Lo abbiamo verificato di persona e collettivamente, con un pizzico di disperazione. Compagni, attivisti, militanti, “ultra-comunisti” durissimi e purissimi che condividono siti fascisti, rossobruni, bufalifici di ogni tipo. Tutti cretini?, ci siamo chiesti…
Senza nulla togliere all’esistenza, spesso maggioritaria, di intelligenze non brillanti, abbiamo verificato anche noi che molti condividevamo in realtà soltanto un titolo che corrispondeva ai propri pregiudizi, convinzioni profonde, ecc. Insomma, che corrispondeva al “già noto” di ciascuno. Solo così, del resto, è possibile “far propria una notizia” senza leggerla. E commentarla sciorinando opinioni che prescindono completamente dal testo.
Il titolo diventa un’arma di rincoglionimento di massa, un’occasione di business per alcuni (la pubblicità sviluppa tariffe in base al clic, ecc), per confondere le acque politiche per altri, per convogliare ocnsensi in una sorta di Pokemon Go informativo perenne.
Il problema è che così facendo l’informazione non c’è più. Per lo meno non c’è più l’informazione strutturata, che mette in fila molte altre informazioni, connesse tra loro, in grado dunque di restituire con un certo grado di attendibilità una situazione complessa.
Ma “il semplice” – lo slogan, ossia un titolo – non esiste da nessuna parte. Ogni riduzione di informazione è riduzione della comprensione.
Qui di seguito il lavoro svolto dai compagni di SenzaSoste, che hanno colto il fenomeno e riportato studi un po’ peoccupati.
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Se il tuo post ha superato le mille condivisioni, non esultare. Può darsi che nessuno l’abbia letto. Science Post, sito satirico americano, ha fatto un esperimento. Ha creato un articolo fittizio dal titolo cattura like: “Ricerca: il 70% degli utenti di Facebook legge solo il titolo di quello che condivide”. Risultato 46mila condivisioni. Peccato che l’articolo fosse scritto in “lorem ipsus”, il testo privo di senso usato dai designer per bozzetti e prove grafiche. Quello che avremmo potuto fare noi con questo post che racconta l’esperimento. Invece proviamo a raccontare cosa è successo.
Giancarlo Donadio – tratto da http://startupitalia.eu/58960-20160620-lettura-post-online-titolo
6 su 10 non leggono i post che condividono
Se quello di Science Post è solo uno scherzo che ha avuto un esito incredibile, sono stati realizzati studi più scientifici sull’argomento. Uno di questi è una ricerca della Columbia University condotta insieme al French National Institute e svelata da Chicago Tribune. I risultati parlano da soli: il 59% dei link condivisi sui social media non sono mai stati cliccati. In altre parole le persone condividono o retwittano senza averli mai letti. Cosa ancora peggiore questi link diventano importanti nel determinare, come immaginabile, quali notizie sono determinanti per costruire l’opinione pubblica sul web. Insomma, retwittare e “share” non sono attività fine a se stesse, ma hanno un’influenza determinante sui pensieri dei tuoi amici e conoscenti. L’esperimento è interessate al fine di capire le abitudini online dei lettori. E degli utenti dei social. I titolo fanno tutto. Sia che si tratti di giornalismo che di business.
Una cultura che non ama l’analisi, la nostra
Questa la riflessione di Arnaud Legout, uno dei coautori dello studio: «È tipico della cultura di oggi. Le persone formano le loro opinioni su un titolo o un sommario, senza fare nessuno sforzo per andare più in profondità» spiega lo studioso che insieme al suo team ha analizzato tutti i tweet abbreviati in bitly su cinque delle maggiori fonti di informazioni per un mese, per poi confrontarle con il numero di letture degli articoli correlati. Il risultato è quello che abbiamo anticipato, su 10 solo 4 li leggono.
Le persone leggono più dagli amici che dalla fonte originaria
Sempre la ricerca ha evidenziato un altro dato su cui riflettere. Molti click alle storie erano fatto sui link condivisi dagli utenti e non direttamente dall’url postato sul profilo ufficiale dell’organizzazione che lo ha prodotto (in questo caso i giornali di informazione). Una questione che non è nuova a chi si occupa di social media, dove l’opinione dell’utente comune conta di più di quella del brand.
Internet tra sharebait e clickbait
L’autore dell’articolo di Chicago Tribune sottolinea che quella di spingere gli utenti al click e alla condivisione veloce è un’abitudine alla quale anche i media tradizionali si sono adattati. E che ha avuto il risultato di creare “una cultura online che impedisce ogni discussione approfondita su argomenti complessi e controversi”.
20 giugno 2016
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“Se prima si sfogliava velocemente il giornale al bar, si spiavano i titoli dalla spalla del vicino in autobus, adesso il bancone del bar è diventato il News Feed di Facebook e i titoli si scorrono ancora più velocemente, perché tempo da perdere per leggere non ce n’è. Per commentare quello che non si è letto, invece, sembra essercene in abbondanza”. Questo il cuore di un articolo di commento molto condiviso in queste ore ma va, proprio su Facebook. Lo ha scritto Emanuele Capone del Secolo XIX che parte dalle vicende di una breve lanciata due giorni fa sulla pagina del giornale sul social di Menlo Park per accennare al rapporto sempre più complicato con i fatti che ci circondano e l’informazione sulle piattaforme sociali.
Cos’è successo? Il titolo è “Sfrattato e senza lavoro, tenta di darsi fuoco davanti a moglie e figlia“. Ha raccolto il primo commento dopo 4 minuti e per quattro ore ha dato vita a una serie di reazioni del tipo “Aiutiamo gli italiani”, “Invece agli immigrati”, “Ma noi… pensiamo a ‘sti maledetti immagrati (così nel testo, ndr)”. Solo quattro ore dopo un utente ha fatto notare che il 38enne era uncittadino straniero: «24 commenti e nessuno ha letto l’articolo, viste le risposte!». Il tenore della discussione cambia e scema: razzismo e menefreghismo s’impossessano degli utenti che evidentemente avevano partecipato al dibattito leggendo solo il titolo e immaginando uno scenario del tutto diverso. Miseria vera, eh?
Non è una novità: che sui social si scriva prima di leggere, cioè si commenti basandosi esclusivamente sullo snippet di anteprima, cioè sui riquadri con titolo e sommarietto leggibile, è un peccato assoluto della “nuova” opinione pubblica. Un mese fa il sito di notizie umoristiche Science Post ha tentato un test pubblicando un testo finto (il famoso riempitivo lorem ipsum) con un titolo particolare: “Secondo uno studio il 70 per cento degli utenti di Facebook prima di commentare gli articoli di scienza legge solo il titolo”. Un metaesperimento, insomma, nel quale alla sociologia online si aggiungeva anche unaricca dose di sbeffeggio. Bene, quell’articolo vuoto è stato condiviso decine di migliaia di volte – al momento 52.700 – anche in questo caso solo sull’onda della fascinazione titolistica.
Pochi giorni dopo, cambiando piattaforma perché tanto la sostanza non muta di un clic, è arrivata un’indagine firmata dalla Columbia University insieme a Microsoft Research, all’Istituto nazionale francese di ricerca in informatica e automazione e altri laboratori di Sophia-Antipolis, la Silicon Valley transalpina in Costa Azzurra a confermare lo scenario: sei link su dieci fra quelli rilanciati e condivisi su Twitter non saranno mai cliccati. Insomma, attraverso quel canale – “il social dell’informazione”! – i pezzi vengono snobbati nel 60% dei casi. Se circolano e vengono retwittati, pur in quel contesto, è solo in virtù dell’affascinante, allarmistico, devastante, schifoso, interessante, azzeccato titoletto che portano in dote. Null’altro.
“Le persone sembrano più propense a condividere un articolo che a leggerlo – ha detto Arnaud Legout, uno degli autori – è tipico del consumo moderno dell’informazione. La gente si fa un’opinione sulla base dei sommari, o del sommario dei sommari, senza compiere alcuno sforzo per spingersi più in profondità”.
Resta da capire in fondo come mai quello sforzo non si faccia, se per menefreghismo assoluto, per mancanza di tempo, per l’atavica ignoranza dell’opinione pubblica italiana che certo i social network non promettono di lenire. Tutt’altro. Probabilmente nel discorso c’è anche la volontà di non “uscire” dal social network in una specie di agorafobia digitale. Se ne sono accorti anche dalla California, dove l’anno scorso hanno lanciato gli Instant Articles, pezzi da leggere direttamente all’interno della piattaforma. Anche Google, con Amp, ha messo a punto un sistema di caricamento superveloce degli articoli. Perché spesso, in effetti, quello è un ostacolo all’esperienza dell’utente: passano troppi secondi fra il clic e il caricamento e la gente non legge, torna indietro, si spazientisce. Ma certo non può essere una giustificazione.
C’è infine un tema legato all’immagine di se che si intende propagare su Facebook, Twitter e compagnia. Insomma, non ci interessa troppo analizzare ciò che condividiamo perché inconsciamente sappiamo che quei contenuti ci occorrono più per l’effetto-vetrina che per la sostanza. Cioè per il pedigree “culturale” e sociale che ci dipingiamo addosso rilanciando certi pezzi. Se poi dentro c’è un lungo e surreale lorem ipsum chissenefrega. Tanto non li leggerà nessuno.
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Riccardo Gatani
Scusate, ma io non credo che sia un problema solo odierno, quello di non compiere alcuno sforzo per spingersi più in profondità. Credo che sia sempre stato così, l’uso di massa dei social network lo mostra esplicitamente e per la prima volta in modo massiccio
Redazione Contropiano
l’aspirazione all'”economia di pensiero” è perenne, certamente… Ma era vissuta e stigametizzata come un difetto, cui era obbligatorio o quantomeno consigliato mettere riparo. Con i social, invece, diventa “normale”. Peggio ancora: questa attitudine generalizzata “annega” l’informazione efficace nel mare magum delle cazzate. Pensa un po’ se un Einstein scrivesse oggi una nuova e formidabile teoria fisica (o in qualsiasi altra materia, ovvio) e venisse spernacchiato da qualche milione di ignoranti tutti alla caccia della “battuta” ad effetto…