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Tarantino e la violenza sfrenata /1: dal pulp alla lotta di classe?

E’ possibile leggere la filmografia di Tarantino come la progressiva ricerca di una violenza sempre sfrenata, nel senso di priva di freni, di limiti, di costrizioni. Tarantino vuole mostrare la violenza sostanzialmente perché lo diverte, “perché è cool”. Tarantino non è più provocatorio da anni a questa parte. Oddio, ad ogni uscita di un suo film si levano sempre voci scandalizzate sugli eccessi di violenza e delle conseguenze che questi possano avere su un pubblico impressionabile (“qualcuno pensi ai bambini!”), però queste reazioni  non sono l’obiettivo di Tarantino. Tarantino fa film per sé stesso, o meglio, per un potenziale sé stesso seduto in un cinema qualunque. Fa film che lui, se non fosse diventato quello che è diventato, si sarebbe divertito ad andare a vedere con gli amici.

Altri autori hanno indagato la violenza, probabilmente con una raffinatezza e una profondità molto superiori al buon Quentin (da William Friedkin a Sam Peckimpah). Ma il fatto è che a Tarantino non vuole indagare la violenza, vuole liberarla. Essere libero di mostrarla, di giocarci, in pace, libero soprattutto dal giudizio dello spettatore. Infatti il più grande limite di cui Tarantino vuole sbarazzarsi è quello morale. Che la violenza sia generalmente sbagliata è un’idea accettata dalla maggior parte della popolazione. Tuttavia pochissime persone direbbero che la violenza è ingiustificata in qualsiasi circostanza, senza se e senza ma. Per esempio, il concetto di “legittima difesa” appartiene alla maggior parte delle legislazioni, ed è accettato dalla morale comune. Tarantino cerca quindi, progressivamente, situazioni e ambientazioni in cui la violenza che si diverte tanto a mettere in scena sia sempre più giustificata.

Ma procediamo con ordine. Tarantino inizialmente cerca la violenza dove è più banale trovarla: nel mondo criminale. Descrive rapinatori, boss mafiosi, killer professionisti o  semplici psicopatici (la scena del taglio dell’orecchio da parte di mr. Blond continua ad essere una delle scene più disturbanti di tutta la sua filmografia) che vivono questo mondo, e che di violenza vivono. E in questo filone troviamo Reservoir Dogs, Pulp Fiction e Jackie Brown (senza contare la sceneggiatura di True Romance scritta per Tony Scott).

Vale forse la pena di ricordare una scena specifica di Pulp Fiction, che preannuncia una caratteristica che sarà dominante in film successivi. Una delle frasi più celebri del film, “Ho una cura medievale per il tuo culo!” viene pronunciata da Marcellus Wallace (Ving Rhames) dopo essere appena stato liberato dai suoi strupratori, e preannuncia una lunga e dolorosa morte per i suoi aguzzini. Ora, la tortura non piace a nessuno in linea di principio, ma difficilmente lo spettatore si potrà sentire simpatetico con il sadico serial killer “punito” proprio da una delle sue vittime.

Con i due capitoli di Kill Bill abbiamo già un’evoluzione qualitativa: siamo ancora in un ambiente di fuorilegge, ma il tema dei film è una vendetta personale. Come non simpatizzare con la povera sposa a cui, nel giorno delle nozze, hanno ammazzato marito e amici? Tutta la stravaganza di arti mozzati e schizzi di sangue viene posta all’interno di una storia in cui comunque non è impossibile giustificare la “povera” Uma Thurman. La violenza efferata di cui si rende responsabile è quella di una vittima che si ribella.

Un discorso analogo si può fare per la scena finale di Death Proof: le tre giovani e belle ragazze vittime dell’attenzione del serial killer di turno (Kurt Russel) prendono la situazione in mano, sparano al loro aguzzino e lo inseguono fino a che, messo in un angolo, non parte un gioioso pestaggio collettivo che si conclude con una trucissima frattura nasale.

Con Inglorious Bastards abbiamo un ulteriore passo in avanti: ebrei che ammazzano nazisti durante la seconda guerra mondiale; chi se la sente, in fondo in fondo, di biasimarli? Rovesciando il ruolo della vittima e del carnefice, Tarantino si appella ad un giustificatorio senso di “giustizia” da legge del taglione da cui pochi di noi possono dire di essere completamente immuni, se non altro a livello emotivo. Apogeo di tutto ciò si ha nella scena finale, in cui due dei “bastardi” scaricano centinaia di pallottole su una folla di persone disarmate, chiuse in trappola in una stanza che sta andando a fuoco e che presto esploderà. Ma le persone in platea sono Hitler e tutti i suoi gerarchi…

Ci sono due cambiamenti significativi rispetto a Kill Bill: intanto non si tratta più di una questione puramente personale. A prescindere dalle motivazioni personali dei singoli personaggi, la loro violenza non si giustifica individualmente. I bastardi non sono solo soldati ebrei, sono gli Ebrei che combattono il Nazismo, è comunque uno scontro “collettivo”.

Inoltre non stiamo più parlando di mondo criminale. Siamo in una situazione di guerra, dove uccidere è “legittimo”. I bastardi sono un corpo dell’esercito degli Stati Uniti, non dei privati cittadini in cerca di vendetta o giustizia. Non saranno giudicati per i loro omicidi, anzi probabilmente saranno accolti come eroi in patria.

Questo discorso è ancora più marcato in Django. Abbiamo anche qui il giustificatorio rovesciamento vittima-carnefice (schiavi vs schiavisti), abbiamo di nuovo delle motivazioni personali (salvare la bella Broomhilda), ma appare più chiaramente un fattore nuovo: la violenza di Stato, o meglio, la violenza legale. Il dottor Shultz (Christopher Waltz), e successivamente Django (Jamie Foxx) sono cacciatori di taglie. Hanno un mandato del tribunale per uccidere le persone che uccidono. Watz addirittura uccide un uomo nella pubblica piazza, viene circondato da decine di uomini che gli puntano un fucile contro, ma se la cava senza un graffio. Perché? Perché la persona che ha freddato è un ladro di bestiame, “ricercato vivo o morto” dal tribunale. Tarantino, non so quanto coscientemente, mostra come la violenza di Stato sia ad un gradino gerarchicamente superiore a tutti i tipi di violenza che aveva mostrato finora. D’altronde lo Stato detiene, legalmente, il “monopolio della forza”, e non deve rendere conto a nessun’altra entità che non sia sé stesso.

Notare bene, non stiamo dicendo che Tarantino stia percorrendo consapevolmente questo percorso, stiamo proponendo soltanto una chiave di lettura, a nostro parere, oggettivamente presente nell’evoluzione dell’approccio ad uno dei temi più ricorrenti nella sua filmografia. Tuttavia non è possibile non trovare una certa coerenza tra questo ragionamento e le accuse di “razzismo istituzionale” che Tarantino ha mosso alla polizia statunitense, riferendosi ai tantissimi casi, esplosi mediaticamente negli ultimi anni, in cui un nero disarmato è stato ucciso dalle forze dell’ordine.  Quando parliamo di polizia parliamo di violenza di Stato, d’altronde, e l’esplicito rifiuto di Tarantino della teoria delle “mele marce” riporta alle caratteristiche strutturali di questa violenza.

Lasciando un attimo da parte Tarantino e proseguendo invece nella riflessione sulla classificazione delle categorie di violenza presentata finora, possiamo notare che ci sarebbe un ultimo gradino da scalare. Esistono infatti due tipi di violenza che possiamo forse collocare a  livello superiore a quella dello Stato, in grado di lasciare campo libero a coloro che la esercitano. Sono la violenza per la Guerra Santa e quella per la Lotta di Classe. Due cause che, nell’ottica di chi le persegue, sono pienamente legittimanti, due casi in cui la violenza assume una giustizia morale. Ora, esiste un’opera che combina magistralmente questi due temi: si tratta di “Q” del collettivo di scrittori Luther Blisset (oggi Wu Ming). In questo splendido romanzo storico, infatti, il protagonista dai mille nomi attraversa, talora per scelta e talora suo malgrado, gli avvenimenti storici più significativi all’interno dell’eterna guerra tra oppressi o oppressori, testimone della lotta di classe che in quei tempi era tinta di religione (siamo nel periodo della Riforma Luterana, di preparazione della Controriforma, delle rivolte Anabattiste). Il protagonista è effettivamente un individuo (uno dei pochi personaggi non storici del romanzo), ma le sue motivazioni sono profondamente politiche.

Ora, non stiamo dicendo che Tarantino sarebbe mai interessato a dirigere un adattamento cinematografico di “Q”, né che un tale adattamento renderebbe giustizia al libro.  Tarantino proviene comunque dalla tradizione statunitense, del paese in cui la lotta di classe ha subito probabilmente le sconfitte peggiori nel mondo occidentale, tanto da essere quasi cancellata dalla memoria nazionale, e la sua impostazione è pertanto profondamente individualistica. Allo stesso tempo, pur trovandosi, a livello puramente logico, ad un gradino superiore, questi due tipi di violenza sicuramente sono estremamente meno accettati dalla morale comune, ad esempio, della violenza di stato. 

Tuttavia è interessante notare come siano di profonda attualità, anche negli USA: da una parte la Guerra Santa (oggi islamica) è un tema costantemente sui mezzi di informazione; dall’altro l’impatto della crisi e le sue conseguenza sociali, nonché la nascita del movimento Occupy Wall Street (con tutti i suoi numerosi limiti, l’unico grande movimento americano da anni) hanno già fatto breccia ad Hollywood (basti pensare a film come “In Time” o “The Dark Night Rises”, che non sarebbero esistiti, o sarebbero stati radicalmente diversi, dieci anni fa).

Insomma, anche se implausibile, Tarantino che interpreta Q sarebbe sicuramente, almeno per chi scrive, qualcosa che varrebbe la pena di andare a vedere.

Continua…

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