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È morto Renato Solmi

Della morte di Renato Solmi, avvenuta ieri a Torino, hanno parlato le pagine culturali dei principali quotidiani italiani. Sarebbe stato d’altronde impossibile che ciò non avvenisse, visto il ruolo centrale dello studioso nella storia della cultura e dell’editoria del nostro paese dal dopoguerra in poi.

Tra i tanti articoli di oggi – e in attesa di un lavoro critico e scientifico sulla sua opera di pensatore, saggista, traduttore e militante politico – a spiccare è il puntuale e acuto ricordo scritto da Luca Lenzini, direttore del Centro Studi Franco Fortini di Siena, apparso oggi sul manifesto (http://ilmanifesto.info/renato-solmi-lelegante-stile-critico-che-si-fa-militanza/). 

Per quali ragioni ricordare Solmi in un quotidiano politico come Contropiano? Senza avventurarci in interpretazioni e ipotesi sulla sua opera che rimandiamo a un lavoro meno estemporaneo, ce ne vengono in mente tre: 

1)      A Solmi dobbiamo la traduzione in italiano – fra le sue tante traduzioni di Lukács, Brecht, Marcuse, Baran, Horkheimer, Gunther Anders – di due opere fondamentali del pensiero filosofico novecentesco: Angelus Novus di Walter Benjamin e Minima moralia di T.W. Adorno. Due autentiche bombe nel panorama culturale italiano degli anni ’50, due potenti sferzate allo storicismo allora dominante;

2)      Di Solmi ricordiamo la coraggiosa e ferma posizione, fino all’allontanamento dalla casa editrice per lui e per il sodale Raniero Panzieri, ai tempi del rifiuto della Einaudi di pubblicare il volume di Goffredo Fofi su L’immigrazione meridionale a Torino nel 1964;

3)      Renato Solmi resta l’esempio di un intellettuale non avulso dalle dinamiche politiche, coerente fino a pagare con la marginalità dai circuiti pseudoculturali o di potere la sua saldezza morale, insegnante per più di vent’anni nei licei torinesi e partecipe analista dei movimenti di contestazione nella scuola; 

Dopo di lui, nei decenni successivi, nella “Dialettica negativa” e tra gli “Angeli della Storia” in troppi si sono perduti, piegando la carica emancipatoria di quelle filosofie in confortevoli dimore nel “Grand Hotel Abisso” di cui parlava Lukács. Solmi, pur riconoscendo in Adorno il suo grande maestro, ha sempre mantenuto un saldo riferimento hegeliano e lucaksiano, ed ha soprattutto sempre tentato di non perdere il contatto con il movimento reale, anche su strade che non sono quelle seguite da questo giornale, ma piene di storia e di dignità, come quella del grande filone del movimento antinucleare e pacifista.

Che l’opera di Solmi sia parte del movimento politico e culturale della Nuova sinistra che rompe con la cultura del PCI e del sindacato storico non v’è dubbio. Non si spiegherebbe altrimenti lo scontro su cui si è detto a proposito del libro di Fofi, che rimandava anche ad una nuova tipologia di lavoratore che spezzava le logiche sviluppiste e di compatibilità che erano ormai tipiche della CGIL e del sindacato storico, nella Torino degli anni ‘60. 

Un esempio di serietà, di reale disponibilità al dialogo, di atteggiamento filosoficamente volto alla ricerca della verità.

È di questa lezione – di cui parla Lenzini nell’articolo di cui parlavamo in apertura e da cui citiamo ora – «nel nostro tempo di filo­sofi da festi­val e micro­spe­cia­li­sti, segnato dal conformi­smo (non meno tale per vestirsi di pro­vo­ca­zione moda­iola o da lezione di disin­canto), che c’è biso­gno, ora che lui ci ha lasciato».

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