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E’ morto Tommy, l’ultimo dei Ramones

Tommy Ramone è morto la notte dell’11 luglio a New York, in Italia già l’alba di oggi. Un cancro al fegato, questa la causa del decesso. Quasi non poteva essere altrimenti. Lui, ungherese di origine, nato con il nome di Tamás Erdélyi, cominciò a suonare la batteria perché nessun altro pareva in grado di farlo per i Ramones, e diceva di sé:  «Era fantastico per un ragazzo di ventuno anni andare al supermarket a comprare delle patate o gli ingredienti per un hamburger quando io, ad esempio, passavo il mio tempo a mangiare patatine fritte e droga».

Erano gli anni ’70. Morta l’utopia di Woodstock, passato il flower power, l’aria cominciava a riempirsi di elettricità. One-two-three-four, poi parte l’onda di distorsione. Tommy con i Ramones suonò la batteria nel trittico di dischi fondamentale, per il gruppo e per la storia del punk: Ramones, Leave Home e Rocket to Russia. Più il disco dal vivo It’s Alive. Con Joey, Johnny e Dee Dee ci mise pochi mesi a entrare nella leggenda newyorkese. La gioventù lisergica dell’epoca rimase conquistata, quasi stordita, da cose tipo i famosi «diciannove pezzi in diciassette minuti». Roba da pazzi per un mondo che veniva dalle pedanti e interminabili suite del progressive e dal virtuosismo come affermazione del proprio ego artistico. Loro no, i Ramones si nutrivano di tre accordi in croce, una batteria in perenne quattro quarti dritta sparata per tutto il tempo necessario. Per suonare punk, il chitarrista Johnny arrivò a inventarsi una tecnica che, più tardi, venne definita rivoluzionaria: il polso molle a passare e ripassare il plettro sulle corde amplificate.

Malgrado le evidenti lacune tecniche (comunque fortemente cercate) e la semplicità stilistica, i Ramones sono uno dei gruppi punk che godono di maggiore rispetto negli ambienti dei metallari, che sono soliti idolatrare i campioni dalle dita supersoniche capaci di sparare assoli alla velocità della luce. Nulla di più lontano dall’etica dei quattro finti fratelli di New York.

«I Ramones sono tutti di Forest Hills e i ragazzi che vengono di là diventano tutti musicisti, degenerati o dentisti. I Ramones sono un po’ tutte e tre le cose. Il loro suono non è molto diverso da quello di un trapano su un molare posteriore». Questa frase fu usata per promuovere uno dei loro primi lavori. A leggerla così, quasi quarant’anni dopo, appare come una profezia. I Sex Pistols erano la legalizzazione di una truffa a carte scoperte, i Ramones un chewingum appiccicato sotto la scarpa. Il fastidio cominciava ad andare di moda, contro la modernità che già allora logorava, il comfort e lo stile di vita agiato che soltanto oggi riconosciamo come suicidio.

Tommy, in verità, con gli altri membri del gruppo non ci andava troppo d’accordo. Vittima degli scherzi crudeli di Dee Dee, emarginato da Joey e Johnny. Sul furgone del tour il suo tempo lo passava per lo più a dormire, per stanchezza o perché distrutto dalle sostanze che assumeva. «Mi sembrava di impazzire», disse anni dopo riferendosi a quel periodo. E allora lasciò la band per mettersi a fare il produttore. Negli ultimi anni, insieme alla moglie Claudia Tienan si era dato al country. Capelli ancora lunghi ma barbetta bianca sulla faccia di ex butterato, un giubbotto di jeans al posto del chiodo d’ordinanza. Il segno dei tempi passati su un signore che si era stufato in tempo del «great rock’n’roll swindle» e si era chiamato fuori dalla luce dei riflettori, preferendo l’ombra degli studi di registrazione.

Ai quattro amati e odiati compagni, Tommy era riuscito a sopravvivere. Il triennio 2001-2004 è stato un’ecatombe per i Ramones: in sequenza sono morti Joey, Dee Dee e Johnny. Adesso è toccato a lui. Sul campo rimane «la seconda generazione», i batteristi Marky, Richie e Elvis e il bassista C.J.

Ma non sarà mai la stessa cosa. I primi Ramones incarnarono lo spirito di un’America post-tutto che nella Guerra Fredda cercava un angolo di liberazione. Dopo – con il successo e gli inevitabili riti dello show biz – tutto si era ridotto a un pugno di belle canzoni. Il punk non è mai stato «solo musica». Il punk è stato l’ultima avanguardia, il gusto estremo del nichilismo e della distruzione, il passare sopra i simboli e le convenzioni. Poi, secondariamente, un giro di accordi e qualche cresta.

Insieme a questo rimane il ritratto di quattro ragazzi un po’ disadattati, alti, magri, un po’ allucinati. I jeans lisi, gli occhiali scuri, lo sguardo da canaglie. Chi fa la rivoluzione, spesso, manco se ne rende conto. Poi riguarda certe foto e pensa che «sì, eravamo proprio forti».

We were a happy family.

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