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Provare a non essere cattivo. Impressioni sull’ultimo Caligari

Esiste un modo di fare cinema che permette di scendere nelle profondità di un mondo sommerso, sconosciuto per molti. Un mondo freddo e ruvido, che ha la consistenza del cemento armato delle periferie. Non un ambiente facile da catturare: l’immagine passa attraverso dei filtri – l’obiettivo della cinepresa, i pregiudizi del regista – che rischiano sempre di renderlo falso nel suo triste squallore. Soltanto Claudio Caligari sapeva come annullare la distanza che separa lo spettatore, comodamente seduto in sala, dalla vera borgata.

L’atmosfera oppressiva dei suoi film fa sì che si avverta fin da subito come un senso di irreparabilità: qualcosa di brutto deve succedere, qualcuno si farà male. Non può non essere altrimenti, e le cause di tutto questo, lo sappiamo bene, sono sociali. Nella Ostia del 1995 per gli amici Vittorio e Cesare, protagonisti di Non essere cattivo, la borgata esiste come campo di possibilità obbligate. Per vivere, per alzare un po’ di soldi, ci sono le rapine, i furti, lo spaccio. Oppure il lavoro al cantiere, in nero, a giornata. Si deve scegliere se essere sfruttati per poche lire, senza tutele, senza nemmeno la certezza del posto di lavoro; oppure rimediare in breve tempo una buona somma, rischiando il carcere o peggio, il cimitero. Non esistono alternative, non esiste lotta di classe: siamo in periferia, nell’Italia degli anni Novanta.

La vita per Vittorio e Cesare si divide così, tra i lavoretti per svoltare, le nottate in discoteca e le botte di cocaina, sempre più diffusa in quegli anni, insieme alle anfetamine. Ma quando Vittorio capirà di averne abbastanza della strada, decidendo così di diventare operaio, Cesare faticherà a seguirlo sullo stesso percorso, e la vita farà sentire loro tutta la sua durezza, in seguito questa scelta. Di qui il senso del film: per i ragazzi di borgata, in un mondo che ha perso di vista ogni possibilità di riscatto collettivo, non restano che tantativi individuali (e individualistici) per modificare la propria condizione. Perché se pure uno ci prova a “non essere cattivo”, la comunità di destino cui si appartiene non permette vere possibilità di avanzamento. Questa l’amara verità che ci offre la visione del film, ma nonostante tale consapevolezza sembri non lasciare spazio ad alcuna speranza, questa mostrerà un piccolo e inaspettato bagliore nel finale, del quale non si aggiunge altro.

Il film di Caligari, scomparso a maggio di quest’anno poco dopo la fine delle riprese, completa una trilogia insieme ad Amore tossico (1983) e L’odore della notte (1998). Tutte opere che scuotono la coscienza, crudeli perché vere, e viceversa. Non essere cattivo è pieno di una rabbia che fa male, che stordisce; ma è anche un film onesto, senza retorica, senza assoluzioni per nessuno. Si tratta di un’opera da non perdere per diversi motivi, primo tra tutti l’interpretazione di Luca Marinelli e Alessandro Borghi. A questa va aggiunta un’ottima sceneggiatura e un davvero efficace uso della cinepresa. Il film scorre veloce, frenetico; gli spazi si chiudono, angusti, nelle abitazioni popolari dei protagonisti, per poi aprirsi sul litorale ostiense, o sulle strade notturne e livide della città. La bellezza di questo film non può che aumentare il rammarico per aver perso un regista colpevolmente ignorato dal mondo cinematografico, che avrebbe potuto dare altre prove di grande arte mostrandoci senza ipocrisia il mondo in cui viviamo.

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