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7 Novembre. La Rivoluzione che ha sconvolto il mondo

Il 7 novembre non sarà mai una data come le altre sul calendario della storia. La Rivoluzione d’Ottobre in Russia concretizzò l’assalto al cielo teorizzato e auspicato per decenni dai rivoluzionari di tutto il mondo, dando vita alla prima sperimentazione del socialismo possibile. E’ iniziata così la marcia dell’umanità verso l’emancipazione e la grande paura della borghesia.

Qui di seguito la cronaca della vigilia febbrile del 7 novembre nelle pagine scritte da John Reed nel suo straordinario “I dieci giorni che sconvolsero il mondo”:

"…. L’Istituto Smol’nyi, quartiere generale del CEC e dei Soviet di Pietrogrado, si trova ad alcune miglia dal centro, alla fine della città, sulla riva dell’ampia Neva. Presi un tram ricolmo di viaggiatori, che serpeggiava gemendo lungo strade fangose e mal selciate. Alla fine della linea si innalzavano le graziose cupole azzurrine, filettate d’oro smorto del Convento Smol’nyi, così belle, e di fianco la grande facciata, in stile da caserma, dell’Istituto Smol’nyi, lungo circa duecento metri ed alto tre piani, che portava, sopra l’entrata, un enorme ed insolente stemma imperiale, scolpito nella pietra.

Le organizzazioni rivoluzionarie dei soldati e degli operai si erano installate in quell’istituto, celebre pensionato per giovanette nobili sotto il vecchio regime, sotto il patronato della zarina. Aveva più di un centinaio di vaste camere, bianche e nude; sulle porte alcune placche smaltate indicavano ancora ai visitatori la «quarta classe», e la «sala dei professori».

Ma altre scritte, tracciate frettolosamente, testimoniavano della nuova attività che regnava nell’edificio: «Comitato centrale del Soviet di Pietrogrado», «CEC», «Commissione degli Affari Esteri», «Unione dei soldati socialisti», «Consigli di fabbrica», «Comitato centrale dell’esercito»; altre stanze erano occupate dagli uffici centrali e servivano per le riunioni dei partiti politici.

Nei lunghi corridoi, dal soffitto ricurvo, rischiarati di tanto in tanto da lampade elettriche, circolava una folla affaccendata di operai e di soldati.

Qualcuno era piegato sotto il peso di enormi pacchi di giornali, di proclami, di propaganda stampata di ogni genere. Il rumore delle loro scarpe pesanti sul pavimento sembrava un incessante brontolio di tuono. Ovunque erano poste delle scritte: «Compagni, nell’interesse della vostra stessa salute, osservate da pulizia!». A ciascun piano, alla cima delle scale e sui pianerottoli erano installate delle lunghe tavole dove si vendevano mucchi di opuscoli e di pubblicazione politiche.

Il vasto refettorio, dal soffitto basso, che si trovava al pianterreno rialzato, era diventato una sala di ristorante. Per due rubli mi si diede uno scontrino che dava diritto ad un pasto; poi presi posto tra un migliaio di altri che attendevano di poter accedere ad uno dei lunghi tavoli dove una ventina di uomini e di donne servivano la zuppa coi cavoli mista a pezzi di carne, e distribuivano delle montagne di  kaša e delle fette di pane nero. Per cinque copechi si riceveva una porzione di tè in tazze di stagno. Si prendeva da sé stessi, in un paniere, un cucchiaio di legno poco pulito. Sulle panche, lungo le tavole di legno, proletari affamati inghiottivano il loro pasto, pur chiacchierando fra di loro e lanciandosi attraverso la sala delle frasi scherzose.

Al primo piano vi era un altro buffet, riservato al CEC, ma dove andavano tutti. Vi si potevano avere tartine generosamente imburrate e bicchieri di tè a volontà.

Nell’ala sud, al secondo piano, si trovava la grande sala delle riunioni, l’antica sala da ballo dell’istituto. Una stanza alta, con i muri tutti bianchi, rischiarata da centinaia di globi elettrici lavorati, fissati su candelabri verniciati e divisa da due file di colonne massicce. Ad un’estremità un baldacchino fiancheggiato da due alte lampade a molti bracci, e, dietro, un quadro d’oro da cui si era tolto il ritratto dello zar. Qui nei giorni di festa campeggiavano le sontuose uniforme militari ed ecclesiastiche; era un ambiente fatto per le granduchesse.

Dall’altro lato del corridoio, dinanzi alla sala delle riunioni, si verificavano i mandati dei delegati al Congresso dei Soviet. Osservai l’arrivo dei nuovi delegati: vigorosi soldati barbuti, operai in blusa nera, alcuni contadini con i capelli lunghi. Una giovane donna, aderente all’ Unità di Plechanov, dirigeva l’operazione. Sorrideva sdegnosa: – Non rassomigliano affatto ai delegati al primo Congresso, diceva. Guardate che aria grossolana ed ignorante! Che massa incolta…

Era esatto. La Russia era stata scossa fin nel più profondo e gli strati bassi erano venuti alla superficie. Il Comitato di verifica, nominato dal vecchio CEC, contestava a ciascun delegato la legalità del suo mandato.

Karakhan, membro del comitato bolscevico, sorrideva. – Non inquietatevi – diceva; – al momento buono vi faremo riconoscere.

Era evidente che il numero legale non sarebbe stato raggiunto per il 2 novembre e si rinviò quindi il Congresso al 7. Ma tutto il paese era già in agitazione ed i menscevichi ed i socialisti-rivoluzionari, comprendendo di essere battuti, cambiarono improvvisamente tattica. Telegrafarono ovunque a tutte le loro organizzazioni provinciali di eleggere il maggior numero possibile di socialisti «moderati». Nel medesimo tempo il Comitato esecutivo dei Soviet contadini convocò, d’urgenza, un congresso per il 13 dicembre in modo da rendere vana ogni eventuale azione degli operai e dei soldati.

Che cosa avrebbero fatto i bolscevichi? In città correva la voce che gli operai ed i soldati preparavano una dimostrazione armata. La stampa borghese e reazionaria profetizzava l’insurrezione e reclamava dal governo l’arresto del Soviet di Pietrogrado od almeno la proibizione del congresso.

Alcuni giornali, come la Novaja Rossija, predicavano il massacro generale dei bolscevichi.

Il giornale di Gor’kij, la Novaja Žizn’, riconosceva, d’accordo con i bolscevichi, che i reazionari tentavano di soffocare la rivoluzione e che, se necessario, bisognava loro opporre la forza delle armi; ma, prima di tutto, era necessario che tutti i partiti della democrazia rivoluzionaria presentassero un fronte unico.

Gor’kij faceva osservare che sia i giornali reazionari, sia quelli del governo eccitavano i bolscevichi alla violenza; e che una insurrezione avrebbe aperto la via ad un nuovo Kornilov. Gor’kij scongiurava i bolscevichi a smentire le voci messe in circolazione.

Nell’organo menscevico il Den’ (Il giorno), Potresov pubblicò una informazione sensazionale, con una carta topografica pretendendo di svelare il piano segreto dei bolscevichi.

Come per incanto le mura si coprirono di avvisi, di proclami, di appelli dei Comitati centrali dei «moderati» e dei conservatori. Il CEC denunciava qualsiasi «dimostrazione» da qualunque parte fosse promossa e scongiurava i soldati e gli operai di non dare ascolto agli agitatori.

Il 28 ottobre mi trattenni nei corridoi di Smol’nyi con Kamenev, un piccolo uomo dalla barbetta rossastra, tagliata a punta e dal gestire latino. Egli non era affatto sicuro che vi sarebbe stato un numero sufficiente di delegati. – Se il congresso avrà luogo – mi disse – rappresenterà la volontà della maggioranza del popolo. Se, come penso, la maggioranza sarà bolscevica,noi domanderemo che il potere sia rimesso ai Soviet ed il governo provvisorio dovrà ritirarsi.

Volodarskij, un giovanottone pallido, colorito malsano ed occhiali, fu più categorico:– I Liber, i Dan e gli altri opportunisti stanno sabotando il Congresso. Ma se essi riusciranno ad impedirne la riunione, noi saremo abbastanza realisti da non farci fermare egualmente.

Nel mio taccuino trovo, sotto la data del 29 ottobre, questi brani di giornali:

Mogilëv (Gran Quartiere generale). Là sono concentrati i reggimenti lealisti della Guardia, la Divisione selvaggia, i cosacchi ed i Battaglioni della morte.

Gli junker di Pavlovsk, di Carskoe Selo e di Petergof hanno ricevuto dal governo l’ordine di tenersi pronti a partire per Pietrogrado. Gli junker d’Oranienbaum arrivano nella capitale.

Una parte della divisione delle automobili blindate della guarnigione di Pietrogrado è accasermata al Palazzo d’Inverno.

In seguito ad un ordine firmato da Trockij parecchie migliaia di fucili sono stati consegnati dalla fabbrica d’armi di Sestroretsk a delegati operai di Pietrogrado.

Ad un comizio della milizia municipale di Pietrogrado, nel quartiere Nižnij-Litejnyj, una risoluzione ha reclamato il passaggio del potere ai Soviet.

Tutto questo è solo un esempio della confusione che regnava in quei giorni febbrili, quando tutti sapevano che qualche cosa stava per succedere e nessuno poteva dire esattamente che cosa…."

 

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