“La rivolta del riso”, a cura di Renato Curcio, si inserisce nella scia dei precedenti lavori pubblicati da “Sensibili alle foglie”, cooperativa di produzione e lavoro, che analizza i dispositivi totalizzanti all’opera nelle associazioni, nei luoghi di lavoro e nelle istituzioni.
Il libro in oggetto si occupa dei lavoratori del Terzo Settore, il cosiddetto settore sociale; sono esaminate direttamente le esperienze lavorative di alcuni educatori che hanno partecipato ad un Cantiere sociale sul tema e hanno raccontato le proprie storie, riportate nel libro.
Renato Curcio con la consueta maestria analitica e narrativa, puntualizza i passaggi cruciali e svela i nodi critici comuni alle diverse esperienze.
Anche gli addetti ai lavori, gli operai sociali come molti si definiscono, ignorano spesso le basi storiche che hanno portato alla nascita di questo mestiere.
Il contesto è quello della rivolta nei confronti del sistema politico ed economico, che si snoda lungo l’arco di tutti gli anni Settanta. Il lavoro sociale cioè era una risposta al sistema capitalistico, al disagio individuale creato da uno Stato che ignorava i reali bisogni delle persone.
Oggi questo orizzonte contestatario è completamente scomparso. Il problema per le istituzioni è spendere poco e risparmiare il più possibile. D’altronde gli utenti, le persone oggetto-soggetto d’intervento sociale, sono extracomunitari, minori in difficoltà, diversamente abili, ex-carcerati, tossicodipendenti. Molte sono le etichette incollate addosso a questi individui e spesso variano in base all’istituzione che li prende in carico. Certamente, sottolinea Curcio, non sono potenziali consumatori e perciò non meritano un serio intervento di cura e aiuto. La conseguenza inevitabile è l’affidamento del Terzo Settore a una serie di soggetti, Onlus, Cooperative, Fondazioni e altre, vere e proprie Imprese Sociali che fanno risparmiare denaro alle istituzioni pubbliche e offrono servizi scadenti agli utenti.
In questo panorama desolante, i lavoratori del sociale si ritrovano con contratti precari di ogni tipo e salari miseri. Nello stesso tempo però, chi li assume, fa leva sulla mission valoriale che sta alla base del lavoro sociale. Il ricatto sul piano morale è becero: in altre parole non si possono avanzare richieste economiche altrimenti oltre a perdere il lavoro, si metterebbero a rischio le vite delle persone di cui ci si occupa.
Oltre alle difficoltà economiche, il nodo vero è quello della dissociazione identitaria in cui spesso incorre il lavoratore. Che da un lato deve rispondere alle richieste dell’Impresa sociale che lo assume, dall’altro a quelle dell’istituzione in cui opera, che può essere una scuola o una struttura pubblica o privata. Inoltre l’operatore si scontra, da solo, con il malessere delle persone a lui affidate che spesso vengono considerati clienti d’impresa più che utenti di un servizio. In questa cornice problematica, ciascun educatore ha le proprie convinzioni personali e politiche che difficilmente si armonizzano con le differenti richieste di cui è oggetto.
È a questo punto che può scattare una dissociazione identitaria che porta ad un adattamento mimetico alla situazione in cui si opera, a una rottura definitiva oppure alla ricerca di nuove strategie per combattere questo stato di cose.
Oggi gli operatori vengono assunti con la mansione neppure troppo nascosta, di agire da controllori sociali; devono contenere il disagio, assimilarlo al sistema sociale costituito. Il lavoro che era di cura, aiuto e scambio attivo di esperienze in una cornice di “complicità creativa”, ha subito una trasformazione radicale e peggiorativa. Questo declassamento di ruolo lavorativo ha portato inevitabilmente al peggioramento economico di cui si parlava. Siamo nell’ambito del Lavoro-Non lavoro di cui si è occupato il curatore del libro in un precedente lavoro.
Questo libro offre esempi concreti per ribaltare in modo creativo l’esistente e acquisire maggiore consapevolezza. Analizzando la situazione attuale, indica possibilità e ipotesi ma soprattutto afferma che è arrivato il momento di conoscersi e riconoscersi come lavoratori che, pur nella disparità territoriale ed economica, fanno parte di una reale “Comunità di Condizione”, riconducibile a un insieme di caratteristiche unitarie.
Se comune è la condizione di sfruttamento, comune deve essere la prospettiva di cambiamento.
* radiomachete.org
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