Si è legata l’esplosivo alla vita
e si è fatta esplodere.
Non si tratta di morte, non si tratta di suicidio.
E’ il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
Da quattro anni, la carne di Gaza schizza schegge di granate da ogni direzione.
Non si tratta di magia, non si tratta di prodigio.
E’ l’arma con cui Gaza difende il diritto a restare e snerva il nemico.
Da quattro anni, il nemico esulta per aver coronato i propri sogni,
sedotto dal filtrare col tempo, eccetto a Gaza.
Perché Gaza è lontana dai suoi cari e attaccata ai suoi nemici,
perché Gaza è un’isola.
Ogni volta che esplode,
e non smette mai di farlo,
sfregia il volto del nemico,
spezza i suoi sogni
e ne interrompe l’idillio con il tempo.
Perché il tempo a Gaza è un’altra cosa,
perché il tempo a Gaza non è un elemento neutrale.
Non spinge la gente alla fredda contemplazione,
ma piuttosto a esplodere e a cozzare contro la realtà.
Il tempo laggiù non porta i bambini
dall’infanzia immediatamente alla vecchiaia,
ma li rende uomini al primo incontro con il nemico.
Il tempo a Gaza non è relax,
ma un assalto di calura cocente.
Perché i valori a Gaza sono diversi,
completamente diversi.
L’unico valore di chi vive sotto occupazione
è il grado di resistenza all’occupante.
Questa è l’unica competizione in corso laggiù.
E Gaza è dedita all’esercizio
di questo insigne e crudele valore
che non ha imparato dai libri
o dai corsi accelerati per corrispondenza,
né dalle fanfare spiegate della propaganda
o dalle canzoni patriottiche.
L’ha imparato soltanto dall’esperienza
e dal duro lavoro
che non è svolto in funzione della pubblicità
o del ritorno d’immagine.
Gaza non si vanta delle sue armi,
né del suo spirito rivoluzionario,
né del suo bilancio.
Lei offre la sua pellaccia dura,
agisce di spontanea volontà
e offre il suo sangue.
Gaza non è un fine oratore,
non ha gola.
E’ la sua pelle a parlare
attraverso il sangue, il sudore, le fiamme.
Per questo, il nemico la odia fino alla morte,
la teme fino al punto di commettere crimini
e cerca di affogarla
nel mare, nel deserto, nel sangue.
Per questo, gli amici e i suoi cari la amano
con un pudore che sfiora quasi la gelosia
e talvolta la paura,
perché Gaza è barbara lezione
e luminoso esempio
sia per i nemici che per gli amici.
Gaza non è la città più bella.
Il suo litorale non è più blu di quello di altre città arabe.
Le sue arance non sono le migliori del bacino del Mediterraneo.
Gaza non è la città più ricca.
(Pesce, arance, sabbia,
tende abbandonate al vento,
merce di contrabbando,
braccia a noleggio.)
Non è la città più raffinata,
né la più grande,
ma equivale alla storia di una nazione.
Perché, agli occhi dei nemici,
è la più ripugnante,
la più povera,
la più disgraziata,
la più feroce di tutti noi.
Perché è la più abile a guastare l’umore
e il riposo del nemico
ed è il suo incubo.
Perché è arance esplosive,
bambini senza infanzia,
vecchi senza vecchiaia,
donne senza desideri.
Proprio perché è tutte queste cose,
lei è la più bella,
la più pura,
la più ricca,
la più degna d’amore tra tutti noi.
Facciamo torto a Gaza quando cerchiamo le sue poesie.
Non sfiguriamone la bellezza
che risiede nel suo essere priva di poesia.
Al contrario, noi abbiamo cercato
di sconfiggere il nemico con le poesie,
abbiamo creduto in noi
e ci siamo rallegrati vedendo
che il nemico ci lasciava cantare
e noi lo lasciavamo vincere.
Nel mentre che le poesie
si seccavano sulle nostre labbra,
il nemico aveva già finito
di costruire strade, città, fortificazioni.
Facciamo torto a Gaza
quando la trasformiamo in un mito
perché potremmo odiarla
scoprendo che non è niente più
di una piccola e povera città
che resiste.
Quando ci chiediamo cos’è che l’ha resa un mito,
dovremmo mandare in pezzi tutti i nostri specchi
e piangere
se avessimo un po’ di dignità,
o dovremmo maledirla
se rifiutassimo di ribellarci contro noi stessi.
Faremmo torto a Gaza
se la glorificassimo.
Perché la nostra fascinazione per lei ci porterà ad aspettarla.
Ma Gaza non verrà da noi,
non ci libererà.
Non ha cavalleria,
né aeronautica,
né bacchetta magica,
né uffici di rappresentanza nelle capitali straniere.
In un colpo solo, Gaza si scrolla di dosso i nostri attributi,
la nostra lingua e i suoi invasori.
Se la incontrassimo in sogno
forse non ci riconoscerebbe,
perché lei ha natali di fuoco
e noi natali d’attesa
e di pianti per le case perdute.
Vero, Gaza ha circostanze particolari
e tradizioni rivoluzionarie particolari.
(Diciamo così non per giustificarci, ma per liberarcene.)
Ma il suo segreto non è un mistero:
la sua coesa resistenza popolare sa benissimo cosa vuole
(vuole scrollarsi il nemico di dosso).
A Gaza il rapporto della resistenza con le masse
è lo stesso della pelle con l’osso
e non quello dell’insegnante con gli allievi.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in una professione.
La resistenza a Gaza non si è trasformata in un’istituzione.
Non ha accettato ordini da nessuno,
non ha affidato il proprio destino alla firma
né al marchio di nessuno.
Non le importa affatto se ne conosciamo o meno il nome,
l’immagine, l’eloquenza.
Non ha mai creduto di essere fotogenica,
né tantomeno di essere un evento mediatico.
Non si è mai messa in posa davanti alle telecamere
sfoderando un sorriso stampato.
Lei non vuole questo,
noi nemmeno.
La ferita di Gaza non è stata trasformata in pulpito per le prediche.
La cosa bella di Gaza è che noi non ne parliamo molto,
né incensiamo i suoi sogni
con la fragranza femminile delle nostre canzoni.
Per questo Gaza sarà un pessimo affare per gli allibratori.
Per questo, sarà un tesoro etico e morale
inestimabile per tutti gli arabi.
La cosa bella di Gaza è che le nostre voci non la raggiungono,
niente la distoglie.
Niente allontana il suo pugno dalla faccia del nemico.
Né il modo di spartire le poltrone del Consiglio Nazionale,
né la forma di governo palestinese
che fonderemo dalla parte est della Luna
o nella parte ovest di Marte,
quando sarà completamente esplorato.
Niente la distoglie.
E’ dedita al dissenso:
fame e dissenso,
sete e dissenso,
diaspora e dissenso,
tortura e dissenso,
assedio e dissenso,
morte e dissenso.
I nemici possono avere la meglio su Gaza.
(Il mare grosso può avere la meglio su una piccola isola.)
Possono tagliarle tutti gli alberi.
Possono spezzarle le ossa.
Possono piantare carri armati
nelle budella delle sue donne e dei suoi bambini.
Possono gettarla a mare, nella sabbia o nel sangue.
Ma lei:
non ripeterà le bugie.
Non dirà sì agli invasori.
Continuerà a farsi esplodere.
Non si tratta di morte,
non si tratta di suicidio.
Ma è il modo in cui Gaza dichiara che merita di vivere.
* Silenzio per Gaza di Mahmoud Darwish 1973
La versione inglese: .
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