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Mad Season: quel che il grunge ci ha lasciato

Lontano dal mondo eppure incapace di riconciliarmi con la vita. Questo è l’unico pensiero strutturato che riesco a partorire mentre il tempo della mia esistenza registra un nuovo, brusco, rallentamento, quasi il Pianeta avesse improvvisamente frenato il proprio moto di rivoluzione intorno al Sole. È ovviamente e purtroppo una suggestione, destinata a deflagrare su se stessa al suono della prossima sveglia che mi catapulterà per l’ennesima volta in una realtà che vorrei parallela, ma che invece è l’unica ad assorbire il mio tempo o quanto meno la porzione preponderante di esso.
Non è un caso che queste grevi riflessioni s’affastellino, al contempo liberando e ottundendo la mia anima, mentre suonano le note finali di quello che considero il testamento umano ed artistico dell’ultima corrente rock degna di questo nome: il grunge.
A questo punto, se fossi un emulo di Scaruffi, dovrei cimentarmi in un excursus sul genere quanto meno per dare conto degli estremi entro cui s’è mosso e via discorrendo. Per fortuna o purtroppo, valutate voi, l’approccio didascalico non mi è mai appartenuto. Salto quindi a piè pari anche qualsivoglia commento tecnico limitandomi a scrivere che il quartetto (più uno) autore delle composizioni che potrete ascoltare, ha compiuto un lavoro che consegna Above direttamente nella storia della musica moderna, perché la reinterpretazione del genere – il grunge appunto – e delle basi su cui si fonda – segnatamente il blues – è di un’intensità e freschezza che impressionano a 20 anni di distanza da quel 1995 in cui ciò di cui scrivo venne dato alle stampe.
Chi mastica qualcosa in merito al “Seattle sound” sa che lo stesso, oltre a proporre uno sviluppo degli spartiti di HendrixPage e Iommi diede nuovo spolvero ad una certa attitudine hardcore – inteso come musica espressione della rabbia sottoproletaria rinfocolata nel decennio della contro rivoluzione liberista, vedi la coppia Thatcher-Reagan – vomitando in faccia ad un mercato assuefatto alla patinatura del rock cotonato il proprio rancore per un sistema che gli scippava il futuro dalle mani. Partendo dalla denuncia di quel furto, la fusione della sofferenza umana d’ogni singolo membro dei Mad Season, a metà anni ’90, stava a certificare che l’operazione era pienamente riuscita, a dimostrazione che il faccione sorridente di Clinton anche quando gli F-16 Nato seppellivano l’ex Jugoslavia sotto le bombe, era funzionale a coprire con un velo di simpatia mediaticamente spendibile la violenza del pensiero unico ormai dominante che, come amava dire la Tatcher, non ammetteva alternativa.
Un’alternativa che nemmeno il far pienamente parte del “sogno americano” era più in grado di garantire. Sono gli stessi Mad Season, con la propria biografia, ad affermarlo e certificarlo sulla conclusiva All alone, un magistrale requiem sulla condizione di vita dell’uomo moderno, quello dipinto come perennemente impegnato nella – e ai fini – dell’accumulazione capitalistica, in cui, improvvisamente, anche chi pensava di esserne padrone se ne scopre vittima, magari mentre si trova per l’ennesima volta e senza esito in una clinica di disintossicazione da alcool e droghe, che sul mal di vivere altrui costruiscono da decenni lauti guadagni.
Non si tratta, ovviamente, di temi nuovi; i Pink Floyd per dire, si espressero con grande qualità in merito con vent’anni d’anticipo – si ascolti ad esempio Welcome to the machine – rispetto alla formazione di Seattle. Quel che cambia tuttavia, è la prospettiva. I decenni di cui i Floyd sono figli, infatti, impressero nella loro musica la carica progressista che animava le classi popolari loro contemporanee. I Mad Season, invece, portano sulle spalle tutto il peso di un proletariato incapace di fare quadrato intorno ai propri interessi – materiali ed umani – perché imbolsito dalla corsa al consumismo più becero che l’ha mutato in una raccolta di soggettività serializzate perse nel mare dell’allora rampante globalizzazione.
Tutti soli dunque… Quasi, perché si commetterebbe un grave errore a considerare chiusi qui i giochi.

Il bello dell’arte è la possibilità – a volte una necessità inderogabile – d’interpretarla, e la musica è forse la forma artistica che più si presta a questo processo. Dando per scontato che le conclusioni d’ogni opera, quando non esplicitate muoiono con il proprio ideatore, personalmente mi piace credere, per necessità contingente e pensiero critico, che no, l’esistenza umana non si risolve nella solitudine esistenziale.

Penso, quindi, che Above sia stato un grido artisticamente sublime e purtroppo non colto circa la necessità di voltar pagina su un sistema che purtroppo, prima di mostrare macroscopicamente le proprie contraddizioni, ha avuto comunque il tempo di portarsi via la vita di due artisti che all’interno della propria sofferenza hanno comunque trovato la forza di sputargli in faccia.

Non è cosa da poco soprattutto quando ci si trova a combattere quotidianamente per stare al mondo.

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