Yvan Sagnet nelle cronache giornalistiche è passato come il leader dello sciopero dei braccianti immigrati di Nardò dell’estate del 2011. Sagnet aveva già avuto modo di raccontare la propria esperienza di lotta in un intervento pubblicato in un altro testo (AA.VV., Sulla pelle viva. Nardò: la lotta autorganizzata dei braccianti immigrati, Roma, DeriveApprodi, 2012).
Nel libro qui recensito, invece, l’autore. si confronta con un lavoro più ampio, che ricostruisce a grandi tappe la propria esperienza migratoria, il suo progetto di vita, le emozioni e le aspirazioni che lo hanno mosso a partire dal suo Paese, il Camerun, per giungere in Italia, Paese che imparò a conoscere da piccolo grazie ai mondiali dell’Italia ’90 e la Juventus. La spinta principale ad emigrare per Sagnet è stata comunque la giustizia sociale: la convinzione dell’impossibilità di lottare in patria per cambiare le cose, lo spinge a cercare giustizia altrove.
Particolarmente interessanti sono i passaggi in cui descrive la difficoltà di reperire la somma di denaro necessaria a fornire la garanzia per la borsa di studio al Politecnico di Torino (4.500€, tenuto conto che uno stipendio di tutto rispetto di un funzionario di polizia si aggira sui 250€). Tutti i conoscenti ed i parenti della classica famiglia allargata camerunense vengono invitati a contribuire a racimolare la somma necessaria per far partire Yvan. Il contributo però non è soltanto un dono, un gesto di gratuità, ma una sorta di partecipazione al progetto migratorio del parente, così da legittimare aspettative di “rientro” in futuro. Il progetto individuale di emigrare, assume quindi una dimensione familiare, collettiva, che pesa sulle spalle dell’emigrato durante tutte la propria esperienza, soprattutto in caso di fallimento.
Dopo i primi mesi trascorsi a Torino, tra ambientamento e corsi universitari, senza lavoro e con la necessita di sostenere i costi per gli studi, Sagnet – convinto da un amico – decide di andare a cercare occupazione nelle campagne pugliesi, a Nardò: Italia, ma Africa. Anzi, per molti aspetti, l’A. confessa di aver trovato, in quei luoghi, una dimensione di povertà e marginalità che nemmeno nei suoi luoghi natii aveva mai osservato. L’arrivo a Nardò, quindi alla Masseria Boncuri, il lavoro nelle campagne pugliesi per la raccolta di pomodori… sono varie tappe della discesa negli inferi del lavoro vivo dei braccianti immigrati nelle campagne meridionali.
Il primo approccio con il lavoro è traumatico. Sagnet viene da Torino, dove ha sempre lavorato con contratti regolari. Adesso nei campi nessuno gliene offre alcuno. Lavoro a nero o disoccupazione. L’A. descrive bene la condizione di disperazione e deprivazione che induce i suoi fratelli ad accettare condizioni di lavoro disumane, salari ridicoli, il cottimo, lo sfruttamento da parte dei caporali e dei padroni delle campagne. La misura della dimensione disciplinante del cottimo emerge dal racconto lucido di Sagnet: ritmi sempre più alti, tesi, densi, per poter racimolare più soldi. Concorrenza tra i braccianti, che spesso si inferocisce (emblematica la scena della “lotta” per l’ultimo cassone libero della giornata: chi se lo fosse accaparrato avrebbe potuto guadagnare 3,50€ in più riempiendolo con qualche quintale di pomodori).
Le paghe sono misere, sistematicamente decurtate dalle “voci di spesa” da dover riconoscere ai caporali: dal trasporto obbligatorio con i loro mezzi, al panino e così via… fino all’accompagnamento in ospedale in caso di infortunio: servizio pagato 10 euro. “Si accetta tutto, pur di sopravvivere”, così esprime la propria costernazione dinanzi alle condizioni di lavoro e di vita.
Sagnet poi descrive la vita nella Masseria Boncuri, la logica del “campo aperto”, liberamente accessibile anche da parte degli immigrati irregolari, a differenza di tante altre strutture simili. Il campo agevola lo scambio di opinioni, socializza le esperienze ed aiuta, anche se non da subito, anche l’osmosi relazionale tra i braccianti e le associazioni che ivi operano, che risulteranno utili anche durante lo sciopero per il sostegno morale ed attivo prestato.
Lo sciopero scoppia su questioni classicamente salariali, rivendicative. I prezzi pagati per ogni singolo cassone non vanno bene. Bisogna aumentarli sensibilmente. Di fronte al no netto dei caporali, i primi braccianti incrociano le braccia. Seguiti subito dagli altri, con una adesione iniziale allo sciopero del 95%. Assemblee, riunioni frenetiche, un continuo susseguirsi di notizie, la guerra di nervi tra braccianti e caporali. Che provano ad aumentare leggermente il prezzo per scardinare la lotta. I picchetti diuturni all’ingresso del campo. Ognuno è libero di uscire ma ai camion dei caporali è proibito entrare. Tensioni, anche di natura “etnica”, laddove i sospetti atavici tra comunità differenti, a volte anche artatamente instillati dai caporali, alcuni supposti privilegi di comunità più organizzate o più presenti in termini numerici e di anni sul territorio… finiscono nella percezione di molti braccianti nel produrre quasi una linea di demarcazione netta di colore: tra “bianchi” (maghrebini) e “neri” (subsahariani). Non sarà facile superare queste frizioni, si decide anche per questo di creare un direttivo multilinguistico, così che ogni gruppo omogeneo sul piano comunicativo possa avere un suo referente. Con il trascorrere dei giorni giungeranno a sostegno dello sciopero anche alcune associazioni antirazziste che spingeranno per allargare la piattaforma rivendicativa (salario di almeno sei euro orari, rimborso delle spese di trasporto, assistenza sanitaria garantita nei campi, contrattazione diretta con gli imprenditori italiani senza intermediazione dei caporali) anche alle questioni inerenti il permesso di soggiorno e la cittadinanza italiana dei lavoratori stranieri. Tuttavia, per non snaturare la lotta, si deciderà di mantenere la sua dimensione prettamente lavorativa, rivendicativa sul piano salariale e dei diritti dei lavoratori.
Gli scioperanti dovranno poi confrontarsi con la logica dei tavoli istituzionali che logora ai fianchi le rivendicazioni e la tenuta dello sciopero. Fa allungare i tempi, senza ottenere alcun concreto risultato. La delusioni per il fallimento di tali vertenze sarà uno degli elementi di forza del fallimento della lotta.
Se è vero che lo sciopero non otterrà i risultati sperati, con una sostanziale vittoria del caporalato, è pur vero che sedimenta una esperienza di lotta importante. Quello di Nardò è il primo vero sciopero di braccianti immigrati in terra italiana. Un momento di resistenza decisivo per la produzione di pratiche conflittuali collettive ed autoorganizzate ed anche per la memoria futura, per dimostrare che è possibile resistere, e che la sottomissione alle logiche di sfruttamento del capitale nelle campagne può essere rintuzzata, incrinata, limitata.
Lo sciopero di Nardò ha prodotto un ulteriore grande risultato, sul piano macrosociale ed istituzionale: è servito da spinta decisiva affinché il legislatore introducesse il reato di caporalato nel codice penale (art. 603-bis: “…chiunque svolga un’attività organizzata di intermediazione, reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia, o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori, è punito con la reclusione da cinque a otto anni e con la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato”).
Una nota finale va dedicata alla introduzione di Alessandro Leogrande, autore di vari articoli e saggi nonché di un importante libro sullo sfruttamento del lavoro dei braccianti immigrati nelle campagne meridionali. Nonostante siano anni che studi la materia, ancora gli sfugge la logica intima del sistema del caporalato, considerato un istituto arcaico innestato nella modernità, tipico dell’Italia meridionale, tutto sommato disfunzionale per un moderno agrocapitalismo. In verità tale istituto non solo non è prerogativa esclusiva delle nostre campagne del Sud, essendo diffusissimo anche nelle economie agricole più avanzate (si pensi a quella californiana), ma è assolutamente congruente con la logica di sfruttamento del capitale, laddove l’estrazione del plusvalore assoluto nei campi beneficia di una gestione flessibile e svincolata da qualsiasi logica di riconoscimento dei diritti. E ciò in una economia agricola che, per quanto possa considerarsi arretrata rispetto a quella delle grandi scale produttive di altri paesi, è perfettamente inserita nella complessa catena del valore agroalimentare, con i braccianti immigrati che costitusicono l’ultimo anello e le multinazionali della lavorazione/confezionamento e della grande distribuzione che gestiscono l’intero processo di estrazione del plusvalore su scala internazionale che fungono da vertice della filiera.
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