politica di trasformazione radicale dello stato presente delle cose, può – coerentemente – la magistratura col suo operato bonificatore (medicale), di eliminazione delle storture (estirpazione del male) con conseguente punizione dei devianti (prevenzione da ricadute), magari coadiuvata in tale “intervento” dall’azione di inchiesta, di denuncia e controinformazione della società civile. Dalla delega al partito alla delega alla magistratura: il perfetto paradigma del neopopulismo di sinistra (con l’aggravante che le decisioni della magistratura non possono essere condizionate da alcuna procedura decisionale democratica).

Sia ben chiaro: non si intende sostenere che gli AA. abbiano abbracciato tale deriva – ché, anzi, sappiamo essere compagni molto impegnati su più fronti dell’attivismo politico – ma il paradigma analitico adottato porta in sé tale pericolo.

Interessante, infine, la scelta di alternare capitoli scritti dagli autori con tre interviste, di cui la prima, a Francesco Maranta, è sicuramente la più interessante, mentre la più inconsistente sul piano contenutistico, non certo per colpa degli AA., è quella realizzata con il Sindaco di Napoli Luigi De Magistris.



[1] Tra i tanti, si v. A. Iacuelli, Le vie infinite dei rifiuti. Il sistema campano, Roma, Edizioni Rinascita, 2008; P. Rabitti, Ecoballe, Roma, Aliberti, 2008; B. Iovene, Campania infelix, Milano, BUR, 2008. Tra le letture provenienti dal mondo dell’alternativa al piano regionale dei rifiuti (inceneritori e discariche), si v. T. Sodano, La peste. La mia battaglia contro i rifiuti della politica italiana, Milano, Rizzoli, 2010; A. Musella, Mi rifiuto! Le lotte in difesa della salute e dell’ambiente in Campania, Roma, Sensibili alle Foglie, 2008 e Contropiano per la Rete dei Comunisti, Trash. La metropoli e i suoi rifiuti. Riflessioni e analisi sull’organizzazione capitalista delle metropoli vista dal basso. La realtà della Campania, i suoi rifiuti e le sue periferie, Roma, 2008.

[2] Da “La casta” dei politici di Stella e Rizzo all’”Altra casta” dei sindacalisti di Livadiotti, da “La cricca” di Rizzo fino agli “Sciacalli” di Zunino.

[3] Contro tale tendenza semplificatrice, pur confrontandosi con essa, hanno reagito con un buon tentativo di analisi sociologico-politica più “strutturale” – pur se limitato alle strutture di poteri di un ristretto ambito politico-partitito – gli autori di “I Forchettoni rossi. La sottocasta della ‘sinistra radicale’”, Bolsena, Massari editore, 2007, a cura di R. Massari.

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