I. A osservarla molto da vicino, senza farsi impressionare dai grandi nomi o dalle date memorabili, la Storia pullula di figure singolari. Figure che non sono affatto ricordate, pur avendo fatto qualcosa di importante; esistenze non comuni, senza essere celebri; persone di un certo spessore umano e morale, e tuttavia esposte come tutte agli sbagli, allo scoramento, alla stanchezza. Uomini e donne, per dirla con Gaetano Arfè, che non trionfano mai ma che non sono mai vinti. Se la vittoria non li vede in prima fila a raccogliere onorificenze, la sconfitta, che pure li avvolge, non li abbatte, e quando pure li afferra non li tiene.
Sono proprio queste figure, eroiche solo in un senso molto sobrio, ad essere al centro dell’ultimo libro di Giuseppe Aragno, Antifascismo e potere. Storia di storie (Bastogi, Foggia 2012). Un libro che tira fuori dall’oblio le vicende di otto antifascisti e le fa rivivere sotto i nostri occhi, mostrandone l’attualità, la clandestina vicinanza al nostro tempo. Un libro in cui la storia stessa si fa presente, è un altro presente. Un libro che, proprio per questo, vale la pena di prendere sul serio.
II. Aragno è un noto studioso del movimento operaio, autore di numerose pubblicazioni che cercano di ricostruire la complessa storia del lavoro a Napoli e in Campania, e le vicende delle correnti anarchiche, socialiste, comuniste nei primi cento anni della storia d’Italia. Qualche anno fa suscitò parecchio interesse un suo libro, Antifascismo popolare (Manifestolibri, Roma 2009), che raccontava il mondo variegato e per nulla “ortodosso” dell’opposizione alla dittatura di Mussolini. Ora di quel libro esce una sorta di sequel: Antifascismo e potere è infatti una raccolta di piccoli ritratti di sovversivi e dissidenti, principalmente napoletani o in qualche modo legati a Napoli, che combatterono, ciascuno a suo modo, il fascismo. Ma quest’ultimo libro, pur confermando l’impostazione storiografica del lavoro precedente, va oltre, perché intende mettere in questione non solo il potere fascista e le modalità feroci del suo esercizio, ma il potere tout court. Vediamo meglio.
La ricerca di Aragno muove, sin dalle sue prime pubblicazioni, dal lavoro di De Felice, assumendo come problematica quella questione del consenso che è il perno di ogni discorso revisionista. In effetti, dire che Mussolini seppe costruire consenso intorno a sé vuol dire in fondo – siccome lo scopo del politico è proprio quello di creare uno spazio e un sostegno alla sua azione – riconoscerlo come “grande statista”. Cioè come un pacificatore delle tensioni nazionali, come il costruttore e persino il modernizzatore di un’Italia uscita povera e dilaniata dalla Grande Guerra. Il problema di Aragno è appunto quello di mostrare su quale rimozione si sia fondato questo consenso e la sua narrazione: ovvero sull’asportazione, prima materiale e poi anche storiografica, della questione sociale, della vita concreta di milioni di contadini e di operai, così come sull’esclusione dei cittadini dalla sfera politica e culturale. In quest’ottica il consenso mussoliniano si rivela basato sull’estorsione e la minaccia, e dunque non è altro che una parvenza, una conseguenza dell’oppressione.
Su questa via, l’impostazione di Aragno finisce si contrappone pure a quell’antifascismo istituzionale che, rimuovendo anch’esso la ragione sociale del regime, sembra incolparlo unicamente della violazione dei “diritti umani” o della negazione dei “principi democratici”. Quasi come se il fascismo fosse una parentesi illiberale in una lunga storia italiana fatta di “regole chiare”, di uguaglianza e di condivisione dello stesso destino, quest’antifascismo di rito – e forse proprio per questo sempre meno sentito – presenta la Resistenza come il compimento del percorso risorgimentale, come la riscossa nazionale di una libertà senza bandiere né colori contro una dittatura cattiva, ormai sconfitta una volta per tutte…
Sulla scia di storici come Arfè e Luigi Cortesi, Aragno contesta dunque il revisionismo imperante in questi anni ma non cade nella retorica di una Resistenza combattuta solo in nome della patria, di una Resistenza avulsa dal conflitto di classe, diretta dall’alto da integerrimi dirigenti di partito e disinteressatamente sostenuta dagli Alleati. Al contrario: Aragno mostra come ci sia una fortissima continuità fra l’antifascismo – che sorge nel momento stesso in cui nasce il movimento fascista, dato che questo è la sintesi più rigorosa e conseguente dell’attacco che le classi dominanti portavano da decenni contro il proletariato – e la Resistenza, che è sì un moto di liberazione ma anche di sovversione. Un moto che quindi non inizia il 25 luglio o l’8 settembre del 1943, ma attraversa, pur se a fatica e a caro prezzo, tutto il Ventennio. Con il suo approccio “dal basso” Aragno riesce così a mostrare le svariate forme che caratterizzano l’opposizione al regime, mettendo in luce come la Resistenza vittoriosa abbia tratto la sua forza da questa Resistenza insorgente, da questi sacrifici quotidiani, dai tanti militanti oscuri, dai tanti “no” detti a mezza voce, dai rifiuti e dai sospiri di migliaia di reclusi, confinati, bastonati.
III. Proprio per questo, il modo migliore di leggere il libro di Aragno è partire dal suo sottotitolo, Storia di storie. Perché nel sottotitolo c’è già un’impostazione teorica, un certo sguardo. Appare subito, infatti, il motivo che sostiene tutto il testo: l’idea che la Storia sia fatta da una pluralità di voci, di vicende singolari, di percorsi individuali. E che sia il loro incontro, la loro circolazione, tutto questo vorticoso aggregarsi e scomporsi di vite, a mettere capo alla Storia, a quella totalità che sembra sempre investirci e travolgerci, e che si lascia pensare solo sulla taglia del Grande Evento. Il vestito storico, sembra dirci Aragno, è tessuto di fili sottilissimi, ma ogni filo ha il suo spessore, la sua lunghezza, il suo colore, e vale la pena di seguirlo fino in fondo. Ripercorrendolo quella vita non tanto e non solo come caso eclatante o come testimonianza privilegiata, e nemmeno come scarto che andrebbe recuperato quasi per pietà, per un senso di giustizia verso chi è stato travolto, ma, più profondamente, come una vita attiva, partecipe e persino protagonista del proprio tempo. In altri termini, per capire davvero la Storia, per dirsela tutta, lo storico si deve mettere al microscopio. D’altra parte il passo fra biografia e biologia è breve: è quello che c’è fra lo scrivere, il disegnare, l’incidere i tratti di una vita, e il comprenderli, il discorrerne, il cercarne i principi.
È questa specifica scienza storica, questa comprensione del particolare per meglio arrivare alla totalità, che ci sembra essere il metodo del libro di Aragno, e anche il suo principale merito. Il lavoro rigoroso sugli archivi, la meticolosa ricerca di fonti, l’osservazione di tutte le tracce che una vita lascia, e la narrazione che mette tutto in sequenza, ci restituiscono il pensiero e l’azione di questi otto personaggi altrimenti destinati a restare ignoti. Perché chi può dire di conoscere le peripezie affascinanti e dolorose degli anarchici e socialisti Clotilda Peani, Umberto Vanguardia, Emilia Buonacosa, Giovanni Bergamasco, perseguitati prima dalla polizia “liberale” e poi da quella fascista per le loro idee di uguaglianza e per il loro impegno sindacale, per la loro voglia di sollevare i lavoratori al livello della decisione politica? Chi può dire di aver già sentito le storie di Kolia Patriarca o di Luigi Maresca, non due militanti senza macchia, ma due persone “normali”, tranquille, con l’unico torto di aver avuto delle idee e di averle manifestate, condannandosi a vagare da un paese all’altro, irrimediabilmente lontani dalle loro famiglie? E ancora, chi può immaginare che al fascismo si potesse opporre, e proprio negli anni del supposto consenso, anche un uomo di destra come Pasquale Ilaria, patriota pluridecorato della Prima Guerra Mondiale, e che il “potente” regime potesse temere anche ragazzi evidentemente spauriti, soli e traumatizzati come Renato Grossi?
Aragno è pienamente cosciente di stare compiendo un’operazione in un certo senso salvifica, di stare cioè resuscitando i morti, i sommersi, come direbbe Primo Levi. Basta prendere questa sua frase: «di ciò che siamo davvero, tutto si perde nel silenzio dei secoli e il tempo nostro “personale” raramente coincide col “tempo collettivo” di cui rimane traccia. Tutto si perde, a meno che storici o artisti non lo ricordino a chi, dopo di noi, farà la sua parte sul palcoscenico che ci vide all’opera» (p. 98). In questo senso Aragno sembra rispondere alle scomode domande di quel famoso lettore operaio di Brecht, che, imbattendosi nella Storia, si chiedeva chi la facesse per davvero: chi ci fosse dietro a Tebe, a Babilonia, a Roma, chi avesse materialmente costruito quei grandiosi monumenti, chi avesse realmente combattuto le guerre, chi fosse, insomma, il regista nascosto dai nomi, sempre troppo altisonanti, degli attori… Invece la storiografia ufficiale – affascinata dai grandi destini, dalle manovre diplomatiche, dagli intrighi di Palazzo – tende “naturalmente” a dimenticare il lavoro, la sofferenza, l’oppressione patite dagli uomini. E a maggior ragione dalle donne.
E qui è di un’estrema importanza che il libro di Aragno riservi tanto spazio alla figura femminile, mettendo in apertura l’anarchica Peani e continuando subito con Varia, la coraggiosa moglie di Patriarca, per descriverci poi l’attività politica instancabile e itinerante dell’operaia Buonacosa, per chiudersi infine con le straordinarie Maria e Ada Grossi. Donne che, per quanto capaci di affrontare le peggiori avversità, non vengono mai riconosciute dai questurini capaci di una volontà indipendente, di una posizione politica. La rappresentazione della donna che emerge infatti dagli archivi delle forze dell’ordine oscilla fra quella dell’eterna tentatrice che «suscita eccitamento tra la folla e con la sua audacia può trascinare i compagni» (p. 11), come riferisce un poliziotto romano a proposito della Peani, e quella “classica” della «donna di facili costumi» (p. 57), come scrive un comandante dei Carabinieri di Salerno a proposito della Buonacosa. Convergono qui il senso comune maschilista, che vuole perduta ogni donna che non sia santa, e quella particolare cattiveria che il servo dello stato esercita contro il militante rivoluzionario. Così sorprende solo fino a un certo punto vedere come questi burocrati si ergano anche a maestri di rettitudine e non disdegnino nelle loro note informative di ragionare sulla «cattiva condotta morale» o sulla «vita irregolare» (p. 10) delle loro vittime. E quando pure gli riconoscono un’opinione politica, questa non è mai il prodotto di un pensiero autonomo, di un percorso individuale che muove dalle ingiustizie subite per arrivare infine alla chiarezza di azione: è sempre su istigazione dell’uomo, per imitazione, per amore, che la donna si impegna – senza che questo paternalismo produca peraltro condanne più miti… Insomma: anche quando si muove, la donna è mossa. Non fatichiamo a credere che sia ancora questo il pensiero di tanti questurini d’oggi.
V. Ed è forse proprio a partire da questo riferimento al presente, da questa continuità di certe logiche coercitive, che possiamo capire fino in fondo il senso del titolo del libro, non meno eloquente del sottotitolo, Antifascismo e potere. Qui appare il collante che tiene insieme queste biografie così diverse fra loro: è la cieca ferocia della “ragion di Stato”, l’assurda razionalità dell’ordine costituito, che impone dall’alto le sue decisioni e sempre si autoassolve.
In effetti, è proprio l’opposizione al potere – di cui il fascismo è solo l’espressione più becera, più violenta, più infame – a essere all’incrocio di traiettorie politiche e umane così diverse. Innanzitutto perché alcune delle figure che Aragno ci presenta conoscono l’allontanamento, il carcere, la persecuzione giudiziaria ben prima del fascismo, sotto il governo di Giolitti, facendoci toccare con mano la continuità delle politiche repressive fra l’Italia “liberale” e quella mussoliniana (ma, si potrebbe dire, anche fra questa e quella repubblicana, vedendo come falliranno subito i processi di defascistizzazione, quale sarà l’esito dell’amnistia, quali i nomi dei giornalisti, dei giudici, dei prefetti e dei questori che saranno riciclati nelle istituzioni “democratiche” appena finita la guerra…). In questo modo Aragno mostra che il fascismo non è solo un determinato regime, sconfitto una volta per tutte, ma una logica di governo del conflitto sociale di lungo periodo, imperniata intorno alla tutela a ogni costo delle classi dominanti e dei loro profitti, al restringimento degli spazi del dissenso, e infine alla guerra (tratti che, ancora una volta, Italia liberale, fascista e repubblicana hanno in comune: basti pensare a come si chiude il cerchio della FIAT, da Giovanni Agnelli a Marchionne passando per Valletta, o all’intervento tricolore in Libia, oggi come un secolo fa).
Così queste biografie testimoniano di un’ostilità al potere ovunque le sue logiche repressive si manifestino, dalla Francia in cui tanti oppositori al regime si rifugiano, alla Spagna verso cui molti esuli, come la famiglia Grossi, si spostano per dare il proprio contributo alla lotta contro il fascismo. Un’ostilità al potere che Aragno sembra condividere con i suoi personaggi, anche quando – ed è il caso di Patriarca – si tratta di criticare la stessa Rivoluzione Sovietica, la cui orizzontalità, inclusività, apertura, cambiano definitivamente di segno nell’epoca staliniana, finendo per erigere un altro potere, gerarchico, paranoico, persecutorio.
Da questo punto di vista – ed è un altro motivo di interesse del libro – l’utilizzo di qualsiasi strumento, anche della scienza, per liquidare l’opposizione politica, è il migliore indicatore di come i regimi si assomiglino tutti, di come, per Aragno come per De André, non ci siano poteri buoni. Dall’epoca di Lombroso fino a oggi, sociologia, criminologia, psicologia e infine psichiatria convergono infatti nel produrre un sapere disciplinante, un sapere che autorizzi il controllo della popolazione, la reclusione dei corpi, la loro forzosa separazione dal contesto umano con la pretesa di rieducarli e la volontà di punirli. Senza scomodare Foucault, Aragno ci mostra come ad esempio la psichiatria venisse usata là dove la detenzione comune non poteva arrivare: in mancanza di evidenze per condannare subito un oppositore al carcere, una gigantesca macchina burocratico-amministrativa lo teneva sospeso sulla soglia della colpevolezza per anni, fino a farlo impazzire, o meglio, fino a poter constatare in lui quei segni sufficienti a giudicarlo pazzo, e sbarazzarsene in qualche manicomio. In questo modo non ci si liberava solo di un avversario politico, ma si screditava tutta l’opposizione, la si riduceva all’impossibilità di parlare, esibendola da subito come irrazionale solo perché in contrasto con la razionalità dominante. In effetti un detenuto politico ha delle ragioni, lo si può odiare, biasimare, non condividere, ma ha i suoi motivi, i suoi scopi, che si possono capire. Un fanatico o un pazzo no: sono brutture da cancellare, residui arcaici, devianti che ignorano gli assunti di base del vivere sociale… Qui l’accusa di utopia vale immediatamente come certificato di follia, anche se a distaccarsi un attimo dalla quotidianità appaia evidente come la sola utopia e la sola follia siano quelle che pretendono che nulla cambi mai. Ma allora, se così stanno le cose, non si tratta tanto di capire chi, fra il medico (l’apparato repressivo e disciplinare) e il malato (il rivoluzionario che ha osato sfidarlo e che non ritratta), sia il vero folle: si tratta piuttosto di capire dove passi la linea di demarcazione fra follie condotte in maniera estremamente saggia e cose sagge condotte in maniera estremamente folle, come diceva Montesquieu. Cioè fra il contenuto assurdo dell’ordine dominante, con la sua logica spietata e il suo vestito presentabile, e la ragionevolezza di chi domanda un ordine nuovo, e lo fa sfidando le convenzioni, a rischio del carcere e della morte… A ben vedere i rivoluzionari, giudicati e condannati per la loro condotta nel presente, vengono assolti dalla storia per il buon senso delle loro idee.
VI. In ogni caso, è su questo punto dell’opposizione al potere – di cosa sia il potere e di cosa voglia dire opporvisi – che il libro di Aragno apre davvero la discussione, lasciandoci anche liberi di obiettare o completarne il pensiero. Innanzitutto da un punto di vista storico. Se infatti è certamente decisivo che alle tante esperienze di opposizione al fascismo venga dato finalmente rilievo, se è importante tenere a mente ogni torto subito, è altrettanto fondamentale ricordare che il merito maggiore degli antifascisti, e in particolare di quelli comunisti, è stato quello di costruire, nel contesto difficile di una dittatura, reti di contatto e di coordinamento che sono riuscite a sopravvivere alle infiltrazioni e alle retate del regime, che hanno permesso che non si spezzasse, almeno nelle fabbriche e nei quartieri popolari, il filo rosso dell’opposizione. Insomma, dietro e attorno alle vite che Aragno ci presenta, che in ultima istanza sembrano così sole, ci sono invece sindacati, partiti, culture politiche, famiglie, giri di amici, insomma, tutta una vicenda collettiva che bisogna stare attenti a non mettere troppo sullo sfondo. E questo ci porta al problema centrale del testo.
Se infatti uno degli scopi di Aragno è di far sì che dal passato si traggano degli insegnamenti, ce n’è uno che balza subito agli occhi: che è impossibile combattere il potere da soli, che l’attività principale della repressione è proprio quella di dividere, di isolare e persino, come abbiamo visto, marchiare il soggetto, davanti al pubblico e davanti a se stesso, come folle. Molti degli esiti tragici di queste storie fanno cioè pensare che – se il “no” che si pronuncia è sempre una questione privata, è un atto di responsabilità personale, un’invenzione assolutamente singolare – l’unico modo per far durare questo “no” è quello di posizionarlo e stringerlo in una rete collettiva, che lo sostenga nei momenti di difficoltà, che lo renda più forte, in modo da non poter essere facilmente attaccato e distrutto. Ma far questo non vuol dire appunto creare organizzazione? E l’organizzazione non è anche una forma, per quanto embrionale e relativa, di potere? E d’altronde, che cos’è il potere? È una forza che sta solo dal lato del dominio, pura coercizione, o non è anche e innanzitutto un poter fare, da cui ognuno di noi è investito? E se così è, se cioè il potere trova anche in noi il suo momento iniziale o terminale, mettersi insieme e produrre effetti non vuol dire già contrastare il potere? Non vuol dire ostacolare quella temporalità lunga del potere costituito, quel suo perenne poter aspettare, con una temporalità rivoluzionaria, quella che riesca a mantenere il “no” pronunciato un giorno, a sedimentare le esperienze, a far durare l’insorgenza?
D’altra parte, se il libro di Aragno vuole appunto fare presente un’altra storia, oggi non facciamo proprio esperienza dell’assenza radicale di questa organizzazione e di quest’altro potere? Dai singoli militanti alle piazze “indignate”, non circola ossessivamente la domanda – dopo trent’anni di smantellamento di contenitori collettivi, di istituzioni sociali che potessero tenere insieme e dar conto delle diverse volontà – di programmi e strumenti che possano imporre, alle logiche di potere della borghesia, l’altra logica del potere popolare? Da questo punto di vista, denunciare il «pragmatismo politico» come «tecnica di dominio» tout court (p. 7), come a volte sembra fare Aragno, non rischia piuttosto di condannarci all’impotenza? La “ragion di Stato” ha il suo più tremendo avversario nell’autenticità e nelle moralità individuali, o nel contropotere effettivo che pone già nell’ordine esistente un’altra moralità, collettiva e niente affatto individuale? Insomma, fra il realismo senza scrupoli del potere e un’utopia incantata quanto inefficace, non c’è forse lo spazio, risicato ma certificato storicamente, di un altro realismo, che ha di mira qualcosa che ancora non si vede, ma può essere qui? C’è forse da scegliere fra purezza dei mezzi e pragmatico perseguimento dei fini o l’antitesi è falsa? Fra eroismo e rinuncia, fra il non venire mai a patti e l’esserci già venuti, non si apre forse una strada, quella che è stata percorsa – e ancora oggi, se abbiamo il coraggio di allargare lo sguardo oltre la provinciale Europa, viene percorsa – dai movimenti rivoluzionari, quella strada a cui Che Guevara alludeva con il motto: siamo realisti, vogliamo l’impossibile?
Certo, non sono domande a cui questo libro può rispondere. Ma di sicuro, ponendole, facendoci riflettere a partire dalla concretezza storica, Aragno dà un contributo importante a questo realismo dell’impossibile ancora tutto da pensare e da praticare. A patto che il lettore voglia davvero ricominciare le sforzo di questi antifascisti, e magari portarlo fino in fondo, verso un esito – anche solo un poco – più felice.
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