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Cronache dal Messico dei cartelli della droga

Soy el jefe de jefes señores
me respetan a todos niveles
y mi nombre y mi fotografía
nunca van a mirar en papeles
porque a mí el periodista me quiere
y si no mi amistad se la pierde. 

Sono il capo dei capi signori
mi rispettano a tuti i livelli
e il mio nome e la mia foto
non li vedrete mai sui giornali
perché i giornalisti mi vogliono bene
e se no la mia amicizia se la perdono.

Dal corrido Jefe de jefes dei Tigres del Norte.

Introduzione del libro NarcoGuerra. Cronache dal Messico dei Cartelli della Droga di Fabrizio Lorusso.

Il Messico è tornato al centro delle cronache dopo mesi di relativo silenzio della stampa internazionale. La scomparsa dei 43 studenti della scuola rurale “Isidro Burgos” di Ayotzinapa, sequestrati dalla polizia locale di Iguala la notte del 26 settembre 2014, consegnati a una banda di narcotrafficanti e a oggi ancora desaparecidos, ha fatto il giro del mondo, scatenando proteste, commozione e reazioni a catena che non sembrano volersi arrestare. Si tratta di un crimine di cui sono responsabili, tra gli altri, vari funzionari pubblici e le forze dell’ordine a vari livelli, per cui il “caso Ayotzinapa” ha rivelato le trame più indignanti della narco-politica e di quello che numerosi opinionisti hanno (ri)cominciato a definire “narco-stato” o “stato-fallito”. 

La vicenda, che è solo la punta di un iceberg, è riuscita a rompere la nube fumogena dei mass media che intossicava l’opinione pubblica globale con la retorica del Paese emergente che ha dimenticato la violenza dei narcos e s’avvia sulla strada delle riforme. Il meridionale stato messicano del Guerrero, con la sua estrema povertà, con la città di Acapulco in preda alla violenza, coi suoi territori dominati da bande criminali e politici corrotti, da coltivazioni di papa- vero da oppio e marijuana, è diventato l’esempio più fresco e lampante di una realtà che interessa l’intero Paese. La lotta del gruppo dei genitori di Ayotzinapa, imperterriti e determinati a ritrovare i propri figli e a costringere l’intera classe politica a offrire una verità credibile su quanto accaduto, ma soprattutto ad assumersi le proprie responsabilità, ha spezzato le proiezioni idilliache di un futuro di prosperità, ordine e progresso propalate dal governo nei primi mesi della sua gestione. Gli interventi e le denunce dei genitori di Ayotzinapa alla riunione dell’Onu di Ginevra nel febbraio 2015, in cui ufficialmente le autorità messicane erano chiamate a presentare la loro versione dei fatti, e la carovana dei familiari delle vittime che percorre l’Europa in primavera sono lì a ricordarci la realtà. Infatti da un paio d’anni, nel Messico dei cartelli della droga, non si vedono più teste mozzate e corpi decapitati agli angoli delle strade. 

I quotidiani nazionali e i rotocalchi scandalistici non li mettono più in prima pagina e non sono più invasi dalle notizie di attentati alle stazioni di polizia o dalle foto di corpi mutilati. Le edicole hanno smesso di esporle ogni giorno nelle loro vetrine, macabramente, come facevano prima. Sono quasi sparite le note sugli spioni assassinati dai narcos e ritratti senza lingua, con mazzette di banconote in bocca, da reporter ormai avvezzi all’odore del sangue. Non si riproducono più “viralmente”, in ogni luogo fisico e virtuale, le immagini dei narco-striscioni che i trafficanti appendono ai cavalcavia, proprio accanto alle loro vittime, per mandare messaggi inquietanti: “Così imparate a rispettare” o “Ecco cosa capita ai traditori”. 

Anche la radio e la televisione sembrano più sobrie, meno narcotizzate dalla violenza. Il governo non riempie le menti e lo spazio con i suoi spot bellicisti. Tuttavia, la narcoguerra in terra azteca non è finita: l’inferno incendia ancora il territorio, le città e le vite di milioni di cittadini. Semplicemente se ne parla di meno, e meno si scorgono in superficie le istantanee scattate nelle profondità degli inferi, nel Messico narco e sotterraneo del conflitto armato. Nell’ultimo anno le decine di fosse clandestine piene di ossa e resti umani ritrovate dai genitori dei desaparecidos e dagli esperti della procura nel Guerrero e in tante altre regioni sono state solo un assaggio dell’inferno, della morte, della riemersione della verità di fronte alle telecamere. 

Sono stati più di ottantamila i morti e circa sedicimila i desaparecidos nei sei anni che vanno dalla “dichiarazione di guerra” al narcotraffico dell’ex presidente Felipe Calderón, pronunciata l’11 dicembre 2006, alla fine del suo mandato nel novembre 2012. E poi ci sono almeno altre ventimila vittime e diecimila desaparecidos dal 1° dicembre 2012, data dell’insediamento dell’attuale presidente Enrique Peña Nieto, a fine 2014. La cifra totale supera i centomila morti in otto anni e mezzo di conflitto, ma i calcoli della stampa specializzata, basati sul raffronto di più fonti ufficiali, parlano di una tragedia umanitaria ancor più grande. 

NarcoGuerra è un mosaico i cui tasselli sono reportage, interviste, analisi e articoli pubblicati negli ultimi otto anni e poi ripuliti, aggiornati e affinati, secondo uno stile giornalistico, saggistico e, in parte, narrativo, per cercare di comporre il quadro della guerra messicana contro i cartelli della droga. L’immagine che ne risulta non è completa, né ha la pretesa di spiegare tutte le vicende di cronaca, le conseguenze e i dibattiti che caratterizzano la guerra ai narcos in Messico. Si tratta piuttosto di una serie di cronache, analisi, testimonianze e considerazioni che, da un punto d’osservazione privilegiato come la capitale messicana, città in cui vivo da oltre tredici anni, offrono alcuni spaccati dell’evoluzione della narcoguerra, delle reazioni e dei movimenti sociali che ha generato e del Paese in generale, tra il 2006 e il 2015, quindi a quasi tre anni dall’inizio del mandato di Peña Nieto. L’attuale presidente ha abbandonato la retorica bellicista del suo predecessore, ma ha modificato poco la strategia di sicurezza e lotta alle mafie. Queste sono sempre più confuse con gli apparati dello stato che operano con metodi criminali e a volte finiscono per incorporarsi alla criminalità organizzata. Il temibile cartello degli Zetas, per esempio, è formato da ex militari. L’offensiva militare selettiva, orientata a seguire le emergenze e a spegnere gli incendi che scoppiano in serie da una regione all’altra, non è accompagnata da un recupero dello stato di diritto e delle opportunità per la popolazione, ma da rapide “pacificazioni” che fanno pensare, più che altro, a nuovi patti e negoziazioni condotti zona per zona con quei gruppi criminali che possono garantire un accettabile livello di stabilità e di controllo della violenza. 

La militarizzazione dei territori, la diffusione della paura, della morte e della paranoia, la normalizzazione e mediatizzazione della violenza, le viola- zioni dei diritti umani, i cosiddetti “effetti collaterali” della guerra sono tutti problemi che in questi anni hanno toccato messicani e stranieri, conoscitori ed esploratori, critici e amanti di questo Paese, mentre la maggioranza dei turisti, sempre in aumento, poteva passare da un’isola di pace all’altra, da una spiaggia a un resort, da un paesino coloniale a un sito archeologico senza accorgersi di nulla. Anche gli investimenti stranieri sono cresciuti. Si sono estese le macchie dei narco-territori, dell’impunità, della corruzione, dell’insicurezza umana, delle piantagioni di mota (marijuana in spagnolo) e dei vuoti di potere colmati dalla criminalità organizzata, e si sono ristretti i margini d’azione degli apparati ancora sani e della società civile organizzata. 

L’assenza dello stato o la sua cooptazione da parte di altri “poteri forti”, siano essi il duopolio televisivo di TeleVisa e tv Azteca, i grandi gruppi imprenditoriali, l’hard power della potenza statunitense, le multinazionali o i narcos, sono una costante della storia messicana. Ma dopo quasi nove anni di conflitto questo stato di deterioramento sta propiziando la nascita di nuovi gruppi armati, che insorgono per l’autodifesa di famiglie, proprietà, città e intere regioni dai narcotrafficanti, soprattutto nello stato del Michoacán e nel Guerrero. Le polizie comunitarie esistevano già in molte aree del Paese e sono regolate da alcune norme nazionali, ma le autodefensas sono un fenomeno nuovo, complesso e ancora in evoluzione, che senza dubbio è uno dei tanti effetti della narcoguerra nelle zone più abbandonate dalle istituzioni e ad alta “intensità mafiosa”. I vuoti di stato sono occupati dai narcos o dal popolo in armi. 

I testi di questo libro raccontano il Messico, la sua politica, la sua gente e una parte della sua storia. Cercano di confrontare i dati crudi sulla realtà sociale del Paese, i grandi eventi politici, la visione dei protagonisti e dei mass media nazionali e internazionali con quella delle vittime, dei movimenti sociali in resistenza e di quella popolazione senza voce e rappresentanza che ha sofferto maggiormente la guerra ma, al contempo, ha saputo reagire attraverso la protesta, lo sforzo per offrire versioni, prospettive e vie d’uscita dal conflitto, la ribellione all’impotenza e alla dissoluzione del tessuto sociale. Dunque è interessante conoscere la storia dei boss degli Zetas o del “Chapo” Guzmán, capo dei capi catturato il 22 febbraio 2014, ma anche quella dei genitori dei desaparecidos che sono alla ricerca di risposte, speranze e responsabili. Malgrado la repressione e le difficoltà di unire esigenze molto differenti tra loro, sono cresciuti i fronti comuni tra i movimenti per la pace e il rispetto dei diritti umani, come quello creato intorno alla figura del poeta Javier Sicilia nel 2011, e quelli studenteschi, indigeni, autonomi e sindacali, come il #YoSoy132, i difensori delle terre indigene di Wirikuta, gli insegnanti dissidenti di Oaxaca, i genitori di Ayotzinapa, gli zapatisti del Chiapas e del mondo. 

Il cosiddetto “risveglio” dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale (EZLN) avviene il 21 dicembre 2012, un giorno prima della data in cui si ricorda la mattanza paramilitare di Acteal dove, nel 1997, furono massacrati 45 indigeni tzotziles dell’organizzazione vicina ai neozapatisti “Las Abejas”. Ma in realtà non è un risveglio, quanto la continuazione di attività trentennali di costruzione dell’autonomia e una nuova spinta a riallacciare le loro reti dentro e fuori dal Messico. Il 22 dicembre 2012 le basi zapatiste promuovono una marcia silenziosa di quarantamila indigeni in Chiapas, seguita dalla pubblicazione di alcuni nuovi comunicati del Subcomandante Marcos e dall’esperienza delle escuelitas nell’agosto e nel dicembre 2013. Sono momenti di solidarietà, insegnamento, scambio e accoglienza in cui le basi d’appoggio zapatiste ricevono nelle comunità autonome, i caracoles, attivisti da tutto il mondo. Ciononostante, proprio nel 2013 e 2014, si sono moltiplicati gli attacchi di tipo paramilitare contro le basi zapatiste e il loro progetto autonomo, per cui non cessa lo stato d’allerta nelle comunità. Il 24 maggio 2014 il Subcomandante Marcos, uno dei volti storici più noti dell’ezln, annuncia la sua morte come personaggio pubblico e l’avvenuto ricambio generazionale, di classe, di etnia e di pensiero all’interno del movimento. 

Il 31 dicembre gli zapatisti accolgono nella comunità di Oventic i genitori dei desaparecidos di Ayotzinapa e cedono loro la parola durante il primo Festival de las Resistencias y las Rebeldías, cui partecipano migliaia di militanti, collettivi e simpatizzanti di oltre venticinque paesi. La fabbrica dei colpevoli e le perversioni del sistema giudiziario spiegano ingiustizie e impunità, disegnano lo sfondo della guerra e colpiscono stranieri, come Florence Cassez, e messicani, come “El Profe” Alberto Patishtán, maestro indigeno tzotzil, vittima di abusi eclatanti come tanti altri indigeni, come tanti altri militanti. Gli attacchi a giornalisti e blogger sono all’ordine del giorno e hanno lasciato un saldo di 103 vittime e 25 sparizioni negli ultimi quindici anni, secondo la ONG Article 19 e la stessa procura della Repubblica. Ormai da un decennio il Paese figura tra i più pericolosi al mondo per l’esercizio della professione giornalistica, in compagnia di Iraq e Afghanistan. Ciononostante, si moltiplica l’informazione di prima mano disponibile in rete, postata a rischio e pericolo di cyber-giornalisti e cittadini, mentre scompare progressivamente da quotidiani e tv. 

I narco-blog dal contenido cruento, senza alcuna censura, fioriscono e hanno milioni di visite al mese, ma chi li gestisce è obbligato all’anonimato, alla fuga continua o all’esilio per non essere ucciso. Le elezioni politiche del 2012 hanno consegnato il Paese nelle mani dell’ex partito egemonico, al governo per più di settant’anni nel Novecento: il PRI (Partido Revolucionario Institucional). Il presidente “televisivo” Peña Nieto, grazie alle “larghe intese” politiche con gli altri grandi partiti, siglate con la firma del “Pacto por México”, ha avviato con procedure fast track un piano ambizioso di riforme costituzionali, dette “strutturali”, sui temi del lavoro, dell’energia, delle telecomunicazioni, dell’istruzione, dell’assetto politico ed elettorale, del fisco e della giustizia. La strategia militare di lotta al narcotraffico e l’alleanza-dipendenza con gli Stati Uniti, però, non sono cambiate. 

In questo contesto, emergono nuovi santi popolari e credenze spirituali, mistiche o esoteriche. Jesús Malverde, una specie di leggendario Robin Hood dello stato settentrionale del Sinaloa, il cattolico santo delle cause disperate San Judas Tadeo e la Santa Muerte spopolano, proteggono, fanno miracoli e aiutano la gente comune e i politici, i marginali e i potenti. Culto e potere s’in- trecciano da sempre, ma in Messico il legame prende le forme della tradizione precolombiana e della stregoneria, della superstizione e delle pratiche sciamaniche ed esoteriche. La Santa Muerte, identificata dai media come la “Narco-Santa”, è in realtà la patrona dei dimenticati, dei poveri, dei ghetti, delle classi sociali marginali e, in generale, di chi vive l’insicurezza e la precarietà quotidianamente. Ormai ha cinque, forse dieci, milioni di fedeli in tutto il mondo e forma parte dell’immaginario e della mitologia della cosiddetta narcocultura.
NarcoGuerra non parla solo di Messico. Fa alcune incursioni anche in altri territori, dagli Stati Uniti all’America centrale, dalla Colombia al Sud America e all’Europa. Infatti, non ha più senso, oggi, parlare di conflitti squisitamente locali, soprattutto per quanto riguarda una guerra alle droghe che coinvolge tanto il continente americano quanto il resto del mondo. I traffici illeciti di stupefacenti, armi e persone sono globali come il loro uso o consumo e i benefici che generano. Globali sono anche i flussi finanziari, migratori e ideologici, così come le conseguenze delle politiche di sicurezza statunitensi, spesso imposte agli altri paesi con risultati discutibili, se non disastrosi. Le implicazioni di quello che chiamo il “capitolo messicano” della guerra globale e ipocrita contro le droghe raggiungono quindi tutti gli angoli della Terra. La sua giustificazione ideologica, i buoni motivi della crociata, rimbalzano di casa in casa sugli schermi da New York a Milano, passando per Ciudad Juárez e Bogotá. 

La battaglia contro le droghe rappresenta un affare sostanzioso per gli usa ma non per i paesi che ne sopportano il peso sociale, umano ed economico: la droga a nord e i morti a sud. Le armi americane invadono il mercato e in America Latina finiscono in mano a narcos, poliziotti, gruppi di autodefensa e para- militari. La War on Drugs, lanciata da Nixon nel 1971 e ripresa da tutti i suoi successori alla Casa Bianca, è un potente discorso di legittimazione e uno strumento ricorrente nella politica estera statunitense, specialmente nei confronti del Latinoamerica, e da quasi mezzo secolo serve a giustificare azioni d’ingerenza politica, diplomatica, militare ed economica. È l’hard power della cocaina legato al soft power di Breaking Bad. Reminiscenze della dottrina di sicurezza nazionale, proibizionismo, focus sull’offerta e non sulla domanda, repressione interna ed esterna, asimmetrie e ambigui piani di cooperazione, completano il quadro continentale. I contorni e i dettagli del mosaico della narcoguerra sono oggi più nitidi, nonostante la cortina di fumo e silenzio innalzata dai mass me- dia mainstream, intenti ad accompagnare gli sforzi del governo messicano per riorientare l’agenda interna e l’immagine del Paese all’estero.

Le riforme strutturali sono profonde come la narcoguerra che continua, senza tregua, mentre la società messicana urla di rabbia, di dolore, di ribellione. Dal fondazionale grido dei neozapatisti, che col loro ¡Ya basta! del 1994 hanno scosso il mondo, agli attuali ¡Fue el Estado! e ¡Vivos se los llevaron, vivos los queremos! dei genitori e del movimento di Ayotzinapa, la storia degli ultimi vent’anni in Messico è segnata dalle grida e dalle lotte che si susseguono per un futuro di speranza e dignità. Il libro NarcoGuerra nasce come racconto, ricerca e reportage su un paese e la sua gente a cui sono molto legato. Vivo da 13 anni in Messico, proprio per questo motivo il testo ha un tono critico, a tratti battagliero e forse sofferto. Cerca di descrivere la realtà così com’è, missione ardua a cui la scrittura può solo contribuire un po’, forse, e prova a restituire ai lettori voci e storie del Messico profondo.

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