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Youth. La grande vecchiaia di Sorrentino

A due anni esatti dall’uscita del fortunatissimo «La Grande Bellezza», il premio Oscar Paolo Sorrentino torna in sala con «Youth», che del film con Tony Servillo sembra un po’ un sequel, se non addirittura un rilancio in vista del prossimo capitolo.
Il cinema del regista napoletano, d’altra parte, ha sempre ambito ad essere un continuum di temi e di elementi: impossibile non vedere una parabola sul concetto di crepuscolo artistico che parte dallo Sean Penn di «This must be the place» ed arriva a quest’ultima fatica ambientata tra le Alpi svizzere, in un albergo di lusso popolato da stelle del cinema, della musica, modelle e anziani in odor di nobiltà, passati e usati, raggrinziti, stanchissimi e un po’ disperati, molto malinconici nella loro ricerca di una giovinezza passata per l’anagrafe ma (forse) ancora possibile altrove.
Due punti cardinali: «Otto e mezzo» di Fellini (ampiamente omaggiato) e «La montagna incantata». Qualche scena memorabile: un Maradona grande obeso che gira con il respiratore e ha ancora un mancino che lèvati, e la sinfonia dei campi con le campane delle mucche, gli uccelli in volo e il vento che passa tra gli alberi: un passaggio quasi lirico che da solo vale il prezzo del biglietto.
«Youth» è la storia di un grande direttore d’orchestra (Michael Cane) e di un grande regista (Harvey Keitel), il primo impegnato ad andare in pensione (con tanto di gran rifiuto iniziale alla regina Elisabetta che lo voleva per un concerto a Buckingham Palace), il secondo al lavoro con una squadra improbabile di sceneggiatori per buttare giù il proprio testamento artistico, che sin dall’inizio puzza di passaggio a vuoto. In mezzo c’è una nevrotica Rachel Weisz, scaricata da un marito che aveva trovato un’altra donna «più brava a letto», ovvero una caricatura (caricatura?) di Lady Gaga. Poi, un Paul Dano alla ricerca di ispirazione per girare un film in cui interpreterà Hitler e vuole dare spessore emotivo al personaggio, l’anziana diva Jane Fonda che preferisce le serie tv al cinema e tanto, tanto contorno. La storia va avanti per due ore così, tra inquadrature che dimostrano la grande tecnica registica di Sorrentino, una fotografia molto evocativa, e scene che vanno a toccare corde quasi comiche, con tanto di battute a effetto, che non sempre vanno a segno, però. E forse il limite maggiore di questo «Youth» sta proprio nella sua eterna volontà di voler dimostare quanto sia fatto bene, quanto sia girato bene, quanto siano bravi gli attori, quanto la regia sia di qualità, quanto, insomma, Sorrentino il suo Oscar se lo sia meritato: ogni pennellata è un lustrare la statuetta dorata: bene, bravo, bis.
E siamo d’accordo: la gloria era meritata, ma forse si poteva anche evitare di fare un film tanto lezioso, tanto insistente, tanto aspirante alla regia pura. Un film di qualità, va detto, che stravince il derby con «Il racconto dei racconti» di Matteo Garrone (onestamente: ci voleva poco, bastava un Fantaghirò qualunque) e che – sì, ok – dimostra ancora una volta, qualora se ne fosse sentito il bisogno, che il cinema italiano, adesso come adesso, è Sorrentino. Sorrentino e basta. Che si sia tornati a mani vuote da Cannes non è un problema, e francamente fa sorridere questo clima da dramma nazionale che si respira sulle pagine culturali dei giornali: anche la «Grande Bellezza» non sfondò in Francia, ma la storia andò comunque a finire bene negli Usa, posto che questo conti qualcosa.
In conclusione, Sorrentino vince ma non convince, dimostra che sì, fare qualcosa dopo l’ultimo exploit è possibile, ma il respiro dell’opera risulta un po’ corto, particolare che risulta evidente anche dal fatto che le ‘svolte’ della trama (se di trama si può parlare) siano tutte concentrate negli ultimi frangenti. L’effetto finale è la creazione di una grande attesa per il prossimo film, lì si capirà se nasce o se muore un regista chiamato Sorrentino.

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