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Leggere Abraham Lincoln attraverso Karl Marx

Questi capitalisti generalmente agiscono in armonia e di concerto, per tosare il popolo.
Abraham Lincoln, dal suo primo discorso come rappresentante dello Stato dell’Illinois, 1837
Ora, tutti sono più o meno Socialisti
Charles Dana, caporedattore del “The New York Tribune”, sottosegretario alla guerra nell’amministrazione Lincoln, 1848
I lavoratori d’Europa sentono per certo che, come la Guerra d’Indipendenza americana ha avviato una nuova era di ascesa per la classe media, così la Guerra Antischiavista americana lo farà per le classi lavoratrici. Essi considerano questo conflitto un anticipo dell’epoca a venire, che ha avuto il suo principio con l’arrivo di Abraham Lincoln, un sincero figlio della classe operaia, che guida il suo paese attraverso una lotta senza quartiere per il salvataggio di una razza incatenata e per la ricostruzione di un mondo sociale.

— Karl Marx e l’Associazione della Prima Internazionale dei Lavoratori, messaggio a Lincoln, 1864

3 dicembre 1861. Un ex Congressista, per un solo mandato, che aveva trascorso la maggior parte degli ultimi dodici anni studiando teorie economiche non canoniche, lanciando sfide all’ordine politico esistente e proponendo risposte sempre più radicali alla crisi americana, pronunciava il suo primo messaggio sullo Stato dell’Unione in veste di sedicesimo Presidente degli Stati Uniti.

Fin dal suo ingresso in carica otto mesi prima, questo nuovo Presidente aveva lottato, senza successo, in primo luogo per ripristinare i legami ormai lacerati fra gli Stati dell’Unione, e quindi per evitare una guerra civile straziante. Ora, undici Stati schiavisti del Sud erano in aperta e violenta ribellione contro il governo da lui guidato.

Il suo discorso di insediamento della primavera precedente si era chiuso con una riflessione struggente e amara sulle prospettive di una pace conclusiva, immaginando il giorno in cui l’Unione avrebbe potuto ancora una volta essere toccata “dagli angeli più belli della nostra natura”.

Ma, ora, nell’ultimo mese di quello che il poeta Walt Whitman avrebbe ricordato come l’“anno fosco, sconvolto” dell’America – “anno che improvvisamente ha cantato con le bocche arrotondate dei cannoni” – gli angeli più belli sembravano aver abbandonato il continente.

Ogni sforzo per ripristinare la Repubblica era stato frustrato. Non c’era spazio per un accomodamento con gli Stati Confederati d’America.

Fort Sumter era stato bombardato e la bandiera della ribellione del Sud ormai sventolava sopra il porto di Charleston.

La Virginia, culla di presidenti, lo Stato di Washington, Jefferson e Madison, aveva aderito alla rivolta e aveva riunito la capitale della Confederazione a meno di 100 miglia da Washington. Centinaia di soldati dell’Unione e Confederati erano morti, e altre migliaia erano rimasti feriti nella Prima Battaglia di Bull Run.

Gli eserciti erano stati riorganizzati e i generali avvicendati con la presa d’atto che non si sarebbe trattato di una schermaglia. Questa sarebbe stata una guerra di lunga durata, che avrebbe poi costretto tutti gli Americani a “liberarsi dei costumi della pace con la mano dell’insensibilità.”

In presenza di coloro, fra deputati e senatori, che erano rimasti e che occupavano solo una parte dei seggi nell’aula del Campidoglio in quel giorno di dicembre, il nuovo Presidente sapeva che doveva affrontare la circostanza di una nazione non più unita, in nessun senso.

Lo fece da Americano agitato, furioso, che non parlava più di angeli e invece imprecava contro quei “cittadini sleali degli Stati Uniti, che hanno procurato la rovina del nostro paese”.

Egli metteva in guardia, in modo inquietante, per come “una nazione che perdura nelle sue faziose divisioni interne è esposta al mancato rispetto all’esterno, e … è sicuro, prima o poi dovrà invocare un intervento straniero.”

Si dimostrava irritato per un bilancio federale stressato, ed esprimeva la speranza “che le spese sostenute per combattere la ribellione non superino le risorse destinate al popolo leale.”

Egli sottolineava come tre posti vacanti della Corte Suprema, improvvisamente abbandonati, avevano la necessità di essere ricoperti e osservava che “una delle conseguenze inevitabili della insurrezione presente è la soppressione completa in molti luoghi dei mezzi ordinari per un’amministrazione della giustizia civile da parte dei magistrati e nelle forme della normativa vigente.”

Si trattava di un messaggio sullo Stato dell’Unione da tempo di guerra, indirizzato non tanto da un Presidente, quanto da un Comandante in capo.

Il suo scopo era quello di riunire ciò che rimaneva della Camera e del Senato, dopo l’esodo dei Soloni del Sud che avevano aderito all’ammutinamento contro il governo eletto, e di rappresentare la lotta non come un conflitto per la mera conservazione di un sistema di governo, ma per la democrazia stessa.

“Si continua a sviluppare l’idea che l’insurrezione sia in gran parte, se non esclusivamente, una guerra dettata dal principio essenziale di un governo che agisce sulla base della volontà popolare, per salvaguardare i diritti del popolo”, dichiarava solennemente l’oratore. “Prove inconfutabili di questo sono rilevabili nei documenti pubblici più gravi e ponderatamente considerati, così come nel tono generale degli insorti. In tali documenti noi riscontriamo la limitazione del diritto di suffragio, che pur esiste, e la negazione al popolo di qualsiasi diritto di partecipare alla selezione dei pubblici governanti, con argomenti speciosi per dimostrare che un controllo largo da parte del popolo sul governo è la fonte di tutti i mali politici. La Monarchia stessa è a volte suggerita come un possibile rifugio dal potere del popolo.”

Queste sarebbero state le parole che avrebbero potuto chiudere il messaggio, se il Presidente non avesse pregato i suoi ascoltatori ad essere ancora un po’ indulgenti, aggiungendo: “Nella mia posizione attuale, potrei a malapena essere giustificato se dovessi omettere di levare una voce di avvertimento contro questo atteggiamento di un ritorno al dispotismo.”

C’era qualcosa in più che Lincoln voleva comunicare all’America. Aveva bisogno di parlare di un’altra divisione, di un’altra lotta.

L’uomo che aveva scelto con tanta cura le sue parole non abbandonò la tribuna prima di dedicare una “breve riflessione” alle sue preoccupazioni che riguardavano “lo sforzo di inserire nella struttura di governo il mondo del Lavoro su un piano di parità, se non superiore, a quello del Capitale.”

In mezzo a tutte le turbolenze di una Guerra Civile in pieno sviluppo, Abraham Lincoln voleva che si sapesse che egli era turbato dalle argomentazioni che si stavano imponendo, “che il Lavoro è concepibile solo in stretta dipendenza dal Capitale, e che nessuno lavora senza che qualcun altro in possesso di capitali e disposto in qualsiasi modo ad impegnarli, gli offra l’opportunità di lavorare. Dato questo per acquisito, dopo bisogna valutare se sia meglio che il Capitale assuma lavoratori, e quindi li induca a lavorare con il loro consenso, o li comperi e li porti al lavoro senza il loro consenso. Avendo proceduto così fino ad ora, si è naturalmente concluso che tutti i lavoratori sono, o lavoratori salariati, o ciò che noi definiamo come schiavi. E ancora, si presume che chi si trova ad un certo momento nella condizione di lavoratore salariato, in questa condizione vi rimanga per tutta la vita.”

A questo falso costrutto non poteva essere consentito prendere piede in un paese libero, argomentava il Presidente.

Doveva essere chiaro, così concludeva: “Il Lavoro è prioritario e indipendente dal Capitale.

Il Capitale è solo il frutto del Lavoro, e non avrebbe mai potuto esistere se non fosse prima esistito il Lavoro. Il Lavoro è superiore al Capitale, e merita una considerazione molto più alta.”

Per certo, Lincoln metteva in relazione questo ragionamento con le questioni strazianti suscitate dalla Guerra Civile.

“Alcuni uomini possiedono capitali, e questo li risparmia dal lavoro, e con il loro capitale assumono o acquistano altri che lavorano per loro. Una grande maggioranza non appartiene ad alcuna delle due classi – né a quella dei lavoratori per conto altrui, né a quella che fa lavorare altri per conto proprio. In molti degli Stati del Sud, la maggior parte dell’intero popolo di qualsiasi colore non è né schiava né padrona, mentre nel Nord la grande maggioranza non è datrice di lavoro né salariata.”

Però, ora Lincoln stava parlando di un assillo più ampio: la sua paura che i pochi che erano in possesso di capitali potessero, in un momento di turbolenza, cercare di piegare lo Stato di diritto, svilendo il rispetto storico per i diritti dell’uomo, delineati dall’eroe di Lincoln, Tom Paine, al fine di favorire i loro interessi a scapito di quelli della maggioranza degli Americani, che faticava duramente per un salario o per pagar le tasse agli esattori.

[N.d.tr.: Thomas Paine è l’autore de “I diritti dell’uomo (Rights of Man)” del 1791, un’opera letta da centinaia di migliaia di lettori, gravitanti attorno alle associazioni radicali britanniche e irlandesi filo Rivoluzione francese. Nel trattato, Paine dichiara la non superiorità dei nobili rispetto alla gente comune, perché ogni uomo ha dei diritti naturali che non sono basati sulla ricchezza o sulla nascita.]

“Nessun uomo è più degno di fiducia di colui che lavora duramente date le sue condizioni di povertà, nessuno meno incline a prendere o toccare alcunché, che non abbia guadagnato onestamente,” il Presidente avvertiva. “Questi uomini facciano attenzione nel rinunciare a quel potere politico ora in loro possesso, e che, se abbandonato, sicuramente verrà utilizzato per chiudere la porta del progresso contro quelli come loro, e per caricare sulle loro spalle nuovi oneri e invalidità, fino alla totale perdita di tutte le libertà.”

L’insistenza di Lincoln, che il mondo del lavoro si doveva ben guardare dal rinunciare al potere politico in favore del capitale, un punto che aveva cominciato a focalizzare prima della sua presidenza, e che avrebbe ribadito durante tutto il suo mandato, è raramente oggetto di attenzione verso la sua retorica sulla situazione di “una casa separata in due parti avverse”, sull’affermazione che “tutti gli uomini sono creati uguali”, o sulla debole speranza che il “Governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non deve perire sulla faccia della Terra. “

Allora, come possiamo trascurare le parole che questo fra i più istruttivi dei Presidenti aveva scelto di inserire in un commento così delicato, come il suo primo messaggio sullo Stato dell’Unione?

Come non riconoscere gli echi di un linguaggio che gli studiosi di retorica economica, sociale e politica potrebbero associare meno al sedicesimo Presidente, e più ad uno dei suoi contemporanei: un figlio prussiano dell’Illuminismo, che stava creando subbuglio su entrambe le sponde dell’Atlantico, proprio nel momento in cui Lincoln era alla ricerca di espressioni per descrivere le forze economiche che stavano trainando l’America dalle sue radici agricole verso un suo futuro industriale?

Karl Marx non si interessava forse del rapporto fra Capitale e Lavoro? Non era il coautore di “Das Manifest der Kommunistischen Partei” (Il Manifesto del Partito Comunista) in cui osservava che: “la condizione indispensabile ed essenziale del Capitale è il lavoro salariato”? E che: “la produzione capitalistica sviluppa tecnologia e la concentrazione dei vari processi in un tutto sociale, solo sfruttando le fonti originali di tutta la ricchezza, la terra e la forza lavoro”?

Bene, non vi può essere alcuna sicura connessione, nessun collegamento tangibile tra Abraham Lincoln, nato in una capanna di legno, archetipo dell’Americano del XIX secolo, uno dei fondatori del Partito repubblicano, e Karl Marx, il barbuto, meditabondo archetipo “Europeo”, orgoglioso cospiratore socialista.

A meno che, naturalmente, non ci prendiamo la briga di esaminare le copie consunte del giornale economico americano che presentava le predicazioni rivoluzionarie di Marx nel periodo in cui Lincoln si apprestava a lasciare il deserto politico e iniziava la sua marcia verso la presidenza. Questo giornale, il New York Tribune, era il più autorevole ed influente fra i giornali americani del diciannovesimo secolo.

In effetti, questo era stato il giornale che aveva progettato l’inatteso, e per molti versi inimmaginabile, lancio verso la nomination repubblicana per la presidenza, in quel anno decisamente critico del 1860, per uno dell’Illinois, che appena due anni prima aveva perso nel suo stesso Stato la competizione per un seggio al Senato degli Stati Uniti.

Per correttezza, va ricordato che il più importante giornale repubblicano del tempo era “The Tribune”. Questo giornale sosteneva con forza le tesi contro lo schiavismo negli Stati del Sud.

Ma sosteneva anche, con argomentazioni in parallelo a quelle che Lincoln aveva espresso in quel primo suo discorso al Congresso, che “la nostra idea è che il Lavoro deve combattere il Capitale, per arrivare a dominarlo!”

Sette anni prima che lui e Lincoln militassero insieme al Congresso (per entrambi, un solo mandato alla Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti), Horace Greeley,- o meglio l’“Amico Greeley”, come Lincoln faceva riferimento all’editore nella loro corrispondenza, aveva dato inizio alle pubblicazioni di “Tribune” con uno scopo dichiarato: “Servire la Repubblica con senso critico, onesto e scevro da timori”.

E ci riuscì, più di qualsiasi editore americano prima o dopo il suo apparire a cavallo della metà del XIX secolo, con la creazione di un giornale che non era soltanto un giornale.

La “Tribune” di Greeley a diffusione nazionale, come Clarence Darrow giustamente ricordava, era “la Bibbia politica e sociale” di ogni famiglia repubblicana sostenitrice di riforme radicali.

La “Tribune” era stata sicuramente questo per Lincoln, la cui fedeltà al giornale sarebbe durata per buona parte di un quarto di secolo, e si protrasse fino al contrasto con Greeley circa il momento più opportuno per pronunciare il Proclama di Emancipazione.

Il rapporto di Lincoln non era solo con Greeley, ma con tutta la redazione e i suoi articolisti, tanto che il primo Presidente repubblicano nominò come suo vice ministro della guerra uno dei più radicali luogotenenti di Greeley – Charles Dana, ispirato dalle idee socialiste di Fourier e Proudhon, e da lunga data curatore della corrispondenza europea di Marx.

Il giornale di Greeley era la tribuna dei fermenti che avevano generato il Partito Repubblicano e che lo avevano portato alla vittoriosa campagna presidenziale del 1860.

Lincoln affermava dell’editore: “ognuna delle sue parole sembra pesare una tonnellata.”

Greely rappresentava questo per Lincoln: una figura epica del giornalismo americano, un politico e riformatore sociale, che si compiaceva della sua capacità non solo di riferire, ma di piegare l’arco della storia.

Dopo aver appreso il mestiere dello stampatore presso la “Northern Star” nella piccola Poultney, Vermont, Greeley era arrivato a New York nel 1831, nel periodo in cui Fanny Wright e i suoi compagni stavano organizzando nella città partiti e movimenti politici esplicitamente socialisti.

[N.d.tr.:Frances “Fanny” Wright (Dundee, 6 settembre 1795 – Cincinnati, 13 dicembre 1852) è stata una scrittrice socialista, femminista, abolizionista e libera pensatrice scozzese.

Era la figlia di Camilla Campbell e di James Wright, ricco industriale tessile e politico liberale che conosceva Adam Smith ed era in corrispondenza con il marchese de Lafayette.

Rimasta orfana all’età di tre anni di entrambi i genitori che lasciarono in eredità ai tre figli un consistente patrimonio, fu allevata da una zia materna a Glasgow fino a rendersi indipendente una volta che ebbe raggiunta la maggiore età.

Aveva acquisito una solida istruzione e radicate convinzioni in tema di eguaglianza tra tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro razza e dal sesso, e era del tutto scettica nei confronti delle ideologie religiose.

Ammiratrice della Rivoluzione americana, dal 1818 al 1820 viaggiò con la sorella negli Stati Uniti. Vi conobbe Lafayette e i più autorevoli dirigenti politici americani, quali Thomas Jefferson e John Adams: pur ammirandoli, non ne condivideva l’indifferenza nei confronti del problema della schiavitù.

Ritornata in patria nel 1821, pubblicò le proprie esperienze nelle “Views of Society and Manners in America”, nelle quali presentò le istituzioni della giovane Repubblica americana come un esempio di democrazia, che avrebbe dovuto essere imitato anche dalla conservatrice Gran Bretagna, nella quale ella sollecitava riforme sociali e parlamentari in favore di un’avanzata democrazia.

Il libro ottenne un buon successo, fu conosciuto anche all’estero e contribuì a dare una fama di riformatrice sociale alla Wright, che si era avvicinata alle idee del socialismo utopistico allora in voga.

Nel 1824 si trasferì definitivamente negli Stati Uniti, dove visitò la «New Harmony», la comunità fondata nell’Indiana dal socialista Robert Owen e dal figlio Robert, con il quale fu editrice del quotidiano “New Harmony Gazette”.

La Wright rimase fortemente impressionata da quell’esperienza di organizzazione comunistica del lavoro, decidendo di seguirne l’esempio: nel 1825 fondò così nel Tennessee, presso Memphis, una comunità che chiamò “Nashoba”, nella quale non esistevano differenze di trattamento tra bianchi e neri, e naturalmente la schiavitù vi era abolita.

Nella comunità era permesso il libero amore – la Wright considerava il matrimonio un’istituzione oppressiva – e in particolare i rapporti sessuali inter-razziali, che avrebbero dovuto favorire anche psicologicamente il superamento dei pregiudizi di razza: si prese così dagli schiavisti l’epiteto ingiurioso di “puttana rossa dell’adulterio”.

L’estremo anticonformismo di Frances si esprimeva nel suo stesso abbigliamento, nel quale privilegiava l’uso dei pantaloni, un autentico scandalo per l’epoca, che verrà imitato da altre femministe americane come Amelia Bloomer, Susan Anthony o Elizabeth Stanton.

La comunità di Nashoba non riuscì a rendersi economicamente auto-sufficiente, e nel 1828 la Wright, dopo avervi speso ingenti somme, dovette rinunciare all’impresa, non senza aver pagato ai lavoratori neri il viaggio di trasferimento nella Repubblica di Haiti, in modo che, rimanendo negli States, non fossero nuovamente ricondotti allo stato di schiavitù.

Trasferitasi nel 1829 a New York, con Robert Dale Owen fondò la rivista «Free Inquirer», divenne membro della «New York Society for Promoting Communities», del quale facevano parte personalità della politica radicale come Cornelius Blatchely, Paul Brown, William Masclure e Josiah Warren, e pubblicò il Course of Popular Lectures: in questi scritti e in pubblici discorsi la Wright si batté per le libere comunità oweniane, il socialismo, l’abolizione della schiavitù, il suffragio universale, il controllo delle nascite, il divorzio e per un’istruzione laica.

Fu anche attivista del “Popular Health Movement”, un’organizzazione che si proponeva di diffondere la conoscenza e le cure mediche tra la popolazione più povera e le donne.

I pubblici discorsi di Frances Wright irritavano i bempensanti: veniva definita “un’oca che merita di essere fischiata”.

Le sue posizioni si fecero con il tempo sempre più radicali: partita da una visione illuministica, nella quale aveva denunciato l’ineguaglianza dei sessi e delle razze in quanto espressione di irragionevole pregiudizio, era passata alla visione romantica di una comunità egualitaria, fino a pervenire alla denuncia della società capitalistica come matrice di una “guerra di classi”, cosa che, insieme al suo essere molto in anticipo nei tempi, le procurò non solo l’incomprensione ma perfino l’odio della borghesia americana.

La salute di Frances cominciò a declinare intorno al 1840, aggravandosi negli ultimi anni così da costringerla a rinunciare alla sua attività pubblica: morì a Cincinnati il 13 dicembre 1852.

Sulla sua lapide è scritto: “Ho sposato la causa del progresso umano, investendovi la mia fortuna, la mia reputazione e la mia vita”.

La femminista Ernestine Rose la commemorò nel 1858 con queste parole:

“Frances Wright fu la prima donna che in questo paese abbia parlato di uguaglianza dei sessi. Il compito che si trovava ad affrontare era effettivamente difficile. Il mondo non era ancora preparato al suo avvento […] Fu oggetto di odio, di persecuzione, si cercò di separarla dal popolo. Ma non è tutto. Ottenne una ricompensa immortale, che nessun nemico le poté strappare, nessun calunniatore sminuire: la certezza di aver adempiuto il proprio dovere […] la ricompensa di aver tentato di essere utile alle generazioni future”.]

Greeley era arrivato a New York per cercare fortuna, (e questo obiettivo venne conseguito), e per indirizzare il progresso politico di una nazione giovane.

William Seward, il repubblicano radicale le cui ambizioni presidenziali vennero frustrate quando Greeley orientò la sua fedeltà politica verso Lincoln, onorava il giovane editore della carta stampata come un personaggio whitmaniano: “Piuttosto incurante delle convenzioni sociali, ma singolarmente chiaro, originale e deciso nelle sue opinioni e teorie politiche.”

Greeley era quello che i Britannici chiamano un “pubblicista da campagna elettorale”.

Egli animava i giornali come piattaforme per promuovere idee; ad esempio, il “Jeffersonian” veniva fondato per promuovere la sfida vincente di Seward del “Partito Whig” contro il governatore conservatore democratico William Marcy, un politico di scarso valore che predicava la dottrina tutta fondata sul… “bottino appartiene al vincitore”.

Due anni dopo Greeley avrebbe diretto un quotidiano nazionale, il “Log Cabin”, un giornale che aveva appoggiato la campagna elettorale di un altro Whig, William Henry Harrison, che avrebbe vinto e assunto per breve tempo la presidenza.

Tuttavia, con la “Tribune” Greeley non si sarebbe battuto più per dei candidati, anche se certamente avrebbe avuto i suoi preferiti, ma per una serie di ideali che avrebbe determinato l’identità del Partito Whig, a cui lui e Lincoln rimasero per molti versi decisi sostenitori.

Quando i Whig non affrontarono efficacemente i problemi della schiavitù, dell’urbanizzazione e della transizione economica, allora il giornale “Tribune” divenne il principale sostenitore di una costellazione politica nuova e più radicale, che assunse come nome la parola usata per descrivere i proponenti del “tradimento costruttivo”, che aveva visto la sua origine nel rifiuto del “diritto divino dei Re”, e con esso della posizione privilegiata delle classi possidenti: i “Repubblicani”.

“Sono state sollevate incalzanti obiezioni alla ‘Tribune’ per il fatto di essersi sempre proposta di dare ospitalità ad ogni pensiero nuovo. Questa professione deve essere per noi una costanza, a qualunque sacrificio,” così Greeley scriveva quando il radicalismo del giornale cominciò a far vacillare alcune istituzioni politiche, a metà degli anni 1840.

“Pieno di errori e di sofferenze come il mondo è ancora, non possiamo permetterci di rifiutare senza esaminarla una qualsiasi idea che si proponga di migliorare la condizione morale, intellettuale, o sociale del genere umano.”

Greeley praticava un giornalismo di impegno civile, privo di prudenza nel prendere posizione nei grandi dibattiti del suo tempo.

“Il primo dovere editoriale”, spiegava, “è di mantenere un orecchio aperto alle istanze di coloro che subiscono ingiustizie e dei sofferenti, anche se costoro non potranno mai ricompensare l’impegno civile a loro difesa, e anche se coloro che sostengono economicamente i giornali in genere saranno infastiditi e spesso smascherati da questi; di conservare un cuore così sensibile all’oppressione e alla degradazione della strada accanto, come se fossero praticate in Brasile o in Giappone; una penna pronta ad esporre e a biasimare i crimini, attraverso i quali si sono accumulate le ricchezze e il lusso tanto apprezzato nel nostro paese, come crimini paragonabili a quelli commessi da Turchi o Pagani in Asia qualche secolo fa.”

Questo riferimento finale di riprovazione dei “crimini attraverso i quali si sono accumulate le ricchezze e il lusso tanto apprezzato” poteva non incontrare il plauso degli economisti “trickle-down” (“trickle down” significa “gocciolamento”. In economia esprime la teoria secondo la quale, con una politica favorevole ai detentori di grandi ricchezze, si ottiene anche, appunto “per gocciolamento”, l’arricchimento di tutti, e quindi anche dei meno abbienti) e dei narratori della favola del “laissez-faire” (del liberismo economico secondo il quale lo Stato non deve intralciare lo sviluppo del libero mercato con vincoli di legge), che oggi guidano le politiche di quello che è diventato il Partito Repubblicano, un tempo il partito di Greeley.

Ma Greeley non avrebbe mai riconosciuto i cosiddetti Repubblicani di oggi come eredi del Partito che egli e i suoi compagni avevano forgiato.

Greeley era ben felice di raccogliere la disapprovazione di coloro che sostenevano il libero mercato a spese degli interessi della classe operaia, una classe che egli riconosceva comprendere sia gli schiavi oppressi del sud che gli operai delle industrie sfruttati del nord.

In un articolo di fondo commemorativo che la “Tribune” pubblicò dopo la sua morte improvvisa nel 1872, alla fine della campagna presidenziale donchisciottesca “liberal-repubblicana” dell’editore, così Horace Greeley veniva ricordato:

[N.d.tr.: Le elezioni presidenziali statunitensi del 1872 decretarono la riconferma del mandato al presidente uscente Ulysses S. Grant. Il candidato del partito repubblicano vinse agevolmente sullo sfidante Horace Greeley.

Alcuni esponenti repubblicani insoddisfatti dalla prima presidenza Grant avevano deciso di non sostenere la sua nomination. Alla convenzione di Cincinnati, dopo aspre discussioni derivanti dall’eterogeneità dei liberal-repubblicani, la nomination andò al direttore del “New York Tribune”, Horace Greeley. In seguito alla morte di Greeley, avvenuta subito dopo, i suoi voti elettorali furono dispersi tra vari esponenti del partito democratico.]

“Se esisteva una classe speciale di cui questo uomo semplice era il campione, per la quale egli ha usato tutta la sua abilità, e il suo zelo, e la sua influenza, questa era la classe dei poveri e degli oppressi e degli abbandonati, di coloro che sono stati abusati e oltraggiati dai loro simili …

Il verdetto equilibrato della storia dirà che nessun uomo, da solo, ha fatto tanto per la cancellazione della schiavitù umana in questa terra, come l’editore del New York Tribune.

Se non abbatteva la sua ascia tanto inesorabilmente alla radice dell’albero come altri riformatori, egli lo demoliva altrettanto efficacemente tagliandone con costanti fendenti i rami e i viticci, compromettendone così dall’interno l’esistenza. Che volesse e desiderasse fortemente la sua distruzione, chi mai oserebbe dubitarne? Che fosse il nemico di ogni forma di ingiustizia e di iniquità sociale, chi mai lo metterebbe in dubbio?

Non si può immaginare questo uomo mitigare o tollerare un qualsiasi comportamento o commercio che degrada o abbruttisce o corrompe gli uomini. Non ad una, ma a molte riforme morali ha dedicato il suo tempo e il suo cuore. All’istruzione, profonda e universale; alla sobrietà, nel mangiare non meno che nel bere; all’igiene con lui molto prossima alla religiosità; alla benevolenza, per gli animali non meno che per gli uomini; per abitazioni gratuite agli emigranti; per dare il benvenuto cordiale agli esuli da altre terre in cerca di rifugio su questi lidi; per la liberazione di tutti i popoli oppressi e in lotta.

Quando sono mancate le sue parole di incoraggiamento e di solidarietà? Con i deboli contro i forti, con gli abbandonati, lì stava il suo cuore, e a costoro lui avrebbe concesso ben più della giustizia. Questo faceva di lui l’amico di Ungheresi e Polacchi e Irlandesi, e difensore anche dei Pagani contro i Cristiani.

Quando il debole e il bisognoso chiamavano, egli non si fermava a chiedersi se questi condividevano la sua politica o il suo credo religioso, o quello che la sua corrente o il suo partito avrebbero guadagnato dalla loro amicizia. Egli obbediva alla chiamata Divina, e non di rado, in obbedienza al suo istinto di compassione, ne rimaneva quasi vittima.

La sua fama di ponderazione a volte veniva offuscata dalla sollecitudine del suo zelo solidale.

L’ardore solidale di Greeley apparteneva a quella progenie distinta di riformatori sociali del XIX secolo, che non si sono sentiti appagati dalla semplice riparazione della frattura creatasi quando i fondatori dell’esperimento americano avevano fallito nel tenere fede al loro riconoscimento iniziale della palese verità, “che tutti gli uomini sono creati uguali, che sono dotati dal loro Creatore di alcuni Diritti inalienabili, e fra questi la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità”.

Era profondamente interessato, come lo era Lincoln, alla questione di come mantenere una dimensione di uguaglianza economica in un momento di accumulo di ricchezza senza precedenti e travolgente, non solo da parte dei piantatori del sud, ma anche dei banchieri e uomini d’affari del nord.

Queste sollecitazioni lo avevano portato ad abbracciare gli insegnamenti di Charles Fourier, quando il socialista utopista francese innalzava la sua protesta: “C’era una volta della gente che parlava dell’infallibilità del Papa; oggi è quella del mercante, che costoro intendono imporre.”

Secondo il punto di vista di Fourier, la promessa di uguaglianza era cosa vana, a meno che non venisse associata con protezioni economiche per la gran massa dei lavoratori e delle lavoratrici.

Il socialista francese affermava: “La parità di diritti è un’altra chimera, lodevole se considerata in astratto, e ridicola considerando i mezzi impiegati per introdurla nella civiltà. Il primo diritto dell’uomo è il diritto al lavoro e il diritto ad un reddito seppur minimo. Questo è precisamente ciò che non è stato riconosciuto in tutte le Costituzioni, la cui preoccupazione principale è rivolta alle persone privilegiate, che non hanno bisogno di lavoro.”

Gli scritti di Fourier venivano resi popolari negli Stati Uniti da Albert Brisbane, un Americano che aveva viaggiato in Francia negli anni 1820, aveva studiato con il filosofo e poi era ritornato negli Stati Uniti per diffondere il vangelo socialista.

Qui, trovava un compagno in Greeley, che faceva riferimento alle opinioni di Fourier nel “Log Cabin” e le sosteneva nella “Tribune”.

Greeley aveva assunto Brisbane come giornalista alla “Tribune” e, quando il nuovo giornale era stato attaccato per la diffusione di tali opinioni radicali, l’editore scriveva: “Non stiamo qui a disputare con coloro che hanno messo a punto o adottato un sistema che viene considerato assurdo o impraticabile, ma accettiamolo e proviamo a migliorarlo. Stai pur certo, amico! non passerà, non dovrà passare questa generazione senza la scoperta e l’adozione di un sistema in base al quale il Diritto al Lavoro, e quello di ricevere e godere di una giusta ricompensa per tale lavoro, dovranno essere assicurati ai più poveri e meno fortunati del nostro popolo.””

A cavallo dell’anno 1840, spiega lo storico Roy Marvin Robbins, “Greeley predicava un nuovo ordine di società sulla base delle idee socialiste di Brisbane.”

Anche se gli ideali utopici del fourierismo si rivelavano difficili da realizzare in forma pratica, nonostante gli sforzi migliori dei riformatori sociali come Brisbane e il suo connazionale Bronson Alcott, Greeley sviluppava pubblicamente la sua difesa e quella di “Tribune” a sostegno delle riforme agrarie che combinavano elementi del socialismo di Fourier con l’ideale pionieristico.

Il famoso motto di Greeley “Giovane, vai all’Ovest!” era l’espressione pratica di una visione più ampia di distribuzione ai poveri di terre aperte e disabitate, anche se, allo stesso tempo, vergognosamente si ignoravano i Nativi Americani delle terre occidentali, che sia l’editore che lo stesso Lincoln mai pienamente o anche adeguatamente tennero in considerazione o protessero.

Attaccato da un giornalista rivale nel “Courier and Express” di James Watson Webb – che il giornalista e storico Francis Brown descrive come “un foglio di Wall Street, prono agli interessi mercantili, della finanza e dei traffici marittimi, che esprime il punto di vista conservatore della classe mercantile” – con la motivazione che egli era un “fourierista, un ruralista, e un infedele”, Greeley gli replicava:

“Ammettiamo e insistiamo sul diritto legale del proprietario di terre incolte a tenerle disabitate per sempre, ma non riteniamo moralmente giusto che lo faccia quando la terra diventa scarsa e il mantenimento per i senza-terra ridotto e precario … sì …, a dispetto di ogni clamore stupido che può essere sollevato di “Infedeltà” e “Ruralismo”, qualcosa si farà per garantire le generazioni future contro gli egoisti fedeli al Monopolio della Terra in mano di pochi.”

L’audacia delle posizioni di Greeley gli facevano conquistare grande popolarità personale tra i Whig radicali di New York e tra i fautori del nascente movimento “Free Soil – Libera Terra”, che Greeley esortava a “garantire a ciascuno e a tutti… una terra veramente libera!, soprattutto libera da odiosi speculatori.”

Durante una elezione speciale nel 1848, fu inviato al Congresso in qualità di Rappresentante di New York. Greeley restò in carica per pochi mesi, ma usò questa sua permanenza alla Camera per proporre e promuovere una prima versione dell’Homestead Act (Act che diveniva nel 1862 definitivamente legge, che distribuiva terreni per promuovere gli insediamenti nel West).

Sfidato da un conservatore dell’Ovest di spiegare perché un membro cittadino fosse così interessato nel liberare e mettere a disposizione terreni rurali per gli insediamenti, Greeley replicava che egli “rappresentava gli uomini senza terra più di qualsiasi altro membro” del Congresso.

Una buona linea, ma difficilmente accettabile da una Camera che non condivideva il radicalismo dell’editore.

Uno dei suoi pochi alleati era un giovane congressista Whig dell’Illinois al suo primo mandato, che Greeley ricordava come un compagno con il quale egli “concordava sul problema della schiavitù, una questione a cui si doveva dare una risposta definitiva nel corso di pochi anni.”

I due uomini si intrattenevano in colloqui quotidiani durante la loro permanenza in carica nello stesso periodo nella capitale della nazione, e consolidarono un legame che sarebbe durato fino all’assassinio di Lincoln, diciassette anni più tardi.

Comunque, non era solo la frequentazione stretta, personale, che collegava Greeley e Lincoln.

Nel 1848, “Tribune” di Greeley era già un fenomeno giornalistico e politico.

“Riconosciuto come l’editore Whig più influente nel 1844, [Greeley] era diventato dal 1850 il più influente direttore di giornali antischiavisti, il portavoce non solo del partito dei Whig, ma anche di quella grande classe di Nordisti che era completamente antagonista alla schiavitù”, ricorda Frank W. Scott nel suo studio sui giornali americani del diciannovesimo secolo.

Quando la questione della schiavitù venne trattata in un editoriale di prima pagina, l’influenza di “Tribune” crebbe così tanto che il giornale divenne non solo quello a maggior diffusione a New York City, ma anche il giornale di opinione a più larga diffusione nazionale, distinguendosi l’articolo per il modo in cui Scott lo caratterizza: “uno degli editoriali più vigorosi e incisivi che l’America abbia mai conosciuto.”

Nei primi anni 1850, la circolazione dell’edizione nazionale settimanale di “Tribune” triplicava la sua tiratura a più di 110.000 copie, quando divenne quello che un altro storico, James Ford Rhodes, ha descritto come “il giornale dei distretti rurali, preminentemente, [dove] una copia provvedeva a molti lettori. Per il popolo delle solitudini di Adirondack era una Bibbia politica, e la ben nota assenza quasi totale di Democratici veniva attribuita a questo. Ancora, era il giornale più liberamente letto dalle persone consapevoli e razionali che vivevano nella Riserva naturale occidentale dell’Ohio”, per non parlare dell’Illinois di Abraham Lincoln.

Alla fine degli anni 1850, la circolazione nell’Illinois della “Tribune” settimanale si aggirava sulle 20.000 copie, rendendo il giornale, con casa madre a New York, uno dei giornali più diffusi in questo Stato del Midwest.

Non vi è alcun dubbio che Lincoln sia stato tra i più accaniti fra i lettori della “Tribune” in Illinois. La sua corrispondenza con Greeley conferma questa relazione appassionata con il foglio, così come la sua corrispondenza più ampia con il suo terzo e ultimo associato nello studio legale, William Herndon, con cui Lincoln a volte si lamentava che il giornale di Greeley non lo soddisfaceva abbastanza nelle sue aspettative politiche.

Fu in una di queste note dense di irritazione che Lincoln per la prima volta espresse il giudizio che “ognuna delle parole di [Greeley] sembra pesare una tonnellata.”

Tuttavia, Lincoln non solo consumava le parole di Greeley. Divorava tutto il settimanale “Tribune”, come per altro faceva con ogni altro giornale che gli capitasse per le mani.

Scrive il biografo di Lincoln, John C. Waugh.: “Un amico mi diceva che a Lincoln piaceva molto leggere i giornali, più che i libri. Un altro amico mi ha riferito che ‘mai aveva visto un uomo più felice’ di Lincoln quando questo era stato nominato direttore di un ufficio postale, perché così aveva modo di leggere i giornali di tutto il paese prima di consegnarli ai loro abbonati.”

Nel suo periodo di più profonda ricerca e riflessione, cinque anni dopo la sua uscita del 1848 dal Congresso come Whig deluso, e prima del suo ritorno alla campagna elettorale politica come candidato di quello che sarebbe diventato il Partito Repubblicano, Lincoln si dedicò ad esaminare, discutere e riflettere sulle notizie diffuse dai quotidiani nazionali che venivano consegnati presso il suo ufficio legale di Springfield, soprattutto sugli articoli della “Tribune” di Greeley.

Informato in modo profondo ed appassionato sulla crescente ondata di movimenti riformisti liberali, radicali e socialisti in Europa, una marea che avrebbe raggiunto il picco, almeno per un certo tempo, con l’“ondata rivoluzionaria” del 1848 e con tutte le sue conseguenze, il giovane deputato si univa ad altri Whig americani nel seguire gli sviluppi di quella “Primavera dei Popoli” di quel anno, che vedeva insurrezioni contro le monarchie, e rivolte contro il potere economico, sociale e politico arroccato in Germania, Francia, Ungheria, Danimarca e in altre nazioni europee.

Per Lincoln, tuttavia, questo non corrispondeva ad un nuovo interesse.

Molto prima del 1848, alcuni radicali tedeschi avevano iniziato ad arrivare in Illinois, dove presto si erano messi in comunicazione con i circoli politici e giuridici in cui Lincoln operava.

Uno di loro, Gustav Körner, uno studente rivoluzionario presso l’Università di Monaco di Baviera, era stato imprigionato dalle autorità tedesche all’inizio degli anni 1830 per avere organizzato manifestazioni illegali.

Dopo il suo rilascio, Körner era tornato nella sua città natale di Francoforte sul Meno, dove, secondo lo storico Raymond Lohne, “era stato uno dei circa cinquanta cospiratori coinvolti in un attacco contro i due principali corpi di guardia della città e per la conquista dell’arsenale presso la stazione di polizia e il carcere. Questa compagine di studenti e soldati aveva progettato di impadronirsi di cannoni, fucili e munizioni; di liberare i prigionieri politici accusati di azioni illegali contro le leggi di censura sulla stampa; di dare inizio all’insurrezione al suono della grande Sturmglocke (Campana della Tempesta) del Duomo della città, il segnale per il popolo di accorrere dalla campagna. A quel punto, la rivoluzione democratica sarebbe stata annunciata …. Purtroppo, stavano incamminandosi verso una trappola …. Traditi da una spia che si era infiltrata in mezzo a loro, e dalla riluttanza della gente comune a rivoltarsi, nove studenti venivano uccisi, 24 gravemente feriti, e … il 3 agosto 1833, Gustav Körner si trovò a cavalcare nel centro di Belleville, Illinois.”

Nel giro di un decennio, Körner sarebbe stato iscritto all’Ordine degli avvocati dell’Illinois, sarebbe stato eletto al Parlamento e nominato alla Corte suprema dello Stato.

Körner e Lincoln formarono un sodalizio che sarebbe diventato così stretto, tanto che lo studente rivoluzionario di Francoforte, alla fine, sarebbe divenuto uno dei sette delegati personali speciali,

(at-large), nominati da Lincoln per presenziare alla delicata Convenzione repubblicana dello Stato nel maggio 1860, che avrebbe lanciato l’avvocato di Springfield verso la corsa presidenziale di quel anno.

Attraverso Körner, Lincoln incontrò e fece amicizia con molti radicali tedeschi che, dopo il fallimento della rivoluzione del 1848, erano fuggiti nell’Illinois e nel vicino Wisconsin.

Insieme a Körner nella lista dei delegati personali at-large alla Convenzione del 1860 vi era Friedrich Karl Franz Hecker, un avvocato di Mannheim, che aveva partecipato in veste di deputato liberale alla Camera bassa del Parlamento dello Stato di Baden, prima di guidare nell’aprile 1848 un’insurrezione nella regione – una rivolta acclamata dal quotidiano che Marx per breve tempo aveva diretto durante quel periodo turbolento, la “Neue Rheinische Zeitung – Organ der Demokratie”.

Contrastato da forze militari fedeli al vecchio ordine, Hecker fu costretto a fuggire prima in Svizzera e poi nell’Illinois, dove si sarebbe unito a Lincoln nel forgiare il nuovo Partito Repubblicano, e divenne un oratore decisivo in favore del suo compagno americano in corsa per il Senato (perdente) nel 1858, competizione ricordata per i dibattiti fra Lincoln e Douglas.

Su mandato di Lincoln, Hecker servì come comandante di brigata nell’esercito dell’Unione durante la Guerra Civile, assieme ad un certo numero di altri partecipanti alle insurrezioni del ‘48 in Europa.

Il fallimento delle insurrezioni del 1848 e le repressioni brutali che ne seguirono, avevano indotto molti leader radicali europei a rifugiarsi negli Stati Uniti, e la cerchia di sostenitori di Lincoln avrebbe col tempo incluso alcuni dei più stretti collaboratori e compagni intellettuali di Karl Marx, tra cui Joseph Weydemeyer e August Willich.

Weydemeyer, che manteneva una regolare corrispondenza con Marx ed Engels, ben presto costruì una rete nazionale di “Kommunisten Klubs”, per promuovere ciò che il New York Times denunciava come “Repubblicanesimo Rosso.”

Weydemeyer poi divenne sostenitore del nuovo Partito Repubblicano e contribuì alla campagna presidenziale di Abraham Lincoln, che all’inizio della Guerra Civile avrebbe nominato l’ex ufficiale dell’esercito prussiano come aiutante tecnico nello staff del generale John C. Fremont – nel 1856 candidato presidenziale repubblicano, poi comandante del Dipartimento dell’Ovest dell’esercito.

Più tardi, Lincoln nominò Weydemeyer colonnello del 41o Fanteria Volontari del Missouri, assegnando al marxista tedesco la difesa di St. Louis.

August Willich, conosciuto come “il più Rosso fra i Rossi”, era stato un leader della corrente di sinistra della Lega dei Comunisti Tedeschi, che criticava la relativa cautela di Marx quando si trattava di agitazioni rivoluzionarie.

In qualità di comandante dei Corpi Franchi radicali durante l’insurrezione nel Baden-Palatinato del 1849, Willich aveva scelto come suo aiutante di campo il giovane Friedrich Engels.

Costretto a fuggire negli Stati Uniti dopo il fallimento della rivolta, Willich a Cincinnati divenne direttore del quotidiano socialista “Republikaner” e sostenne le candidature di Fremont nel 1856 e di Lincoln nel 1860.

All’inizio della Guerra Civile, Willich reclutò un reggimento di immigrati Tedeschi e ne divenne il suo primo luogotenente, assumendo rapidamente il grado di generale di brigata e diventando famoso per avere organizzato bande musicali militari che suonavano canzoni rivoluzionarie come “Arbiter [Workers’] Marseillaise” – “Un risveglio per la nuova rivoluzione! La nuova rivoluzione!”

Lincoln non si limitò a sollecitare i partecipanti alle insurrezioni del ’48 a partecipare alle sue campagne, divenne altamente interessato alle loro cause.

Come osserva Lohne, “Lincoln era attratto ed affascinato da questi rivoluzionari.”

Nella sua città natale di Springfield, l’ex deputato al Congresso raccoglieva aiuti per i movimenti rivoluzionari in Europa, in particolare per l’insurrezione ungherese di Lajos Kossuth. Il nome di Lincoln apriva la lista dei firmatari per inviti a incontri pubblici per discutere della rivolta ungherese, apparsi sull’“Illinois State Register” e sull’“Illinois Journal” nel gennaio 1852.

Una settimana dopo, Lincoln contribuiva a stendere una risoluzione che dichiarava che “noi, popolo americano, non possiamo rimanere in silenzio sul diritto di ogni popolo, sufficientemente numeroso per l’indipendenza nazionale, di liberarsi, di rivoluzionare la forma di governo esistente, per stabilirne un’altra in sua vece, in libera scelta.”

La risoluzione di Lincoln argomentava:

“La solidarietà di questo paese, e i vantaggi della sua posizione, devono essere esercitati in favore del popolo di ogni nazione che lotta per la sua libertà; e mentre ci incontriamo per onorare Kossuth e l’Ungheria, non dobbiamo far mancare il tributo del nostro elogio e della nostra approvazione agli sforzi patriottici degli Irlandesi, dei Tedeschi e dei Francesi, che hanno combattuto senza successo per stabilire nei loro diversi governi la supremazia del popolo.”

Il proclama prendeva di mira anche l’Impero Britannico, dichiarando:

“Non vi è nulla nella storia passata del governo Britannico, o nelle espressioni della sua attuale politica, che incoraggi la convinzione che questo governo sarà di aiuto, in qualsiasi modo, nella liberazione dell’Europa continentale dal giogo del dispotismo; e il suo trattamento nei confronti dell’Irlanda, di O’Brien, di Mitchell, e di altri degni patrioti, ci costringe a concludere che questo governo britannico unirà i suoi sforzi a quelli dei despoti d’Europa nel sopprimere ogni tentativo dei popoli di stabilire governi liberi, basati sui principi della vera libertà religiosa e civile.”

Che cosa muoveva Lincoln e i suoi compatrioti? Non ci sono misteri.

Gli agitatori dell’Illinois dovevano semplicemente aprire le loro edizioni settimanali della “Tribune” di Greeley, che a quel tempo dichiarava che “fra i molti leader popolari che si erano sollevati e avevano partecipato alle convulsioni grandi del 1848 … il mondo ha già definitivamente assegnato il posto d’onore a Louis Kossuth, avvocato, deputato, ministro delle finanze, e, infine, governatore d’Ungheria.”

Il grande storico delle battaglie ideologiche e politiche della “Tribune”, Adam Tuchinsky, osserva: “Louis Kossuth e i movimenti di liberazione nazionale dell’Europa centrale costituivano argomenti familiari nelle pagine del giornale” – tanto che i critici conservatori della gazzetta contestavano i suoi “Kossuthismo, Socialismo, Abolizionismo e…i quaranta altri ismi”.

Greeley riteneva che le rivolte europee del 1848 e le loro conseguenze rivelavano “panorami sconfinati” insieme ai contorni di una “insurrezione che deve venire”.

Com’era prevedibile, il suo giornale dava alto rilievo al fermento rivoluzionario d’Europa, con una intensità tale che per i radicali presenti in luoghi come Springfield, Illinois, queste insurrezioni di fatto assumevano il carattere di vicende locali.

Essi si immergevano nella lettura delle loro copie della “Tribune” per apprendere le ultime notizie dal fronte di quella che il direttore del giornale dipingeva come una lotta globale per “la Libertà più totale”, per i “Diritti e gli Interessi del Lavoro, per la Riorganizzazione industriale, per l’elevazione dei Lavoratori, per la ricostruzione del tessuto sociale.”

Tuttavia, al momento, la “Tribune” non sollecitava per gli Stati Uniti il “salire sulle barricate”. Greeley e la maggior parte dei suoi redattori credevano ancora in una prospettiva riformista, anche se la loro frustrazione per la diffusione delle ingiustizie, che loro identificavano con “il potere schiavista”, a volte poteva indurre il titolare del giornale a riflettere se “la rivoluzione non fosse l’unica risorsa rimasta.”

In ultima analisi, tuttavia, ciò che più eccitava Greeley e i suoi lettori circa i moti del 1848 erano le idee nuove e radicali che erano emerse, e la commistione di tali idee con le azioni conseguenti alla loro attuazione.

Il corrispondente europeo della “Tribune” nelle prime fasi del periodo delle insurrezioni, Henry Bornstein, ammetteva nelle sue cronache di essere “preso da vertigini” per gli sviluppi in corso in Francia, in Germania e in altri paesi.

“Ogni giorno arriva una notizia fresca, ogni cosa più straordinaria di quella precedente”, scriveva Bornstein, che condiva la sua corrispondenza con esclamazioni del tipo: “Evviva! Come tutto brucia allegramente!”

“La Tribune non vuole pubblicare solo notizie”, Greeley annunciava, “desidera analisi degli avvenimenti, per incrementare il complesso delle informazioni offerto dalle nostre colonne.” Bornstein si trovava d’accordo, e sosteneva: “Ora, i corrispondenti devono trattare di altri argomenti accanto agli eventi politici, perché gli avvenimenti vengono presto superati. Ora devono fornire il “quadro complessivo” di ciò che sta accadendo in Europa. Devono spiegare le ragioni degli eventi, ad integrazione degli scarni rapporti telegrafici.”

“Il corrispondente Bornstein”, sottolinea Tuchinsky, era “il collegamento del giornale con Karl Marx e con il radicalismo con maggior coscienza di classe che sarebbe emerso in Europa durante le rivoluzioni del 1848 e nei periodi successivi.”

Lo stile di Bornstein di riportare il “quadro complessivo” europeo, che alla fine lo avrebbe accompagnato negli Stati Uniti come acuto osservatore della Guerra Civile, caratterizzava l’originale sviluppo della “Tribune” come fonte primaria di cronache dettagliate sugli eventi e sulle idee internazionali, che avrebbero ridisegnato il modo in cui i radicali e i riformatori americani avrebbero concepito le loro lotte, in particolare contro la schiavitù, e in generale contro le ingiustizie economiche e sociali.

Non più soddisfatta delle riforme idilliache di Fourier e dei comunitardi romantici francesi, la “Tribune” ormai prendeva in considerazione risposte più radicali.

“In definitiva, il 1848 avrebbe portato alla luce una immensa varietà di discorsi radicali, francesi ed europei, e di conseguenza la Tribune poteva pubblicare idee socialiste diversificate”, spiega Tuchinsky. “Ma più di questo, il socialismo in sé diventava non semplicemente un modo riformista, ma anche, in maniera significativa, un modo di spiegare, di interpretare gli avvenimenti.

Il Fourierismo era un movimento settario, ed era fallito, ma era con le rivoluzioni del 1848 che si apriva la strada ad un nuovo linguaggio e ad una nuova mentalità politica, attraverso cui gli intellettuali progressisti americani percepivano e criticavano il loro mondo sociale e politico.”

Per capire e interpretare questa nuova retorica, Greeley inviava a Parigi un recente acquisto, Charles Dana. Dana, un erudito idealista, per diversi anni a cavallo del 1840 aveva svolto un ruolo centrale nell’Associazione “Brook Farm” per il settore manifatturiero e l’istruzione a West Roxbury, Massachusetts.

La “Brook Farm”, un esperimento utopico di vita in comune, che cercava di dare attuazione agli ideali di Fourier, annoverava tra i suoi residenti, investitori, sostenitori e compagni, Horace Greeley, Nathaniel Hawthorne, le sorelle Alcott e Ralph Waldo Emerson, che aveva scritto della speranza che i residenti potessero essere “fourierizzati o cristianizzati o umanizzati”, con l’osservazione che “in un tempo di progetti meschini, aspri e feroci, si viene esortati e rallegrati da un progetto di tali mire amichevoli, e di tali proporzioni audaci e generose; in ciò si riscontrano una forza ed un coraggio intellettuale che sono superiori ed imperativi: questo certifica la presenza di tanta verità nella teoria, e la misura in cui questa teoria è destinata a realizzarsi.”

Charles Dana cercava di diffondere il principio “edifica-il cielo-in-terra!” in “Harbinger”, una rivista a cura del fondatore di “Brook Farm” (e futuro redattore della pagina letteraria di “Tribune”), George Ripley, e le sue capacità di scrittore in un uomo così giovane attirarono l’attenzione di Greeley.

Impressionato dallo stile e dalla profondità intellettuale di questo uomo di ventinove anni tanto abile con la penna, …e, forse, anche dal fatto che “Harbinger” aveva esaltato l’“indomabile Tribune” come il più grande giornale della nazione – Horace Greeley prospettò a Dana di diventare caporedattore della Tribune. Ma il “protégé” aveva obiettivi più alti.

Osserva Tuchinsky: “Dana desiderava fortemente viaggiare in Europa. Più che altro, come la maggior parte dei membri del circolo socialista della “Tribune”, Dana considerava le rivoluzioni europee come una svolta storica, ed era ansioso di assistervi in prima persona.”

In particolare, Dana era alla ricerca di nuovi principi concettuali che avrebbero potuto spingere il discorso socialista al di là del pensiero romantico “associazionista” dei seguaci di Fourier.

Insieme a Greeley, appena pochi anni prima, Dana aveva salutato le idee di Fourier come l’“ultima speranza della Divina Provvidenza” sulla terra.

Ora, tuttavia, Dana stava precorrendo il tempo in cui riformisti e radicali avrebbero “ceduto alla necessità”, e riconosciuto che l’“armonioso” ideale della vita nei campi doveva cedere il passo al grido di battaglia incendiario di “Libera terra, libero lavoro, libertà di parola, uomini liberi!”

Partito da New York nel giugno 1848, Dana arrivava in Francia, giusto in tempo per immergersi nel vivo dei tumulti di Parigi. Egli scrisse di getto una relazione in cui dichiarava che stava assistendo alla “gloriosa circostanza che stesse avvenendo qualcosa di immortale”.

Mentre rimaneva imprecisata la valutazione di come questo cambiamento repentino ed immortale potesse avvenire, l’impulso ideologico, secondo la visione di Dana, era sicuro.

“Allora, il Socialismo in Francia non è soggiogato né oscurato dai tumulti, ma rafforzato. Non è più Fourierismo, né Comunitarismo, né questo né quel sistema particolare sta occupando il pensiero pubblico della Francia, ma è l’idea generale dei Diritti sociali e di una Riorganizzazione Sociale. Tutti ora sono più o meno Socialisti!”

L’approccio eclettico di Dana alle divisioni ideologiche presenti sul terreno europeo gli permetteva di attingere con libertà alle diverse correnti, di sentire opinioni a largo raggio e di aggiornare di pari passo i lettori americani su quello che al giovane scrittore appariva un continente percorso dai conflitti per liberarsi “dalla sovranità del denaro…dall’aristocrazia del capitale”.

Ancora radicato in alcuni ideali ispirati da Fourier, Dana si dimostrò incline verso la predicazione libertaria socialista del filosofo e parlamentare francese Pierre-Joseph Proudhon, che sosteneva la costituzione di associazioni operaie intorno ad un “programma rivoluzionario” di “non più governi, non più conquiste, non più polizia internazionale, non più privilegi commerciali, nessuna esclusione coloniale, non più controlli di un popolo su un altro, di uno Stato su un altro, non più confini strategici, non più baluardi di difesa …”

In particolare, Dana aspirava ad indirizzare la “Tribune”, che per tradizione era sempre stata favorevole al sindacalismo, verso un giornale ancora più esplicitamente a sostegno del lavoro organizzato, argomentando nelle pagine del foglio che: “noi non vediamo altro modo con cui il Lavoro possa essere in grado di difendersi contro lo strapotere del Capitale, se non mediante il metodo effettivo dell’Associazionismo fra tutti i lavoratori.”

Lincoln, il vorace lettore di Tribune, avrebbe di frequente espresso idee in consonanza con queste, non solo nei dibattiti e nel messaggio indirizzato sullo Stato dell’Unione, ma in comunicazioni dirette a gruppi di lavoratori.

Rivolgendosi all’Associazione dei Lavoratori di New York, il Presidente in carica nel 1864 avrebbe osservato: “Il più forte legame di simpatia umana, al di fuori del rapporto di famiglia, dovrebbe essere quello che unisce tutti i lavoratori, di tutte le nazioni, qualsiasi siano i loro idiomi e affinità.”

Tuttavia, anche quando era impegnato nella divulgazione dei rimedi contro le storture del capitalismo, secondo le idee di Proudhon, soprattutto nel progetto della creazione di Banche popolari con lo scopo di liberare il credito in favore dei lavoratori e degli agricoltori – Charles Dana era alla ricerca di nuovi corrispondenti per il giornale di Greeley.

In particolare, aveva voluto individuare pensatori radicali che avrebbero potuto interpretare per i lettori americani non solo gli sviluppi transitori in Germania, Francia, Olanda e Ungheria, ma anche le correnti sociali, economiche e politiche potenzialmente in grado di risolvere la grande sfida che “Tribune” lanciava in un editoriale del tempo: “[Mentre] nessun teorico ha ancora veramente risolto il grande problema della combinazione armoniosa e benefica fra Lavoro, Lavoro qualificato e Capitale, è nondimeno evidente che il problema deve essere risolto, e che la società soffre paurosamente in attesa della soluzione.”

In questa ricerca di “tendenze alternative del pensiero socialista”, Dana si diresse verso la città di Colonia, dove un amico di Henry Wadsworth Longfellow, il poeta Ferdinand Freiligrath, stava lavorando ad un giornale radicale che incuriosiva ed affascinava il visitatore americano.

Il direttore di questo giornale recentemente era stato coautore di un pamphlet molto diffuso in lingua tedesca, “Das Manifest der Kommunistischen Partei”, che sosteneva:

“La condizione essenziale per l’esistenza e il dominio della classe borghese è l’accumulo di ricchezza nelle mani di privati​​, la formazione e l’incremento del capitale; la condizione essenziale del Capitale è il lavoro salariato. Il Lavoro salariato poggia esclusivamente sulla competizione fra operai.”

Per superare questa condizione, nel febbraio del 1848 gli autori si erano dichiarati per una “Rivoluzione Comunista” con le parole: “I proletari non hanno nulla da perdere, se non le loro catene. Hanno tutto un mondo da conquistare. Lavoratori di tutto il mondo, unitevi!”

Due anni dopo, il “manifesto” doveva essere tradotto in inglese come “The Communist Manifesto”. Il direttore in questione era, ovviamente, Karl Marx, con cui Charles Dana trascorse un giorno di mezza estate presso gli uffici della “Neue Rheinische Zeitung”, organo della Democrazia.

Né Marx né Dana hanno ricordato in seguito i dettagli dell’incontro, comunque è interessante prestare attenzione all’uomo che ha incontrato lo scrittore americano per una conoscenza reciproca, Carl Schurz, un editore tedesco e rivoluzionario che sarebbe fuggito in Wisconsin, avrebbe contribuito alla formazione del Partito Repubblicano e sarebbe poi ritornato in Europa nel 1861 come ambasciatore di Abraham Lincoln in Spagna.

Visitando Marx durante la stessa lunga, calda estate del 1848, Schurz esprimeva questa osservazione sul “capo riconosciuto della scuola del socialismo avanzato”:

“Un uomo piuttosto tarchiato, dalla fronte ampia, con capelli e barba nerissimi e gli occhi scuri scintillanti. Non ho mai visto un uomo il cui atteggiamento fosse tanto irritante e intollerabile.

A nessuna opinione che differisse dalla sua accordava l’onore di una considerazione seppure condiscendente. Tutti quelli che lo contraddicevano venivano trattati con noncuranza sgradevole; ad ogni argomento che non gli piaceva, rispondeva, o con disdegno sferzante verso… l’incommensurabile ignorante che glielo aveva sottoposto, o con calunnie disonorevoli sulle motivazioni avanzate dal proponente.

Ricordo distintamente il disprezzo tagliente con cui pronunciava la parola borghese.”

In qualche modo, Dana e Marx erano affini. Essi, infatti, si piacquero talmente che Dana, secondo il biografo di Marx, Francis Wheen, avrebbe offerto al filosofo “la cosa più vicina ad un lavoro stabile che mai avesse avuto”.

Il lavoro era simile a quello dei corrispondenti più frequentemente pubblicati dal “New York Tribune”, in cui Dana per una dozzina di anni aveva ricoperto l’incarico di caporedattore.

Al suo ritorno a New York per assumere il nuovo incarico, Charles Dana contattava Marx a Londra, dove questo era stato costretto a fuggire dopo che le autorità tedesche avevano chiuso la “Neue Rheinische Zeitung”, invitandolo a scrivere per la “Tribune”.

E Marx cominciò a scrivervi.

Come osserva Wheen, “La Tribune divenne di gran lunga il più importante editore dell’opera di Marx (e, in misura minore, di Engels) …. Gli articoli su “Tribune” occupano quasi sette dei cinquanta volumi delle opere complete di Marx ed Engels, più del Capitale, più di ogni lavoro pubblicato in forma di libro da Marx, vivo o dopo la sua morte.”

La “singolare collaborazione” tra il giornale di Greeley e Marx continuò dagli inizi del 1850 fino al momento della partenza di Dana per andare a far parte dello staff di Lincoln alla Casa Bianca.

Secondo la ricerca magistrale dello storico William Harlan Hale su questi rapporti :

“Durante questo periodo, il radicale più estremista di Europa, proscritto dalla polizia prussiana e sorvegliato dai suoi agenti all’estero come un potenziale assassino di re, inviava oltre 500 contributi distinti per il grande giornale di New York dedicati all’appoggio di Henry Clay, di Daniel Webster, sulla moderazione e sulla riforma del regime alimentare, sulla migrazione verso il West, e, alla fine in sostegno di Abraham Lincoln.”

La registrazione ufficiale degli articoli pubblicati dalla “Tribune” a firma di Marx ne contava 350, mentre Engels ne scrisse 125 e a due mani ne scrissero 12.

Ma, come ha osservato il filosofo stesso, molti più articoli finirono per essere pubblicati come linea editoriale di Tribune.

“Di recente, Tribune si è nuovamente appropriata di tutti i miei articoli come editoriali non firmati,” di questo Marx si lamentò nel 1854.

Anche se Marx non sempre ottenne il credito che egli pensava di meritare, Dana era instancabile nel tessere le sue lodi.

“Se può forse darle piacere, sappia che i suoi articoli vengono letti con soddisfazione da un numero considerevole di persone e sono ampiamente riprodotti,” così scriveva a Marx il caporedattore, descrivendo inoltre il corrispondente come “non solo uno dei più apprezzati, ma come uno dei meglio pagati collaboratori vincolati al giornale.”

Infatti, Greeley e Dana erano così entusiasti della collaborazione di Marx, che il 25 ottobre 1851 presentarono il primo articolo del Tedesco nell’edizione del giornale del sabato, di recente ampliata. Un editoriale annunciava fra gli “articoli dei collaboratori stranieri particolarmente degni di attenzione sulla Germania, quello di uno degli scrittori più arguti e vigorosi che quel paese abbia mai prodotto, non importa il giudizio della critica che verrà espresso sulle sue opinioni pubbliche in materia di filosofia politica e sociale.”

L’articolo “illustre”, “Rivoluzione e Contro-Rivoluzione”, apparve con la firma di “Karl Marx” (anche se in realtà era stato scritto in gran parte con la collaborazione di Engels). La retorica, si intende, era marxista:

“Il primo atto del dramma rivoluzionario sul continente europeo si è concluso.

I “poteri che esistevano” prima dell’uragano del 1848 sono ancora una volta i “poteri forti”, e i governanti più o meno popolari di un giorno, i governatori provvisori, i triumviri, i dittatori con la loro processione di rappresentanti, i commissari civili, i commissari militari, i prefetti, giudici, generali, ufficiali e soldati, sono stati espulsi verso lidi stranieri, e “riversati al di là dei mari”, verso l’Inghilterra o l’America, non per formare nuovi governi in partibus infidelium (nelle terre degli infedeli), comitati europei, comitati centrali, comitati nazionali, e nemmeno per annunciare il loro avvento con proclami altrettanto solenni come quelli di un qualsiasi dominatore meno immaginario.

Una sconfitta più totale di quella subita dal partito rivoluzionario continentale, o meglio dai partiti, su tutti i punti della linea di battaglia, non si può immaginare.

Ma questo, che importa? La lotta delle classi medie inglesi per la loro supremazia sociale e politica non ha abbracciato un arco temporale di quarantotto anni, e quella delle classi medie francesi non è durata quaranta anni di scontri senza precedenti? Ed il loro trionfo non è stato sempre più vicino rispetto al momento in cui la monarchia restaurata si pensava saldamente insediata più che mai?

I tempi di quella superstizione che attribuiva le rivoluzioni al risentimento e all’ostilità di pochi agitatori da molto se ne sono andati.

Tutti sanno che al giorno d’oggi ovunque ci sia una convulsione rivoluzionaria, di fondo devono sussistere bisogni sociali che devono essere appagati, ma che non vengono soddisfatti da istituzioni superate.

La necessità può non ancora essere sentita tanto forte, come avviene generalmente, da garantire la possibilità di un successo immediato, ma ogni tentativo di repressione con la forza farà diventare sempre più forte il bisogno, fino a quando non verranno spezzate le catene.

Allora, se siamo stati battuti, noi non abbiamo altro da fare che ricominciare da capo. E, per fortuna, l’intervallo probabilmente molto breve di riposo che ci è consentito tra la fine del primo e l’inizio del secondo atto del movimento, ci concede il tempo opportunamente necessario per l’analisi: lo studio delle cause che hanno reso inevitabili sia l’ultima insurrezione sia la sua sconfitta, cause che non sono da ricercare negli sforzi non coordinati, nei talenti, nei difetti, negli errori o tradimenti di alcuni dei leader, ma nel generale stato sociale e nelle condizioni di esistenza di ciascuna delle nazioni in subbuglio.”

Succedeva che l’articolo di Marx apparve proprio in un momento in cui per tanti radicali americani era necessario “ricominciare ancora dal principio”.

Il Partito Whig, sotto la cui bandiera Greeley, Lincoln e compatrioti di ideali si erano schierati, stava crollando sotto il peso delle sue divisioni interne, tra coloro che ritenevano affrontare in modo aggressivo la diffusione del “potere schiavista” e i riformatori più cauti.

Lincoln, che con Greeley aveva lasciato il Congresso nel 1849, esercitava la professione legale a Springfield e nel “circuito” delle corti di giustizia della contea dell’Illinois. Ma non si era lasciato la politica alle spalle.

Anni dopo, William Herndon osservava che il suo associato nello studio legale era, nei primi anni 1850, “come un leone addormentato …in attesa che la gente lo svegliasse.”

Il biografo John Waugh scrive del futuro presidente che “con questa sua mente strettamente disciplinata, straordinariamente acuta, egli leggeva ciò che egli considerava importante – i giornali. Ora, fuori dal circuito della politica, egli leggeva i giornali più di ogni altra cosa, ad alta voce, seguendo il sorgere e il flusso del sentimento politico sulla contrastata questione della schiavitù, con un’attenzione, così pensava il suo collega avvocato Henry Whitney, più profonda di chiunque egli conoscesse.”

La schiavitù era un problema onnipresente, ma non certo l’unico problema per Lincoln, la cui ristretta cerchia di connazionali ora includeva un certo numero di radicali reduci del ’48, che avevano raggiunto il Wisconsin, l’Illinois e il Missouri in nuovi centri di agitazione.

Lincoln assisteva agli sviluppi internazionali con la frustrazione dovuta alle battute d’arresto della fine degli anni 1840 e l’inizio degli anni 1850, esternando in una lettera a Herndon il suo sentimento di delusione:

“Il mondo è morto alla speranza, sordo alla lotta mortale resa palese da un grido universale. Che cosa si deve fare? C’è qualcosa da fare? Chi può fare qualche cosa, e come la si può fare? Hai mai pensato a queste cose?”

Mentre gli studi hanno messo a fuoco in modo appropriato la posizione di Lincoln rispetto ai suoi impegni nazionali, è stata prestata scarsa attenzione ai suoi interessi globali, in particolare durante il periodo “nel deserto”, tra la fine del suo mandato congressuale e il suo ritorno sulla scena politica.

Tuttavia, non vi possono esistere dubbi che il futuro Presidente fosse consapevole e molto coinvolto sugli sviluppi degli avvenimenti in terre straniere – sicuramente, grazie alla sua lettura attenta della “Tribune” e degli articoli del suo più importante corrispondente in Europa – o che il futuro Presidente costruisse collegamenti tra ciò che leggeva di divisioni lontane e quello che pensava sugli sviluppi di casa propria.

Nel 1852, elogiando il suo eroe politico Henry Clay, Lincoln avrebbe spesso fatto riferimento agli interessi e ai coinvolgimenti internazionali di Clay, dichiarando:

“Gli sforzi del signor Clay in favore degli Americani del Sud, e poi, in favore dei Greci, ai tempi delle loro rispettive lotte per le libertà civili, sono tra i migliori da ricordare, superiori al più nobile di tutti i temi; e ad apportare conferma ampia di ciò che ho asserito, era la sua passione predominante, senza secondi fini, l’amore per la libertà e i diritti in nome degli interessi di quei popoli.”

Lincoln invocava le lotte dei rivoluzionari europei, e denunciava “l’oppressione in qualsiasi delle sue forme … esercitata dai re coronati, dai re del denaro, dai re della terra.”

Respingeva la retorica del suo grande avversario, il senatore dell’Illinois Stephen Douglas, trovandola “enfatica e vacua come i bollettini di Napoleone in rotta dopo la sua campagna in Russia.” E quando Douglas si compromise per consentire la diffusione della schiavitù nei nuovi territori, Lincoln dichiarava: “L’uguaglianza nella società deve vincere la disuguaglianza, parimenti che si tratti di disuguaglianze di natura aristocratica britannica o del genere della nostra schiavitù domestica.”

Lincoln era, probabilmente, nella sua fase più radicale quando scrisse queste parole nel 1854.

L’uomo, che l’associato nello studio legale descriveva come “sempre calcolatore, e sempre pianificatore”, sarebbe divenuto gradualmente più cauto mentre procedeva dal ristagno politico di Springfield verso il podio della Cooper Union di New York, con la prospettiva della presidenza.

Nel periodo immediatamente successivo il tradimento di Douglas, tuttavia, il linguaggio di Lincoln portava l’accento distintivo della “Tribune” di Greeley e dei suoi articolisti più radicali.

Quando nel 1854 Lincoln emerse dal suo auto-imposto esilio politico, aveva tutta l’intenzione di dare battaglia elettorale non solo contro la schiavitù, ma anche di mettersi al fianco di coloro che andavano nella direzione della “libera terra e del movimento dei lavoratori senza padroni”, che “Tribune” aveva reso popolare.

“Il lavoro libero è l’ispirazione della speranza; la schiavitù pura non ha alcuna speranza,” così dichiarava il futuro Presidente in uno dei suoi frequenti collegamenti a mantra ideologici.

Mentre tornava alla politica, inizialmente come attivista per i vecchi Whig e poi per i nuovi Repubblicani, e quindi come aspirante ad un proprio seggio al Senato, Lincoln faceva eco agli ideali e al linguaggio del radicalismo brillante e determinato dell’epoca.

Questo non voleva dire che abbracciava tutti i punti di vista del corrispondente europeo della “Tribune”, Charles Dana.

Lincoln non fu mai tanto audace da spingersi fino ad argomentare nello stesso modo in cui Marx avrebbe fatto nel “Capitale”, un libro da cui Marx attingeva liberamente per i suoi articoli per “Tribune” – che “negli Stati Uniti del Nord America, ogni movimento indipendente dei lavoratori sarebbe stato paralizzato fino a quando la schiavitù avrebbe sfigurato una parte della Repubblica. Il Lavoro nella sua pelle bianca non può emancipare se stesso quando la pelle nera è marchiata a fuoco!”

Tuttavia, ora “preparato” da quello che il suo biografo Waugh descrive come “tutte la sue letture dei giornali … tutto il suo studio e il pensare e l’analizzare nel corso di quei cinque anni lontano dalla politica attiva”, Lincoln riconosceva che la promessa più radicale formulata nel gettare le fondamenta dell’America – che “tutti gli uomini sono creati uguali” – poteva correre il rischio di essere annullata, con la conseguenza di impedire il progresso non solo per gli schiavi neri, ma anche per i lavoratori e i contadini bianchi, che lottavano per la loro liberazione.

Nella sua straordinaria lettera del 15 agosto 1855, all’ex membro del Congresso del Kentucky George Robertson, un connazionale di Henry Clay e campione della vecchia scuola Whig che si augurava che la schiavitù venisse gradualmente abbandonata, il quarantaseienne dell’Illinois recriminava sulla fede morente dei Fondatori.

Ricordando un discorso tenuto decenni prima da Robertson, Lincoln scriveva:

“In teoria, lei non è un amico della schiavitù. In quel discorso lei parlava di “pacifica estinzione della schiavitù” e usava altre espressioni, sottolineando la convinzione che lo schiavismo, a un certo momento, doveva avere una fine.

Da allora abbiamo vissuto 36 anni di esperienze; e l’esperienza ci ha dimostrato, credo, che in prospettiva non esista estinzione pacifica della schiavitù.

Il fallimento completo di Henry Clay, e di altri uomini buoni e grandi, nel 1849, nel dare effetto a qualsiasi atto in favore della graduale emancipazione in Kentucky, insieme a mille altri segnali, spegne del tutto la speranza.

Sulla questione della libertà, come principio, noi non siamo, ora, quello che siamo stati. Quando eravamo politicamente schiavi di Re Giorgio, e bramavamo essere liberi, noi invocavamo la massima che “tutti gli uomini sono creati uguali”, una verità per se stessa evidente, ma ora che siamo cresciuti nella ricchezza, e abbiamo perso completamente il timore di essere noi stessi schiavi, siamo diventati così avidi nell’essere padroni, da definire la medesima massima “una menzogna per se stessa evidente”.

Il Quattro Luglio (giorno dell’Indipendenza degli Stati Uniti) non ha ancora perso del tutto il suo significato, è ancora un grande giorno…per lo scoppio di fuochi artificiali!!!

E in buona sostanza, quello spirito che desiderava l’estinzione pacifica della schiavitù si è esso stesso estinto, come se ne sono andati gli uomini della Rivoluzione.

Sotto l’impulso di quella volontà, quasi la metà degli Stati avevano adottato nello stesso tempo sistemi di emancipazione, ed è un fatto significativo che da allora non un singolo Stato abbia fatto qualcosa di simile.

Quantunque venga proposta una pacifica, volontaria emancipazione, la condizione dello schiavo negro in America, non meno terribile alla contemplazione di una mente libera, è ora come fissata per sempre, e senza speranza di cambiamenti in meglio, come quella delle anime perdute di definitivi impenitenti.

L’Autocrate di tutte le Russie abbandonerà la sua corona, e proclamerà i suoi sudditi “liberi repubblicani”, prima che i nostri padroni americani volontariamente rinunceranno ai loro schiavi!”

La lettera a Robertson era stata formulata durante un periodo in cui Lincoln stava discutendo con il suo associato nello studio legale, William Herndon, che “il giorno del compromesso è passato. Questi due grandi concetti, la schiavitù e la libertà, sono stati tenuti separati soltanto attraverso artifici. Sono come due belve feroci, una di fronte all’altra, incatenate e tenute lontane. Un giorno questi antagonisti mortali romperanno i loro vincoli, e allora la questione si risolverà.”

Cosa voleva dire Lincoln quando parlava della libertà, come una grande idea che si poneva in conflitto con la schiavitù?

Si riferiva semplicemente alle condizioni di chi fisicamente era tenuto schiavo dei padroni delle piantagioni del sud – e alle strutture politiche e giuridiche che li supportavano? O stava parlando di una libertà più ampia?

La risposta si trova negli articoli che trattano dei discorsi pubblici di Lincoln di quel tempo.

Mentre gran parte della documentazione è costituita dai dibattiti fra Lincoln e Douglas del 1858, già in precedenza Abraham Lincoln e Stephen Douglas si erano confrontati in una serie di conversazioni prima delle elezioni del 1854, che avevano visto Lincoln tornare alla campagna elettorale con una energia e serietà mai viste da quando, otto anni prima, aveva corso per il Congresso.

Nei mesi successivi, dopo che Douglas aveva riaperto la questione della schiavitù difendendo l’odioso Kansas-Nebraska Act, il senatore in carica e Lincoln, l’ex deputato che improvvisamente voleva assolutamente diventare senatore, si scontravano in una serie di dibattiti in tante città dell’Illinois.

[Il Kansas-Nebraska Act del 1854 apriva i due citati territori alla schiavitù, annullando quindi i limiti alla diffusione della schiavitù che erano parte del Compromesso del Missouri del 1820]

I discorsi che Lincoln pronunciava – molti duravano più di tre ore – risuonavano potentemente di termini significativi come “uguaglianza”, “liberazione” e “libertà”.

A Peoria, gettò la sua giacca da parte in un giorno insolitamente caldo di ottobre e tenne un discorso che lo storico di Lincoln, Lewis Lehrman, avrebbe descritto come “un capolavoro di retorica e di cultura letteraria”, che “drammaticamente produceva una svolta alla carriera politica dell’oratore e, di conseguenza, alla storia d’America.”

Un giovane giornalista che fece la cronaca dell’assemblea di Peoria ricordava le parole e la straordinaria passione con cui il discorso venne pronunciato.

“Progredendo con il suo tema, le sue parole cominciavano a sgorgare più veloci e il suo volto ad illuminarsi con i raggi della genialità, e il suo corpo a muoversi in sintonia con i suoi pensieri”, così scriveva Horace White, il redattore della cronaca finanziaria del Chicago Daily Journal.

“La sua gestualità veniva dal suo corpo e dalla sua testa, piuttosto che dall’agitare delle braccia. La sua parola arrivava al cuore perché proveniva dal cuore. Ho sentito oratori celebri che potevano scatenare ovazioni, comunque senza far cambiare opinione in nessuno. L’eloquenza del signor Lincoln era di natura superiore, in quanto persuadeva gli ascoltatori per merito della convinzione dello stesso oratore. I suoi ascoltatori sentivano che egli credeva in ogni parola che pronunciava, e che, come Martin Lutero, sarebbe andato al rogo, piuttosto che eliminare dal suo discorso un particolare o un periodo qualsiasi. In questi momenti di tale trasfigurazione, egli mi sembrava come un antico Profeta ebraico, sul tipo che avevo imparato a conoscere alla scuola domenicale nella mia infanzia.”

Mentre Lincoln in quel giorno poteva sembrare “un antico Profeta ebraico”, il testo “biblico” a cui faceva riferimento non era il Vecchio Testamento, nemmeno il Nuovo.

Egli invece si basava sugli “ Elementi” di Euclide, lo studio filosofico che da ex congressista aveva letto e riletto durante i suoi anni di “isolamento”, affinando i costrutti logici, che meno di un decennio dopo lo avrebbero preparato a pronunciare il suo memorabile discorso su un campo di battaglia intriso di sangue, in cui l’esercito del Potomac e l’esercito della Virginia del Nord nel corso di tre giorni avevano sacrificato una ecatombe di 7.500 soldati.

Come a Gettysburg, con “poche ma appropriate osservazioni” su una nazione tutta votata al principio ideale che “gli uomini sono creati tutti uguali”, a Peoria Lincoln avrebbe citato antichi algoritmi, e, con espressioni retoriche fiorite più consone alla contemporaneità, avrebbe identificato il massimo comun divisore di una giovane Repubblica.

Era nella promessa di Jefferson di una generale uguaglianza, che l’oratore del 1854, e il Presidente del 1863, avrebbe trovato il suo fondamento morale.

“A poco a poco, ma costantemente come la marcia dell’uomo verso la tomba, siamo retrocessi, dalla fede “antica” ad una “nuova”. Quasi 80 anni fa abbiamo iniziato dichiarando che gli uomini sono creati tutti uguali, ma ora da quell’inizio siamo precipitati verso un’altra dichiarazione, che per alcuni uomini schiavizzarne altri è un “sacro diritto di auto-governo”.

Questi principi non possono stare insieme. Essi stanno all’opposto, come Dio e Mammona; ma chi sostiene uno, deve sprezzare l’altro.

Quando Pettit, in occasione del suo sostegno al disegno di legge del Nebraska, ha definito la Dichiarazione di Indipendenza “una palese menzogna”, ha fatto solo quello che la coerenza e la sincerità impongono a tutti gli altri uomini del Nebraska di fare.

Dei quaranta e passa Senatori del Nebraska, che si trovavano presenti e lo hanno sentito, nessuno lo ha redarguito.

Nemmeno ho valutato positivamente che nessun giornale del Nebraska, o nessun oratore del Nebraska, nell’intera nazione, lo abbia mai stigmatizzato.

Se questa frase fosse stata pronunciata fra gli uomini di Marion, sebbene costoro appartengano ad uno Stato del Sud, che cosa sarebbe avvenuto di colui che l’avesse articolata?

Se questa frase fosse stata pronunciata davanti agli uomini che hanno catturato André, l’uomo che l’avesse fatto, probabilmente, sarebbe stato appeso ben prima di quel che è successo ad André.

[Verso la fine del 1780, durante la guerra di Indipendenza, alcuni soldati Statunitensi fermarono un uomo in borghese che stava cercando di ritornare nella città di New York, occupata dai Britannici. Questi, interrogato, ammise di essere il maggiore John André e di essersi accordato con il generale degli insorti Statunitensi Benedict Arnold affinché la fortezza di West Point fosse venduta per 20.000 sterlineWashington decise di punire entrambi i coinvolti nella vicenda ma, mentre André fu condannato all’impiccagioneArnold sfuggì alla cattura e riuscì a riparare in città, dove assunse come generale il comando di una unità britannica.]

Se questa frase fosse stata pronunciata nella vecchia Independence Hall, 78 anni fa, sicuramente il portinaio avrebbe strozzato l’uomo, e lo avrebbe sospinto come un rifiuto in mezzo alla strada.

[L’Independence Hall è una costruzione di Filadelfia, Pennsylvania, conosciuta principalmente per il fatto di essere l’edificio in cui venne discussa e ratificata la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti.]

Che nessuno si illuda. Lo spirito del 1776 e lo spirito del Nebraska, sono assolutamente antagonisti; e il primo rapidamente sta per essere sostituito da quest’ultimo!

[La Dichiarazione di Indipendenza venne approvata qui il 4 luglio 1776]

Connazionali – Americani del sud, così come del nord, non dobbiamo fare alcuno sforzo per arrestare tutto questo?

Già i Partiti liberali, in tutto il mondo, esprimono il timore “che l’unica istituzione retrograda in America sta minando i principi di progresso, e fatalmente sta violando il sistema politico più nobile che il mondo abbia mai visto.”

Questo non è un rimprovero sarcastico di nemici, ma la messa in guardia di amici!

Siamo completamente sicuri di non volere tenerne conto, di disprezzare questo?

Non esiste un pericolo per la libertà stessa nello scartare il nostro primo modo di procedere, e primo precetto della nostra antica fede?

Nella nostra rincorsa avida di profitto dai negri, stiamo in guardia di non “cancellare e strappare a pezzi” anche la carta delle libertà dell’uomo bianco.

La nostra veste repubblicana è insozzata, e lacera nella polvere. Dobbiamo renderla pura. Riprendiamola e laviamola fino a renderla bianca, nello spirito, e non nel sangue, della Rivoluzione. Allontaniamo la schiavitù dalle sue pretese di “diritto morale”, dai suoi diritti giuridici esistenti, e dai suoi argomenti di “necessità”.

Ritorniamo sulle posizioni che i nostri padri ci hanno assegnato, lasciamoli riposare in pace. Dobbiamo ri-adottare la Dichiarazione di Indipendenza, e le sue pratiche, e la politica in armonia con essa.

Sia al nord che al sud – tutti gli Americani – tutti gli amanti della libertà in ogni dove, si uniscano nella grande e buona opera. Se faremo questo, noi non solo avremo salvato l’Unione, ma l’avremo salvata per renderla e conservarla per sempre degna della salvezza. Come l’avremo salvata, così poi milioni di liberi uomini felici, di tutto il mondo, si alzeranno, e ci chiameranno beati, fino alle ultime generazioni.”

Mentre Lincoln poteva aver riconosciuto la necessità di una “ripurificazione”, egli stesso non era né ideologicamente, né moralmente puro.

L’uomo, che come Presidente sarebbe stato giustamente accusato di mutilare le libertà civili nell’ignorare le aspirazioni e i diritti umani fondamentali dei Nativi Americani, e con libera volontà sacrificava questi principi sull’altare della convenienza politica, aveva imparato fin troppo bene dal suo compagno Whig, Henry Clay, “la grande compromissione”.

Lincoln era un nemico imperfetto della schiavitù, come riconoscono ora anche i suoi biografi più generosi.

Tuttavia, è ragionevole suggerire che il Lincoln del 1854 era in procinto di diventare il Presidente che finalmente – su pressione di Greeley – avrebbe firmato un Proclama di Emancipazione.

Quello che egli stava arrivando a capire, intellettualmente ed emotivamente, era che la schiavitù era una forma di oppressione fra altre oppressioni. E non era dalla parte degli oppressori. Era dalla parte della libertà, non solo come costrutto morale o sociale, ma anche di natura economica.

Questo era un concetto che era stato introiettato nel Partito Repubblicano, fin dal momento della sua fondazione, dai seguaci della visione utopica socialista di Fourier, dai Tedeschi attori del 1848 e in particolare dal vigoroso veterano conduttore della campagna per una radicale riforma agraria, Alvan Bovay.

Era un concetto che Lincoln aveva sottolineato quando, nel 1856, conduceva la campagna per “Libera Terra, Libero Lavoro, Liberi Unomini e Frémont” (elezioni presidenziali)

[I Repubblicani avevano nominato come candidato alla presidenza John Frémont con lo slogan “Free soil, free labor, free speech, free men, Frémont.”

I Democratici vinsero le elezioni, ma divennero sempre più un partito sudista. Frémont vinse in quasi tutto il nord. Un leggero spostamento di voti in Pennsylvania e Illinois avrebbe dato la vittoria ai Repubblicani. Come conseguenza, essi abbandonarono completamente il sud e divennero un partito prevalentemente nordista. Così la nazione era ora completamente polarizzata lungo linee trasversali, con i Repubblicani come “partito del nord” e i Democratici come “partito del sud”.]

In quel anno, la schiavitù era al centro del dibattito, e Frederick Douglass aveva sicuramente ragione quando sosteneva che il voto repubblicano era il modo migliore per assestare “il più pesante colpo mortale allo schiavismo che possa essere inferto in questo particolare momento.”

Ma la schiavitù non era l’unico problema trattato da Lincoln, come un giornale del sud dell’Illinois, “the Belleville Weekly Adcocate”, faceva notare dopo che Lincoln aveva tenuto comizi attraversando tutta la regione per conto della lista elettorale del generale John C. Frémont e dell’ex senatore del New Jersey William Dayton (che aveva sconfitto Lincoln per la nomination alla vice-presidenza con 253 voti contro 110 alla prima Convenzione nazionale Repubblicana a Philadelphia in quella stessa estate).

“Egli rivendicava la causa del lavoro libero, ‘questo capitale nazionale’, nella retorica del Col. Frémont, ‘che costituisce la vera ricchezza di questo grande paese, e crea quel potere intelligente nelle masse, il solo su cui fare affidamento come baluardo delle libere istituzioni’. Egli ha svelato la tendenza e l’intenzione della Falsa Democrazia di degradare il lavoro, per sovvertire i veri obiettivi del governo e costruire Aristocrazia, Dispotismo e Schiavitù.”

Due anni più tardi, il 15 ottobre 1858, nell’ultimo dei dibattiti Lincoln-Douglas, il candidato repubblicano Lincoln avrebbe inquadrato i problemi in termini se possibile ancora più arditi, collegando schiavitù fisica a quella economica.
“Per la schiavitù, in qualsiasi forma si manifesti e si sviluppi, vale il medesimo principio”, così si rivolgeva ad una folla di 5.000 persone, che si era radunata davanti al municipio della città di Alton, Illinois. “Questo è il vero problema. Questo è il problema che sussisterà in questo paese, anche quando queste povere lingue del giudice Douglas e del sottoscritto cadranno nel silenzio.

È l’eterna lotta tra questi due principi, il giusto e l’errato, in tutto il mondo,” Lincoln tuonava. “Questi sono i due principi che si sono contrapposti dall’inizio del tempo, e sempre continueranno a lottare. L’uno è il diritto comune dell’Umanità, e l’altro il diritto divino dei Re. Si tratta dello stesso principio, in qualsiasi forma la schiavitù si esplichi. È lo stesso spirito che afferma: ‘Voi lavorate e faticate per guadagnare il pane, ed io lo mangerò.’ Non importa in quale forma si manifesti, se dalla bocca di un re che cerca di dominare gli uomini della sua nazione e vivere del frutto del loro lavoro, o da una razza di uomini che giustifica la schiavizzazione di un’altra razza; si tratta sempre dello stesso principio tirannico.”

Nel prepararsi per la corsa alle elezioni presidenziali del 1860, Lincoln si sarebbe allineato con coloro che sostenevano che “il Lavoro deve essere collocato su un livello superiore – notevolmente superiore – al Capitale”.

Questa linea, da uno dei discorsi più suggestivi di Lincoln del periodo, il suo discorso del 30 settembre 1859 indirizzato alla Società degli Agricoltori dello Stato del Wisconsin , veniva ripresa con poche varianti in tutta la difficile campagna per la nomination repubblicana.

Questa nomination vedeva Lincoln prevalere con il forte appoggio di Greeley, che sosteneva come la determinazione dell’Illinoisiano di mescolare messaggi sulla “libera terra” e sul “libero lavoro” con le sue condanne del “Potere Schiavista” stabiliva il giusto mix per una campagna vincente, in un paese che l’editore riteneva “solo in grado di inghiottire un po’ di Anti-Schiavismo in una grande quantità di dolcificante.”

Qualunque fosse la valutazione di Greeley, il fatto di una opposizione divisa, l’oratoria di Lincoln o la marcia di successo dei Tedesco-Americani reduci del 1848 e delle loro comunità di immigrati, guidati da Carl Schurz per combattere i “capitalisti schiavisti” in favore di una “società, dove a causa dell’istruzione popolare e dei continui cambiamenti di condizione, le linee di demarcazione tra i ceti e le classi sociali erano quasi cancellate” – o, come sempre accade in politica, per merito di una effettiva commistione di tutti i messaggi – i Repubblicani conquistarono il potere di promuovere e gestire il conflitto.

“Quindi, i Repubblicani hanno aggredito alla radice il dominio dei padroni di schiavi,” sosteneva Marx in uno dei suoi molti articoli che celebravano la nascita del nuovo partito radicale negli Stati Uniti, proprio come egli condannava “la connivenza dei Democratici del Nord (o, come egli li definiva, gli “Schiavocrati”) con lo Schiavismo del Sud”.

L’articolista Marx, spesso manifestando entusiasmi idealistici quanto gli attivisti del Vermont o del Wisconsin, ribadiva che la rapida ascesa del Partito Repubblicano offriva “molte prove oggettive che il Nord aveva accumulato le energie sufficienti per correggere le aberrazioni che la storia degli Stati Uniti, sotto la pressione dei negrieri, aveva subito per mezzo secolo, e per fare tornare gli Stati Uniti ai veri principi del loro sviluppo.”

Nell’opinione di Marx, la vittoria di Lincoln era il segnale che “i lavoratori del nord non sarebbero stati più sottoposti ad una oligarchia di 300.000 proprietari di schiavi.”

Questo non si sarebbe conciliato bene con il sud, e il corrispondente europeo di Greeley spiegava ai lettori della “Tribune” ciò che ben sapevano essere la prossima tappa nella storia degli Stati Uniti: “La vittoria elettorale repubblicana era quindi destinata a guidare l’apertura della lotta tra Nord e Sud”.

La Guerra Civile determinava la conduzione politica di Lincoln alla Casa Bianca.

Il primo Presidente repubblicano della nazione era più di un semplice guerriero, però. Egli cercava, sinceramente, se non sempre con successo, di trovare il difficile equilibrio tra i doveri di un comandante in capo e quelli di uno che deve decidere della politica interna di un paese, equilibrio che riconosceva nel suo primo messaggio sullo Stato dell’Unione.

Così, come si verificavano trionfi sul campo di battaglia, si delineavano trionfi economici che Lincoln non mancava di sottolineare. Primo fra questi era stata la promulgazione della legge Homestead Act del 1862, una versione attenuata delle riforme agrarie proposte dai socialisti agrari influenzati da Paine e dai socialdemocratici di vario genere – guidati da George Henry Evans, che aveva proposto al movimento di nominarsi “repubblicano” già alla metà degli anni 1840, e con la collaborazione di Bovay, discepolo di Evans, che avrebbe imposto questo nome un decennio più tardi, quando così denominava il partito in formazione a Ripon, Wisconsin.

La legge, che prometteva la “terra per i senza-terra,” consentiva ad ogni cittadino adulto (o a chiunque avesse fatto domanda di cittadinanza), la rivendicazione di un appezzamento di 160 acri di terreno demaniale.

Greeley salutava questa norma come “una delle riforme più importanti mai tentate”, e prevedeva che la legge avrebbe inaugurato un dopoguerra di equità economica caratterizzata da “Pace, Prosperità e Progresso”.

Anche se si trovavano d’accordo sulla concessione delle terre, Greeley e Lincoln litigarono sui tempi e l’opportunità di una Proclamazione di Emancipazione.

L’editore si univa a Frederick Douglass nel chiedere che il Presidente adottasse provvedimenti per rendere la Guerra Civile non soltanto una lotta per preservare l’Unione, ma “una guerra di Abolizione”.

Proprio mentre Greeley e Lincoln si scambiavano lettere a volte pungenti, Charles Dana, da lungo tempo direttore responsabile della “Tribune”, ora stava collaborando con Lincoln.

Ufficialmente assegnato al Dipartimento della Guerra, dove avrebbe svolto effettivamente un vero e proprio ruolo da vice ministro, la funzione di Dana era quella di aiutante e consigliere del Presidente su questioni che l’ex giornalista descriveva come “applicazioni assennate, umane, e sagge del potere esecutivo”.

Che Lincoln dedicasse gran parte della sua presidenza a leggere i ben accolti articoli e dispacci con cui l’editore di Marx da vecchia data inviava i suoi consigli – come quello di assegnare importanti incarichi militari ai numerosi compagni dell’autore del “Manifesto del partito comunista” rigufiatisi per motivi politici negli Stati Uniti in seguito alla fallite rivoluzioni europee del 1848 – è un particolare della storia raramente analizzato nei resoconti agiografici che producono una versione sterilizzata delle vicende del sedicesimo Presidente.

Negli anni successivi alla morte di Lincoln, il suo socio nell’ufficio legale e compagno politico, William Herndon, lamentava che i biografi ufficiali di Lincoln già stavano tentando “di costruire la storia come un conflitto di classi, a fronte di quello fra masse”, un approccio che egli supponeva “si sarebbe tradotto nel configurare il reale Lincoln quasi come una statua di cera in un museo”.

Il vero Lincoln era più un seguace di Jefferson, e soprattutto di Paine, che un marxista ortodosso.

[Thomas Paine (Thetford, 29 gennaio 1737 – New York, 8 giugno 1809) era uno studioso inglese, rivoluzionario, politico, intellettuale, filosofo idealista, considerato uno dei Padri Fondatori degli Stati Uniti d’America.]

Il Presidente respingeva l’idea di “una legge che impedisse ad un uomo di diventare ricco”, come un progetto impraticabile, che “ avrebbe fatto più male che bene”.

Egli si aspettava che, benché il Lavoro fosse “superiore” al Capitale, “probabilmente esisterà sempre una relazione tra Lavoro e Capitale”.

Ma se Lincoln era qualcosa meno di un marxista, Lincoln era anche qualcosa meno di un capitalista liberista, anzi, molto meno. Anche se accettava una relazione tra Capitale e Lavoro, egli interpretava come un “errore” “assumere che il Lavoro complessivo nel mondo esiste solo all’interno di tale rapporto”.

Nella misura in cui bisogna prendere posizione, Lincoln stava dalla parte del Lavoro!

Egli esortava i lavoratori ad “unirsi” e ad organizzarsi in sindacati – per “unire tutti i lavoratori, di tutte le nazioni, di qualsiasi idioma ed etnia.”

Voleva il “Lavoro libero” di essere in grado di fare richieste al Capitale, senza scuse o compromessi. Questo, egli proponeva, non come un giovane uomo in una “fase di radicalità”, ma come il Presidente degli Stati Uniti.

E questo egli affermò con forza quando i leader dell’Associazione Democratico-Repubblicana dei lavoratori di New York si erano recati alla Casa Bianca nel marzo 1864 per informare il Presidente di averlo eletto membro onorario della loro organizzazione.

Lincoln “accettò con gratitudine” l’onorificenza, lesse il documento presentatogli ed esternò il suo apprezzamento ai visitatori:

“ Voi comprendete bene, come dimostra il vostro documento, che la ribellione esistente significa molto di più, e tende a molto più che la perpetuazione della Schiavitù Africana; infatti, si tratta di una guerra contro i diritti di tutti i lavoratori.

In parte per dimostrare che questo punto di vista non è sfuggito alla mia attenzione, e in parte perché non riesco ad esprimermi meglio, io leggo un passo del Messaggio rivolto al Congresso nel dicembre 1861.”

Dopo aver ricordato le sue dichiarazioni circa la superiorità del Lavoro, Lincoln trascorse un buona parte del suo tempo con i lavoratori, nonostante una fitta agenda che poneva sulle sue spalle tutto il peso delle decisioni in materia del conflitto e di un’incombente campagna per la rielezione.

La campagna avrebbe visto i sostenitori di Lincoln distribuire volantini in favore della classe operaia di New York e di altre città, che sostenevano che la guerra era un conflitto non solo per liberare gli schiavi del sud, ma anche i lavoratori del nord da “salari da schiavi”.

I più ardenti abolizionisti, come Frederick Douglass, avevano sempre considerato che: “Libertà per lo schiavo è pace, onore, e prosperità per il paese”.

Ma ora questo messaggio stava diventando centrale nella campagna di Lincoln, come attrazione per gli elettori negli Stati in bilico, che avrebbero deciso se il Presidente avrebbe contribuito a superare la guerra attraverso “una pace Abolizionista” caratterizzata da “libertà per tutti, catene per nessuno”.

L’emancipazione, così arguivano i sostenitori di Lincoln, avrebbe permesso agli Afro-Americani nel sud di esigere un “salario che avrebbe concesso loro di vivere in maniera decente, e, pertanto, avrebbe aiutato il bianco povero a pretendere un compenso più alto per il suo lavoro invece di subire una schiavitù, come succede adesso.”

“Il lavoratore rifletta su questo e vada alle urne e voti per Abraham Lincoln, che è il candidato veramente democratico, e non il fautore di una forma di governo da aristocratici inglesi, di cui per liberarsi tanti hanno lasciato i loro lidi nativi, e a questa forma i capi della Ribellione sono favorevoli, prova ne sia il fatto che in molti Stati del Sud non le persone possono ricoprire cariche, ma i detentori di proprietà …” su un manifestino si leggeva questo appello di classe, fondamentale per la costruzione della maggioranza che avrebbe consentito di portare a Lincoln a New York, e conservare la presidenza con una schiacciante vittoria elettorale nazionale.

Da lontano, Marx (che corrispondeva con Dana e con altri compatrioti Americani, durante e dopo la guerra), approvava la campagna, scrivendo a Engels nel mese di settembre 1864, esprimendogli un notevole entusiasmo: “Se questa volta Lincoln dovesse vincere, come è molto probabile, questo avverrà su una piattaforma molto più radicale e in circostanze completamente cambiate.”

Nell’autunno del 1864, Marx ed Engels si erano molto impegnati nel lavoro di organizzazione dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori, la “Prima Internazionale” del movimento comunista e dei suoi alleati di sinistra.

Nel corso della riunione del 19 novembre del Consiglio generale dell’Internazionale a Londra, Marx presentava una lettera di congratulazioni a Lincoln, con la completa approvazione del Consiglio. La lettera riportava:

“Signore:

ci congratuliamo con il popolo americano per avervi rieletto con così larga maggioranza. Se la “Resistenza al Potere Schiavista” è stata la parola d’ordine della vostra prima elezione, il grido di guerra trionfale della vostra rielezione sia “Morte alla Schiavitù”.

Fin dall’inizio della lotta titanica americana, i lavoratori di Europa hanno sentito istintivamente che la bandiera a stelle e strisce portava con sé il destino della loro classe.

La contesa per i territori, che ha aperto una terribile epopea, forse non era quella di decidere se il terreno vergine di immense regioni dovesse essere associato al lavoro dell’emigrante, o prostituito alle carrette sgualdrine dei mercanti di schiavi?

Quando una oligarchia di 300.000 schiavisti ha osato iscrivere, per la prima volta negli annali del mondo, “Schiavitù” sulla bandiera della rivolta armata; quando sui posti stessi in cui quasi un secolo fa era spuntata l’idea di una grande Repubblica democratica, da cui veniva promanata la prima Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo, e veniva innescato il primo impulso alla rivoluzione europea del XVIII secolo; quando su questi stessi posti la contro-rivoluzione, con sistematico accanimento, si gloriava di annullare “le idee concepite al momento della formazione della vecchia Costituzione” e asseriva essere la schiavitù “una istituzione benefica”, anzi, rappresentare l’antica soluzione del grande problema “del rapporto del capitale verso il lavoro”, e cinicamente proclamava il possesso di uomini “la pietra angolare del nuovo edificio”, allora la classe operaia di Europa, ben prima che la partigianeria fanatica delle classi superiori favorevoli ai possidenti della Confederazione avesse lanciato il suo tetro grido di allarme, ha compreso immediatamente che la ribellione degli schiavisti risuonava come la campana a martello per una santa crociata generale dei padroni contro i lavoratori, e che per i lavoratori, con le loro speranze per il futuro, anche le loro conquiste del passato venivano poste in gioco in questo tremendo conflitto dall’altra parte dell’Atlantico.

Quindi, benché abbiano dovuto sopportare pazientemente le sofferenze imposte loro dalla crisi del cotone, ovunque i lavoratori si sono opposti con passione agli interventi pro-schiavitù dei loro sovrastanti, – e, da molte parti di Europa, hanno contribuito con una loro quota di sangue alla buona causa.

Mentre gli operai, l’autentica forza politica del Nord, hanno permesso alla schiavitù di contaminare la loro Repubblica, quando il Negro veniva sottomesso e venduto contro la sua volontà, loro che vantavano come massima facoltà del lavoratore di pelle bianca quella di vendere se stesso e scegliersi il padrone, non sono stati in grado di conquistare la vera libertà del lavoro, o di sostenere i loro fratelli europei nella loro lotta per l’emancipazione; ma questo ostacolo al progresso è stato spazzato via dal mare rosso della Guerra Civile.

I lavoratori di Europa sono certi che, come la Guerra d’Indipendenza americana ha avviato una nuova era di ascesa per la classe media, così la Guerra Antischiavista americana farà questo per le classi lavoratrici. Essi considerano questo conflitto un anticipo dell’epoca a venire, e Abraham Lincoln, questo onesto e risoluto figlio della classe operaia, è destinato a condurre il suo paese attraverso una lotta senza pari per la liberazione di una razza incatenata e per la ricostruzione di un mondo sociale.”

La lettera veniva puntualmente consegnata a Charles Francis Adams, Sr., nipote di John e figlio di John Quincy, che fin dall’inizio della guerra aveva ricoperto la delicata funzione di ambasciatore di Lincoln alla Court of St.James (la corte reale del Regno Unito di Gran Bretagna).

Adams era ben informato su Marx. Uomo di Greeley, che avrebbe condotto la campagna per la vicepresidenza nel 1872 per il cartello “liberal-repubblicano” guidato dall’editore, era stato il soggetto di infiammati resoconti di Marx sulla “Tribune” fin dal suo arrivo a Londra nel 1861.

Suo figlio e segretario privato, Henry, dopo aver partecipato ad “una riunione democratica e socialista” organizzata da Marx ed Engels, con entusiasmo aveva riferito a Washington che gli oratori avevano sottolineato “che i loro interessi e quelli dell’Unione americana coincidevano, che il successo di libere istituzioni in America era una questione politica con conseguenze profonde in Inghilterra, e che non avrebbero tollerato alcuna interferenza sfavorevole al Nord.”

Marx, Engels e i loro compagni sottolineavano come il pronipote di un Presidente americano e il nipote di un altro erano tra i migliori amici che Lincoln e la causa dell’Unione potevano vantare a Londra.

Adams senior spediva la lettera di Marx e dei leader della Prima Internazionale in un pacchetto di corrispondenza diplomatica che veniva consegnato al Dipartimento di Stato a Washington.

Il Segretario di Stato William Seward prontamente rispondeva che “questi documenti interessanti erano stati sottoposti all’attenzione del Presidente”.

Seward poi comunicava la risposta di Lincoln, che Adams a sua volta consegnava a Marx e ai suoi compagni.

Adams esordiva: “Sono incaricato di informarvi che il messaggio di indirizzo del Comitato Centrale della vostra Associazione, immediatamente trasmesso attraverso questa Legazione al Presidente degli Stati Uniti, è stato da lui ricevuto.”

Poi continuava:

“Per quanto i sentimenti espressi nel messaggio siano strettamente personali, sono accettati da lui con un sincero e impaziente desiderio di dimostrarsi non indegno della fiducia in lui recentemente riposta dai suoi concittadini e dai tanti amici dell’umanità e del progresso in tutto il mondo.

Il governo degli Stati Uniti ha una chiara coscienza che la sua politica non è e non può essere reazionaria, ma al tempo stesso aderisce alla linea che aveva adottato all’inizio, di astenersi ovunque dalla propaganda e dall’intervento illegale.

Si sforza di rendere giustizia, per tutti gli Stati e per tutti gli uomini, equanime e giusta, e confida sui risultati positivi di questo sforzo per ottenere appoggio in casa, e rispetto e la buona volontà in tutto il mondo.

Le Nazioni non esistono per se stesse, ma per promuovere il benessere e la felicità del genere umano attraverso un rapporto benevolo ed esemplare.

È in questa relazione che gli Stati Uniti inquadrano le loro ragioni nel conflitto in corso con gli schiavisti, ritengono la rivolta frutto dell’egoistica umana natura, e traggono nuovi incoraggiamenti a perseverare dalla testimonianza dei lavoratori di Europa che, con la loro approvazione illuminata e con la loro calorosa solidarietà, favoriscono questa attitudine nazionale.”

Marx era entusiasta per “il fatto che Lincoln ci ha risposto con tanta cortesia”, e che Lincoln palesasse il suo rifiuto di politiche “reazionarie” ed esprimesse solidarietà con “gli amici dell’umanità e del progresso in tutto il mondo.”

Non essendo uno sciocco, il filosofo riconosceva , come scrisse durante il conflitto, che “le principali azioni politiche di Lincoln contengono molto di esteticamente ripugnante, logicamente inadeguato, farsesco nella forma e politicamente contraddittorio.”

Marx non immaginava il Presidente come un rivoluzionario, per non parlare di un suo probabile reclutamento nell’Internazionale.

Piuttosto, era incline a credere, sulla base dei molti anni del suo impegno a seguire e commentare le lotte economiche e politiche negli Stati Uniti, che l’Americano commettesse errori a sinistra, ed egli era certo che “il posto di Lincoln nella storia degli Stati Uniti e dell’umanità, tuttavia, sarà accanto a quello di Washington!”.

Comunque, l’organizzatore che era in lui si compiaceva della larga diffusione dello scambio di messaggi tra l’Internazionale e la Casa Bianca di Lincoln, messo in grande evidenza sul Times di Londra, e su altri giornali inglesi e americani.

“La differenza tra le risposte di Lincoln a noi e alla borghesia [ai gruppi anti-schiavismo che anche avevano scritto al Presidente] ha creato una tale sensazione qui, che i ‘club’ del West End per questo stanno scuotendo la testa” così Marx informava Engels. “Tu puoi ben comprendere quanto gratificante sia stato tutto questo per la nostra gente.”

Nei decenni che seguirono l’assassinio di Lincoln, la storia del suo scambio di messaggi con la Prima Internazionale era ben nota e spesso raccontata.

Eugene Debs Victor avrebbe fermato il suo convoglio ferroviario per la sua campagna presidenziale del 1908 – “The Red Special, il Rosso Speciale” –, a Springfield per pronunciare un discorso celebrativo sulla tomba di Lincoln. Anni dopo, nel bel mezzo di un’altra campagna presidenziale, Debs avrebbe asserito che “il Partito Repubblicano una volta era rosso. Lincoln era un rivoluzionario.”

È innegabile che il Partito Repubblicano avesse nei suoi dati fondativi una vena di rosso.

E si può sostenere per certo che il primo Presidente del partito era un radicale; la sua grande lotta, che affondava le sue radici negli ideali della fondazione, era per “una rinascita della libertà”, che sarebbe stata giustamente caratterizzata dallo storico Charles Beard come la “Seconda Rivoluzione Americana , e in senso stretto, la Prima.”

Il conflitto, sosteneva Lincoln a Gettysburg, era stato intrapreso per dare un senso alla promessa fondante che “tutti gli uomini sono creati uguali”.

Questo non rendeva Lincoln un comunista, come alcuni dei revisionisti più esasperati degli anni Trenta del secolo scorso hanno immaginato.

L’uomo nel suo Discorso di Gettysburg aderiva in modo assoluto alle visioni dell’Illuminismo, per cui la nazione era sorta custode della fede in “quel continuo e coraggioso indagare e vagliare, da cui soltanto la verità può scaturire”, come ricorda da più di un secolo la lapide posta accanto alla grande statua di Lincoln sul ​​campus dell’Università del Wisconsin.

Lincoln non era un marxista, ma il primo Presidente repubblicano apparteneva ad un tempo in cui gli uomini come lui avevano familiarità con gli scritti di Marx e con gli atti dei circoli rivoluzionari che si erano diffusi dall’Europa agli Stati Uniti nel periodo successivo alle insurrezioni del 1848. Lui “indagava e vagliava” le idee radicali del suo tempo. Trovava la verità in concetti asserenti la superiorità del Lavoro sul Capitale, così come trovava importanti, a volte fondamentali, alleati tra i radicali che condividevano l’opinione che una aristocrazia del Sud in declino stava mettendo in scena non solo un’ultima difesa disperata della schiavitù, ma “in realtà, un conflitto contro i diritti di tutti i lavoratori.”

Un secolo dopo la morte di Lincoln, e appena cinque settimane prima del suo stesso assassinio, il reverendo Martin Luther King, Jr., avrebbe fatto presente la specifica connessione. Il commento di King veniva pronunciato ad una manifestazione per celebrare la vita di W.E.B. Du Bois, che era stata organizzata dalla rivista “Freedomways” alla Carnegie Hall.

Affrontando il problema del radicalismo di Du Bois, King utilizzava il discorso per sollecitare la rottura con il “terrore rosso”, sottolineando come ogni cosa ed ognuno associati al comunismo venissero demonizzati:

“Non possiamo parlare del dottor Du Bois, senza riconoscere che tutto era radicale nella sua vita. Alcune persone preferirebbero ignorare il fatto che nei suoi ultimi anni fosse diventato comunista. Vale la pena notare che Abraham Lincoln aveva accolto con grande favore l’appoggio di Karl Marx durante la Guerra Civile, e corrispondeva con lui in tutta libertà.

Nella vita contemporanea, il mondo di lingua inglese non ha difficoltà per il fatto che Sean O’Casey, un gigante della letteratura del XX secolo, fosse un comunista, o che Pablo Neruda venga generalmente considerato il più grande poeta [vivente], sebbene fosse stato eletto al Senato cileno nelle file comuniste. Ora, è tempo di cessare di porre sotto silenzio il fatto che il dottor Du Bois, un genio, avesse scelto di essere un comunista. Il nostro irrazionale ossessivo anti-comunismo ci ha portato in pantani così vischiosi, come se si trattasse di un modo di pensare scientifico.”

Mentre King offriva un correttivo all’insensata ripulsa nei confronti di socialisti, comunisti e di altri radicali, e di tutti coloro, inclusi alcuni Presidenti americani, che avevano potuto essere stati influenzati da quelle idee, è stato Du Bois, mezzo secolo prima, che aveva offerto su Lincoln il punto di vista più utile per coloro che ricercano un significato in ciò che ha contraddistinto un Presidente americano dalle mille sfumature e dalle molteplici sfaccettature.

Come prodotto del suo tempo, e dei grandi dibattiti che lo distinguevano, come studioso di linee di pensiero antiche e nuove, come Americano nato nelle ultime settimane della presidenza di Thomas Jefferson, quando forse era ancora possibile rilevare i bagliori evanescenti del Secolo dei Lumi, Abraham Lincoln aveva capito che le migliori risposte alle sfide della società si sarebbero riscontrate in “regioni finora inesplorate”.

È per questo che leggeva così tanto. È per questo che seguiva così da vicino, e con tanta passione, le lotte di libertà che avvenivano in terre tanto lontane. È per questo che aveva per amici tanti radicali, molti dei quali esuli dalle grandi rivoluzioni del 1848; ed è per questo che attingeva così largamente dalle loro proposte e piattaforme, anche se l’uomo Du Bois riconosceva che Lincoln, “grande abbastanza da essere contradditorio”, rifuggiva dall’abbracciarne una completamente.

Du Bois diceva di Lincoln: “Non ha sempre visto il giusto, al principio”. Ma, lo studioso sottolineava, il sedicesimo Presidente degli Stati Uniti manteneva una notevole “capacità di crescita”.

Era quest’ultima capacità che aveva portato Du Bois a suggerire agli Americani che avrebbero fatto bene a “prendere come modello Lincoln” e di emularne la sua apertura alle idee generate in quelle “regioni fino ad allora inesplorate” – una redazione di giornale a Colonia, una manifestazione a Springfield organizzata in solidarietà per un Ungherese rivoluzionario, una scuola del Wisconsin occupata da seguaci di Fourier e da riformatori per il diritto alla terra secondo “Vote Yourself a Farm” [con riferimento alle promesse del Partito Repubblicano di appoggiare una legge che garantisse la distribuzione di terreno gratuitamente ai coloni degli insediamenti dell’ovest], un circolo operaio a New York, una riunione a Londra della Prima Internazionale.

I Presidenti che scelgono di respingere persone, linee di pensiero e ideologie con cui non sono pienamente d’accordo escludono dalla loro agenda tante possibilità; così facendo servono male la Repubblica.

Ci sono momenti nell’arco della Storia di ogni nazione in cui le idee radicali sono molto più che semplicemente interessanti, avvincenti o forse inquietanti; queste idee sono le “novelle illuminazioni”, che rendono possibile e favoriscono “il benessere e la felicità del genere umano”. Jefferson, al meglio di sé, riconosceva questo. Paine, pure. E, sicuramente, Lincoln, quando osservava nelle ore più buie della sua presidenza:

“I ​​dogmi del passato tranquillo sono inadeguati al presente tempestoso. Le circostanze sono colme di difficoltà, e noi dobbiamo dimostrarci all’altezza della situazione. Tanto sono ricchi di novità gli avvenimenti che dobbiamo affrontare, così dobbiamo pensare in modo nuovo, e dobbiamo agire in modo nuovo. Dobbiamo disincantarci, e quindi salvare il nostro Paese.”

ISR International Socialist Review
Pubblicazione n. 79, settembre – ottobre 2011
http://www.isreview.org/issues/79/feature-marx-lincoln.shtml#top

di John Nichols

John Nichols scrive per “The Nation” e collabora anche a “The Progressive” e a “In These Times”. È autore di “The Genius of Impeachment” (The New Press), un’analisi elogiata dalla critica sulle vicende relative al contrasto generato in Florida, Stato determinante per l’elezione del presidente degli Stati Uniti nel 2000, dove fu necessario ricontare i voti, addirittura a mano (vinse Bush su Gore per 500 voti); di “The Death and Life of American Journalism”; di “Uprising: How Wisconsin Renewed the Politics of Protest, from Madison to Wall Street.”.

Di Nichols è anche la biografia di successo del vice Presidente Dick Cheney, “Dick: The Man Who is President” (The New Press).

L’articolo qui riportato è un capitolo del suo nuovo libro “The “S” Word: A Short History of an American Tradition…Socialism”, pubblicato nel 2011 dalle edizioni Verso Books.

(Traduzione di Curzio Bettio di Soccorso Popolare di Padova)

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