È un pomeriggio troppo azzurro e lungo, questo, per me. Le strade del mio quartiere paiono quelle cantate da un Celentano lontano anni luce, e per esorcizzare il vuoto che mi scavano dentro, lascio suonare l’ultima uscita dei Negrita che, ad oggi, ha incassato recensioni e dati di vendita più che lusinghieri.
Mi approccio all’ascolto senza alcun interessi a trovar conferma delle opinioni altrui, quello di cui ho bisogno è la reiterazione di quanto provai dedicandomi al precedente “Dannato vivere”, ormai vecchio di 4 anni ma decisamente più fresco e “sul pezzo” di quanto non appaia questo “9”, al cui proposito si potrebbe semplicemente scrivere che “sarebbe stato meglio fermarsi ad 8” e chiuderla li.
A questo punto risulterà chiaro che il mio parere in merito ai Negrita del 2015 è ben lontano dal coro di lusinghe che ne ha accompagnato il ritorno discografico. I motivi sono presto detti: “9” si mostra come una regressione rispetto al predecessore, presentando una formazione in crisi artistica che coinvolge sia l’aspetto prettamente musicale, sia quello lirico dei pezzi.
In tutti i brani che lo compongono, “9” non riesce mai a proporre melodie capaci di catturare o più semplicemente far muovere il piede o scrollare il bacino, a dimostrazione che la musica leggera, sempre più spesso, non riesce nemmeno più ad essere potentissima.
Quello appena descritto, tuttavia, può essere derubricato a problema minore in quanto, nonostante la pochezza delle composizioni, le stesse non sfociano mai nel fastidio, ma soprattutto perché ciò che lascia maggiormente il segno, in negativo, è la banalità delle liriche, che messe a paragone con quanto cantato dal gruppo in alcuni brani del precedente “Dannato vivere” fanno sembrare quest’ultimo un gigante di denuncia sociale.
In “9” non c’è più traccia alcuna della messa alla berlina del disagio esistenziale della classe media odierna, schiacciata da un immobilismo determinato dall’incertezza materiale della crisi economica e dal venir meno di ogni riferimento ideologico e valoriale. Al contrario “9”, va così indietro da sembrare il parto della cultura musicale italiana degli anni ’90, quella più commerciale, che identificava il disagio esclusivamente nella sfera privata del singolo (leggasi tutti i piagnistei sentimentali e nostalgici del Pezzali post 1994) e ne identificava la via d’uscita in un po’ d’amore a buon mercato, che ai tempi e si direbbe ancora oggi, condisce i sogni non soltanto degli adolescenti (che possono reclamarlo con sacrosanta legittimità) ma anche e soprattutto di quei 30-40enni che improvvisamente non comprendono più il mondo in cui vivono, perché spaventati dal vuoto esistenziale in cui li ha immersi immersi il materialismo che svanisce nel miraggio di un benessere in costante espansione che non si alimenta più nemmeno col credito al consumo.
Il più grande demerito di questo album è quindi quello d’essere essenzialmente “falso”, per il mondo che racconta e per la voce con cui lo fa.
Ai Negrita di millennio ormai inoltrato riesce tuttavia un obiettivo, quello di dimostrare (loro malgrado) a chi sa e vuol vedere, che anche la musica popolare per definizione non è più in grado di comunicare nulla al mondo da cui è nata, a conferma che la crisi non è soltanto economica ma da fine di un’epoca culturale.
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