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Franca Rame, l’arte della solidarietà

Andare a teatro e imbattersi nei classici di Shakespeare, Pirandello, Svevo che insegnavano molto e facevano pensare o intrattenersi con le più vicine “Voci” di Eduardo era un rito che i ragazzi di certa periferia romana all’inizio dei Settanta facevano per dovere di partito (a sinistra c’era più attenzione), scuola (quelli del classico), empatia con taluni insegnanti che li guidavano.

Trovarsi sotto il tendone de “La Comune” piazzato a Quarticciolo, che della borgata mussoliniana conservava architettura scadente ed emarginante, era invece un’attrattiva da sogno. In quelle lande discriminate dai governi del dopoguerra che lo ricordavano solo come il luogo del “gobbo” arrivavano al massimo le macchine di giostrari romagnoli e lo sgarrupato “Circo Banana”, con animali che neanche Ligabue, il pittore, s’era mai sognato. Lì Dario Fo, lo spilungone che in tivù ci aveva fatto sorridere bambini e di cui crescendo avevamo saputo gli ostracismi Rai e l’impegno politico, con l’inseparabile Franca Rame ci presentavano un volto sconosciuto della recitazione. Parlavano di quello che leggevi sui fogli sovversivi, discutevi nei lotti coi compagni più grandi quando si raccoglievano le bollette per le vertenze collettive dell’autoriduzione.

“Pum, pum!! Chi è? la polizia!” quella delle stragi di Stato come ricordava la coppia sulla scena. E fra la rappresentazione che ci faceva anche liberatoriamente ridere e la tragica realtà fatta di galera, controinformazione, manifestazioni, e per i quattordicenni iniziazione a  scontri di piazza, si creava una fusione di vita-impegno-arte, quest’ultima vissuta anche come semplici spettatori. Per chi seguiva i laboratori teatrali nati nel vitalissimo ambiente fu scuola di altissima levatura. Quella che solo un po’ più tardi – quando del corpo ma non dello spirito di Franca chi ne odiava l’impegno aveva fatto scempio – il duo portò sul piccolo schermo. Era il “Mistero buffo” o una riedizione del “Settimo ruba un po’ di meno”. E quando i sovversivi con cui Franca e Dario dialogavano, e che sostenevano con sottoscrizioni del Soccorso Rosso, portavano su quelle panche massaie somiglianti alla sora Lella, queste capivano benissimo la trama perché il “Non si paga, non si paga” parlava di loro. Dei licenziamenti, come quelli subìti dai mariti al pastificio Pantanella, parlava dell’inflazione che “vor dì che nun poi fà ‘a spesa”, parlava dei problemi inconfessabili con cui le figlie dovevano fare i conti quando restavano incinte, costrette ai ferri delle mammane d’un Italia bacchettona che impediva l’assistenza sanitaria per l’interruzione delle gravidanze.  

Ecco perché il teatro della Rame (e di Fo, mai coppia fu un tutt’uno in una vita fatta d’arte e coscienza civile) era compreso dalla proletaria romana all’operaia di una Milano che in quegli anni ancora produceva. L’attualità anche di temi antichi, la passione, l’amore per la gente che cerca di emanciparsi dalla condizione servile voluta da vecchi e nuovi sovrani hanno per decenni rafforzato il canovaccio della sua spettacolare missione. 

*da Fanpage del 29 maggio 2013

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