L'incesto poetico di Moscato, tra meretricio e santità, va in scena con la regia di Carlo Cerciello
“Attenzione alla Puttana Santa”, recitava il titolo di un film, del 1971, scritto, diretto ed interpretato da Rainer Werner Fassbinder, dove giusto la puttana santa del titolo, ambiguo nel suo femmineo riferimento simbolico/archetipico, sacro e sconsacrato, era il cinema. Quel cinema da reinventare, in anni di rivoluzione, e da sottrarre alle mani della frusta e dominante cultura borghese – il cui indirizzo estetico si collocava sul versante di un prodotto rassicurante, d’evasione e sentimentalistico – o alle stritolanti logiche di un mercato che, incipientemente globale, vedeva l’affermarsi del modello a stelle e strisce; per restituirlo ad una dimensione più autoriale, impegnata, civica e di denuncia, benché non priva di una certa poetica, in cui il classico e il popolare, l’immediatezza della fruizione e la riflessione filosofica, la conoscenza e il godimento artistico si fondessero, allo scopo di consentire la piena maturazione di un pubblico, forse culturalmente più arretrato ma affamato di sapere.
Erano gli anni in cui la classe operaia e il proletariato urbano premevano alle porte delle società occidentali, che fino ad allora li avevano emarginati, per fare il loro ingresso, a pieno diritto, sulla ribalta della Storia.
Purtroppo, quel felice momento si è infranto – per errori commessi, stanchezza nella lotta e derive personalistiche – sullo scoglio degli anni del riflusso e del rientro nel privato. Anni, in cui si è andata via via consolidando – livello mondiale, oserei dire – una restaurazione politica ed economica, che ha visto sempre più allargarsi la forbice tra le elite e le classi subalterne, anche e soprattutto sul versante culturale; anni di lenta necrosi e progressivo imbarbarimento, di smarrimento e svilimento di un patrimonio culturale – e dei suoi valori – che, lungi dal farsi strumento per l’esercizio vessatorio del potere, fosse nutrimento per la crescita intellettuale di una comunità; anni in cui la coltre del pensiero unico, reificante e mercificante, ci ha reso tutti personaggi di secondo piano, mezze figure all’interno di una fiction di quarta, mandata quotidianamente in onda su quei social media divenuti il set, il palco o, se si preferisce, il recinto virtuale, all’interno del quale allestire lo psicodramma collettivo delle nevrosi, delle isterie, delle paranoie, delle crudeltà e dei desideri piccolo-borghesi che tutti, oramai, ci governano e ci divorano.
Non è certo un caso, dunque, se ho tirato in ballo il decimo lungometraggio del controverso regista tedesco perché, a ben considerare, Attenzione alla Puttana Santa potrebbe anche essere il sottotitolo di Bordello di Mare con Città, pièce scritta, su commissione, da Enzo Moscato, nel 1987, poco dopo la morte di Annibale Ruccello, che ne aveva cominciato la stesura, mai rappresentata – se si eccettuano un allestimento realizzato dalle detenute del carcere femminile di Pozzuoli e una versione radiofonica, registrata da Toni Servillo – e ora portata in scena, in prima assoluta, da Carlo Cerciello, al teatro Bellini di Napoli.
E difatti qui, tra prostituzione e santità, meretricio e beatitudine, purezza e corruzione, innocenza e depravazione, religiosità e blasfemia, poesia e prosaicità, intimo soffrire e pubblico recitare, sadismo e masochismo, potere e ribellione – antinomie attraverso le quali si dipanano il testo e lo spettacolo in parola, ma che sono anche parte consistente delle tematiche e del cuore ideologico della drammaturgia di Moscato – la “Puttana Santa” che si rivela, tra le puttanattrici – janare in cerca di espiazione, lupi famelici di denaro e di carne, agnelli sacrificali in attesa di un dio che le crocifigga e le stupri – altro non è che il Teatro. Il Teatro come dannazione o possibilità di salvezza; il Teatro come rituale dionisiaco di vita, morte e rinascita o, all’opposto, come opprimente architettura cristiana, museificante e venduta ai padri della Chiesa. Di Tutte le Chiese: emblema di un potere temporale perché economico e politico; spirituale perché morale e generatore di senso e di simboli.
Un Teatro che è anche, certo, antropologicamente Napoli. Città/mondo che, a partire dagli anni ’80, seppur lentamente -un processo che, però, riguarda, appunto, l’intero pianeta- si discosta inesorabilmente da quanto affermava Pasolini su di essa: «Io so questo: che i napoletani oggi sono una grande tribù che anziché vivere nel deserto o nella savana, come i Tuareg o i Beja, vive nel ventre di una grande città di mare. Questa tribù ha deciso di estinguersi, rifiutando il nuovo potere, ossia quella che chiamiamo la storia o altrimenti la modernità. I napoletani hanno deciso di estinguersi, restando fino all’ultimo napoletani, cioè irripetibili, irriducibili e incorruttibili», per lasciarsi invadere, penetrare, aggredire, sempre più “occupare” – e sì che la città di occupazioni ne ha subite! – da quel trionfante modello consumistico, omologante, massificante e spettacolarizzante, che si definisce neoliberismo: evoluzione grandguignolesca del Capitalismo.
Un modello che, progressivamente, in questi anni, ha finito per stuprare e imbarbarire non solo paesi e società, ma anche la cultura in generale e le culture particolari, apponendo ad esse il marchio della merce multinazionale. Un modello che si è imposto, ineluttabilmente, anche in quello che poteva e doveva essere, per sua natura, un’avanguardia di resistenza: il Teatro, appunto. E Napoli, città teatrale per eccellenza, ha, più di tutte, pagato un alto prezzo alla prostituzione dell’arte scenica. Il Cardinale a capo del Teatro Nazionale ne è l’esempio più evidente.
Fortunatamente, però, tanto in Teatro quanto a Napoli, sacche resistenziali e di lotta non mancano. E Bordello di Mare con Città ce lo dimostra, grazie alla drammaturgia eretica di Moscato che, con la meravigliosa inquietudine della sua poesia teatrale, ben ci mostra lo sfacelo della nostra attualità, alla regia stratificata e visionaria di Cerciello e all’appassionante e appassionato lavoro degli attori.
La vicenda narrata è presto detta. In un ex bordello dell’epoca fascista, sfollato delle sue signorine dopo il varo della “Legge Merlin”, si affrontano e si scontrano, circa 30 anni dopo la messa a morte della prostituzione di stato, le irrequiete esistenze di Assunta e Titina, differenti per carattere, per storia, per ideali di vita. Assunta, per ragioni inspiegabili quanto improvvise, molti anni prima ha deciso di cancellare di botto il suo passato mercenario, e di darsi, rimanendo lei sola nell’ex-casino, ad una vita di pentimento, rinuncia, castità.
Inizialmente il vicolo le è ostile, fino a che, sul bordello, non giunge a farle compagnia, proveniente dal nulla, Titina, con una bambina, sua figlia Betti. La donna, forte ed energica, sembra accettare la singolare santità della vita dell’ex prostituta e cerca di organizzare il caos, il disordine, impliciti nella ribelle, anche se moralissima proposizione di Assunta, in una specie di regola, di ordine, di sistema, non disgiunto però da un non ben chiaro, ma presente, calcolo, profitto economico. All’insaputa di Assunta, infatti, la cui reputazione di pietà e volontà di bene cresce sempre di più nel cuore della gente, Titina -forse anche per necessità di sopravvivenza- comincia ad accettare in casa l’ambiguo andirivieni di alcune donne di vita, Cleò e Madamina, nonché i loschi traffici da esse proposti, di modo che, in breve, l’ex bordello, sia pure clandestinamente e lontano dagli occhi e dalle orecchie di Assunta e di Betti, riprende le sue funzioni di un tempo. Sennonché, ad un certo momento, Assunta prende inspiegabilmente a curare e a guarire, da uno strano, endemico male che sta devastando la città e i corpi delle prostitute che frequentano la casa.
E’ la consacrazione dell’ex lupanare come santuario; il ribaltamento di una vita di peccato e di mercimonio nella santità , nel miracolo, nel sacro.
Sulla regia di Cerciello, tra le scenografie puntualmente disegnate, con tutta l’allusività del segno, da Roberto Crea, si muovono Imma Villa – all’ennesima, splendida prova d’attrice – capace di dare corpo e anima ad una Titina, prima fredda ed enigmatica calcolatrice e, successivamente, colpita nel suo amore di madre, per la morte della figlia, smarrita e disperata, fin quasi alla follia; Fulvia Carotenuto, un‘Assunta, ambigua ex maitresse, in odore di santità taumaturgica, apparentemente distante, quasi passiva, ma capace di covare un rancore, un odio ed una crudeltà demoniache, che l’attrice riesce a rendere con un’intensità ed una rabbia trasfiguranti; Cristinia Donadio (Madamina) e Ivana Maione (Cleò) agiscono, se così si può dire, a specchio e per contrasto, disegnando, entrambe, due figure femminili complementari ma fondamentali nel contesto drammaturgico e scenico, perché definiscono il limite tra il tragico e il grottesco su cui si muove lo spettacolo: l’una, la Donadio, meno ipocrita, più materiale, sarcastica, arrabbiata; l’altra, Ivana Maione, più acquiescente, ironica, subdola nell’ottenere il suo tornaconto. Tutte e due bravissime e tutte e due convincenti chansonnier discinte, nel secondo atto, di un cabaret espressionistico calato in una dimensione volutamente, grottescamente d’annunziana, d’avant-garde; una Sefora Russo, che regala a Betti i tratti ingenui del candore e dell’innocenza, pronta però a vendersi per diventare adulta e adulterata; un Lello Serao, nel ruolo del Cardinale, che merita senz’altro una menzione d’onore. Il suo porporato è eccessivo, debordante, moralmente ripugnate, viscido, satanicamente grottesco nella sua pedofilia incestuosa. Serao si ritaglia e si cuce addosso un personaggio kitsch nel senso più alto – la sua maglietta a rete, nera e con l’orecchino al capezzolo, è sublime per quanto oscena – un clown pop, postmoderno e fassbinderiano, anti accademico.
Infine, lo stesso Enzo Moscato, perfetto nel ruolo di un giornalista, straniato e straniante, interprete e narratore, “deus ex machina poetico” e coro ai margini di questa tragedia. Vivono, questi magnifici sette attori, sulle linee registiche dettate da Cerciello, con la sinistra potenza evocativa dell’equivoco, del subdolo, del mistero, dell’ipocrisia, della superstizione, dell’inganno, dello squallore mercantile, della crudeltà, della peste, della morbosità, del sesso, della morte e del nero, diffamante sarcasmo. Facce emozionali ed esistenziali di una umanità s/mascherata del suo apparato immaginario e piombata nella tenebra simbolica di un intimo oceano: lirico e tragico, grottesco e spaventoso. In una parola, osceno. Acido muriatico che trasuda dal testo di Moscato, tale da ulcerare la pelle dello spettatore in sala, fino a straziarne l’anima. Brutale, eccessivo penetrare di una lama fallica, che affonda il colpo, lacerando viscere e imene.
è uno spazio creativo da reinventare, la scena di Bordello di Mare con Città, all’interno del quale Cerciello -magistralmente in vena, come si è detto, di deliri visionari e onirici, solo apparentemente asintattici – costruisce una regia che mi ricorda, vagamente s’intende, le morotee convergenze parallele: per lo scarto continuo di registri che si fondono, benché apparentemente distanti; per la sapiente mescolanza di stili, generi e testi parziali – si va da Brecht ad Artaud, da Kantor al cabaret espressionistico, da Fassbinder all’antiteatro, fino a Petri e al postmoderno – che trovano fascinosa e struggente omogeneità in una scrittura scenica costantemente spiazzante e straniante, tale da configurarsi come una “polifonia codica”, per parafrasare Roland Barthes; per la traduzione perfetta, in quella scrittura scenica, della scrittura drammaturgica e della lingua moscatiana, che, in Bordello di Mare con Città, sono attraversate da uno iato profondissimo tra le due parti che compongono il testo, tale che, quello che potremmo definire il passaggio del Mar Rosso, da un primo atto narrativamente descrittivo, ad un secondo atto liricamente fremente, raffigura una sorta di incendio iconoclastico tra le cui fiamme viene ridotta in cenere una vecchia concezione drammaturgica -e con essa un vecchio modo di intendere e costruire Teatro- per affermarne una nuova, eretica, poetica.
Un teatro che non risponda alle logiche matematiche, algoritmiche ed economiche del Potere ma nasca dalla libera, se si vuole anarchica, volontà creativa degli autori, dei registi, degli attori. Insomma, delle donne e degli uomini di teatro. Per far questo, tuttavia, c’è bisogno, in Teatro come nella società, di una Rivoluzione radicale, di una palingenesi e, dunque, di una morte e di una rinascita.
In Bordello di Mare, la Morte – la kantoriana morte del teatro – avviene allegoricamente, sul versante drammaturgico, attraverso il passaggio, come già accennavo prima, dalla linearità descrittiva di Ruccello, alla franta magmaticità della poesia di Moscato; mentre, sul versante della scrittura scenica, attraverso l’atto più blasfemo che si possa immaginare: l’incesto pedofiliaco, per di più commesso da un alto prelato, ai danni di Betti.
Blasfemo perché Legge non scritta, quindi non trasgredibile. Un disumano atto sessuale che avrà come conseguenza la morte della fanciulla, dunque dell’innocenza. Un atto contro natura, orribile certo, ma che, come dice Nietzsche ne “la Nascita della Tragedia”, a proposito di Edipo, permette di sperimentare la dissoluzione di sé e di accedere alla conoscenza dionisiaca.
Nulla a che vedere, dunque, con i concetti moralistici di colpa e di peccato, ma solo, allegoricamente s’intende, in chiave simbolica, un atto d’infrazione rispetto all’ordine costituito delle cose. Un “Atto”, una morte irrappresentabile, per la sua crudeltà ancestrale ed artaudiana, che Cerciello de/realizza, perfettamente direi, attraverso un sabba grottesco. è l’Apocalisse: non solo di un’umanità incattivita in rapporti di potere, di mercificazione, di forza, ma, voglio crederlo fermamente, anche di un sistema sociale, economico, politico in senso ampio, di vita, iniquo e spietato, che di quei rapporti è all’origine. Un “Atto”, per di più, avvolto da un’aura mefitica di misticismo religioso- il verbo greco μύω (da cui μυστικός) significa "chiudere gli occhi": e prima che avvenga l’incesto, nello spettacolo, Assunta farà addormentare, chiudere gli occhi, a tutte – cattolico/pagano, e perciò con le stigmate di quella superstizione che, sola, acceca e sprofonda nell’oscurità di uno stato primitivo.
L’Uomo è anche questo. Il Potere è anche questo. La metafisica è anche questo. Il teatro può e deve essere capace di dirci anche questo. Afferma Antonin Artaud ne “Il Teatro e il suo doppio”: «Ecco l'angoscia umana in cui lo spettatore dovrà trovarsi uscendo dal nostro teatro[…] Lo spettatore che viene da noi saprà di venire a sottoporsi ad una vera e propria operazione, dove non solo è in gioco il suo spirito, ma i suoi sensi e la sua carne. Se non fossimo persuasi di colpirlo il più gravemente possibile, ci riterremmo impari al nostro compito più assoluto».
Noi, quest’angoscia, uscendo dal teatro Bellini, l’abbiamo provata. Non c’interessa e non ci può interessare un teatro rassicurante, borghese, d’evasione, inutile, benché faccia comodo alle elite, allo stato e al mercato. Ne auspichiamo, da tempo, la morte, di modo che dalle sue ceneri possa tornare a nascere un teatro – e un’arte – che sappia colpirci e parlarci, anche duramente. Un teatro rivoluzionario, come chiedeva Antonio Neiwiller. E ci sembra che, con Bordello di Mare con Città, Cerciello e Moscato vadano proprio in questa direzione.
Alla fine dello spettacolo, difatti, Moscato, entrando sulla scena, compie un gesto altamente simbolico: stacca dal fondale la foto di Ruccello, che ha campeggiato per l’intero spettacolo, e declama i versi di una poesia della Dickinson. A sancire, come abbiamo detto, il radicale cambiamento di rotta, la frattura nella lingua e nello stile drammaturgico, attraverso la Poesia. Perché, come dice sempre Artaud in “Eliogabalo o l’Anarchico incoronato”: «In ogni poesia vi è una contraddizione essenziale. La poesia è molteplicità triturata e che restituisce fiamme. E la poesia, che riporta l'ordine, risuscita dapprima il disordine. Il disordine dagli aspetti infiammati. Essa fa scontrare tra loro degli aspetti che riconduce a un unico punto: fuoco, gesto, sangue, grido».
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