Il dossier su Casa Pound nasce dall’esigenza di sostenere ed ampliare la mobilitazione antifascista che ha attraversato tutto il nostro territorio a partire dal 12 settembre 2009, giorno in cui un gruppetto di neofascisti ha occupato un convento a Materdei, popolare e storico quartiere di Napoli. Da quel giorno sono partite tantissime e diverse iniziative – dalle assemblee ai presidi, dai volantinaggi ai cortei, passando per proiezioni, concerti e spettacoli teatrali… – sia per contrastare fisicamente la presenza fascista, sia per coinvolgere altri quartieri, studenti, lavoratori, disoccupati nella lotta.
Ovviamente, qualsiasi mobilitazione ha bisogno di spiegare i suoi motivi, di trovare i linguaggi più convincenti, e restituire, oltre le falsificazioni interessate dei media (subito pronti a presentare i camerati di Casa Pound come “bravi ragazzi”), la verità dei fatti. Quindi noi, oltre a coprire il livello di iniziative militanti, abbiamo cercato sin da subito di fare controinformazione, smascherando il ruolo di quotidiani come “Il Mattino”, ricordando agli “smemorati” le nobili imprese dei “fascisti del terzo millennio”, producendo articoli, video, e persino materiali più artistici, per rendere chiaro a tutti la vera essenza dei fascisti e quindi la necessità di combatterli.
Questo lavoro è andato oltre la cerchia più militante, ed è circolato ovunque anche al di là della nostra volontà, attirandosi subito l’attenzione dei fascisti che, ad esempio, hanno cercato di far sparire il nostro video “No Casa Pound” dalla rete. Il dossier è nato in questo contesto di lotta, come prolungamento di questo lavoro, ma si proponeva anche di più…
2. Qual è stato il ragionamento politico per la sua pubblicazione?
Passata questa prima fase di controinformazione più basilare, ci siamo resi conto della necessità di fare un po’ di analisi intorno al “fenomeno” Casa Pound. Innanzitutto per un motivo: per battere un nemico bisogna capirne l’origine e i motivi, le sue forme organizzative, le sue strategie, allo stesso tempo facendo tesoro della propria pratica, dai propri errori e dalle azioni riuscite. Si trattava innanzitutto di riproporre un’analisi di classe del fascismo, ben diversa da quell’antifascismo istituzionale che condanna a priori ogni violenza, che incensa l’attuale “democrazia”, e che vede solo il fascismo “visibile”, quello della camicia nera o della testa rasata (peraltro bisognerebbe notare che anche questo antifascismo oggi sta scomparendo sempre di più – si pensi ai “sinistri” personaggi che vanno a trovare Iannone e compagnia…).
Ma si trattava anche di contestualizzare quest’analisi di classe nella “nuova” configurazione politica di questi anni, ed allargare le considerazioni al piano nazionale. Infatti, mentre noi a Napoli stavamo combattendo quest’occupazione e la violenza che la caratterizzava, anche in altre parti d’Italia si tentava (e si tenta) di fare fronte all’apertura di nuove sedi dell’estrema destra, alle loro provocazioni, alla loro rinnovata attività. Centrare meglio l’analisi poteva non solo collegare il passato al presente, ma anche la nostra città al resto d’Italia. Una cosa che ha delle conseguenze pratiche: evita di restare intrappolati nel cliché della “guerra fra bande”, permette di attaccare anche i molti, troppi fascisti “invisibili” che finanziano ed organizzano la manovalanza spicciola.
3. Secondo voi, il dossier potrebbe essere usato come strumento di lotta per controinformare il movimento antifascista?
L’intenzione di un dossier come il nostro è quello di conoscere quanto più precisamente una situazione allo scopo di disarticolarla. In questo senso esso non rappresenta solo un’opera di controinformazione, nel senso di una mera descrizione dei fatti, comunque sempre necessaria, ma di un vero e proprio atto politico. Nella prima parte abbiamo cercato di aggiungere informazioni, e di mettere dei contenuti e degli elementi concreti in una mobilitazione che a volte rischiava di essere un po’ retorica. Ma non si è trattato solo di elencare dei legami o segnalare delle connessioni, né tantomeno di fare una mappatura delle realtà dell’estrema destra napoletana, quanto del tentativo di mettere in crisi il piano prospettico del nemico.
Un lavoro di questo tipo, che vuole esplicitamente collegarsi alle contro-inchieste di movimento degli anni ’70 (con cui, si pensi a Piazza Fontana e all’assassinio di Pinelli, gli antifascisti seppero smantellare la “verità” ufficiale, e stabilire una nuova verità, che permetteva una più ambia mobilitazione popolare), cerca innanzitutto di capire gli ingranaggi, e quindi i punti dove intervenire. Il nostro dossier non è certo esaustivo, né si incarica di “bilanciare” la disinformazione ufficiale; rappresenta invece il tentativo di attaccare la strategia di ampio respiro messa in campo dai nostri nemici. Si tratta di individuare la filiera di potere cercando di impedire a Casa Pound di funzionare come vuole. Qui la denuncia di determinate “connivenze” è un’operazione materiale, che mette i fascisti sotto pressione. Per questo consigliamo a tutti i compagni questo strumento: potrebbero riuscire meglio di noi a tracciare la catena di comando con i suoi anelli deboli…
4. Quali sono state le reazioni al dossier?
Eloquenti, e ci hanno restituito meglio del nostro parere soggettivo il quadro esatto di cosa avevamo fatto. Se da un lato il dossier ha avuto un certo successo in tutta Italia (oltre ad essere stato distribuito in circa 500 copie, è stato scaricato circa 2.000 volte, “recensito” su diversi siti e giornali di compagni, e sono state organizzate presentazioni in università, circoli, associazioni e scuole…), è stata la reazione dei nostri nemici a farci capire che avevamo colto nel segno. La destra cittadina ha scatenato subito una violenta campagna contro di noi (in particolare Pietro Diodato, ex di AN che non vuole rovinarsi l’immagine in campagna elettorale, e Luciano Schifone, noto mazziere dell’MSI e sponsor a tutti gli effetti di Casa Pound, tanto da essere presente all’inaugurazione ed allo sgombero del convento). La destra ha prima consegnato il dossier alla DIGOS, che ha sostenuto di aver aperto un’indagine, perché il fatto era “inquietante”, poi ci ha attaccato dalle pagine del “Roma”, evocando il solito spettro del “terrorismo” (in un articolo davvero esilarante, dove una normalissima stella, simbolo da sempre della sinistra, diventava una famigerata “stella a cinque punte”, e dove il nostro tono ironico e le nostre accuse documentate, riconosciute dallo stesso giornalista come non assimilabili al “linguaggio veterobrigatista” rappresentavano comunque una “minaccia” perché indicavano dei “bersagli” da colpire)… Infine Televomero, canale fondato proprio da esponenti dell’MSI napoletano, ha imbastito nientemeno che una trasmissione su di noi, mentre gli esponenti del PDL coinvolti nel dossier si sono presi la briga di farci sapere che si sarebbero presentati alle nostre iniziative pubbliche…
Pensiamo che la loro paura non sia stata tanto determinata dalle notizie da noi raccolte, bene o male sapute o accessibili a tutti, ma dal quadro complessivo che abbiamo restituito e dalla potenzialità dell’utilizzo delle notizie sotto campagna elettorale. Il progetto dei fascisti, in tutte le loro varianti, è diventato lampante ed alcune informazioni non possono più essere ignorate: ciò stimola la “curiosità” di chi vuole lavorare su questo tema (giornalista o magistrato), e può creare ai “fascisti in doppiopetto” un bel problema. Insomma: il dossier punta un riflettore su alcune zone che si vorrebbero tenere nascoste.
5. A questo proposito, cosa pensate del metodo dell’inchiesta, come venne pensata negli anni ’60-’70 dalla redazione di “Quaderni Rossi” come utile strumento per comprendere la classe operaia? Pensate che sia ancora oggi un valido strumento di lotta e d’analisi?
Sicuramente ci sono dei punti di contatto fra il nostro dossier ed il metodo dell’inchiesta come fu teorizzata e praticata negli anni ’60 e ’70 sulla scorta dell’insegnamento di Lenin. Forse il punto di contatto più forte è l’idea di lavoro collettivo e l’importanza del contributo di ogni singolo militante – qualcosa che abbiamo esperito e ci ha rafforzato. Ma ovviamente fra il nostro dossier e le inchieste operaie gli ambiti di intervento sono diversi, e anche gli scopi. Comunque è un lavoro, quello dell’inchiesta, che ci sembra ancora oggi – a maggior ragione oggi, che si ha più difficoltà a comprendere cosa sia e cosa voglia il nostro soggetto di riferimento, il proletariato – un valido strumento di lotta e di analisi (basti vedere l’ottimo lavoro di collettivi come clashcityworkers.org oppure inchiestaoperaia.org).
L’inchiesta fa sostanzialmente due cose. Innanzitutto permette di sfuggire ad una visione mistica del movimento operaio, toccando le situazioni di vita effettive, e permettendo dunque un’analisi concreta della situazione concreta, elevando il livello di coscienza di chi si propone di intervenire in maniera quanto più possibile “scientifica”. Ma l’inchiesta non guida solo la pratica: permette anche di costruire l’organizzazione tramite il lavoro collettivo, cementando all’interno il gruppo, estendendo la rete di contatti, consentendo ad ogni passo la verifica del proprio lavoro.
6. Quali sono le fonti “storiche” o “documentarie” che avete ritenuto di apprendere per l’elaborazione di questo dossier?
Anche su questo il dossier ha rappresentato un’esperienza interessante, permettendoci di recuperare un po’ di memoria storica di questa città. Se sulla Resistenza si trovano molto studi, certo inferiori sono quelli che vertono sulla “guerra a bassa intensità” degli anni ’70. Nelle biblioteche e nelle emeroteche abbiamo rintracciato la gioventù nera e violenta di alcuni attuali dirigenti del PDL napoletano, ma sono stati soprattutto alcuni testi prodotti in quegli anni dai comitati antifascisti che ci hanno dato un contributo fondamentale. Sono testi importanti, pieni di notizie e intelligenti nell’impostazione, che andrebbero senza dubbio recuperati: abbiamo iniziato un lavoro simile, di scannerizzazione e diffusione, e ora si trovano sia sui nostri siti (caunapoli.org e cau.noblogs.org) sia sull’archivio libero libreremo.org.
Per quanto riguarda gli anni ’80 e ’90, anni in cui ci sembra che il movimento napoletano non abbia saputo produrre opere significative di controinformazione, abbiamo dovuto sopperire con la ricerca su internet. Ma anche in rete le notizie si perdono; il dossier si propone quindi di colmare i vuoti di memoria storica, per essere più pronti in futuro ad identificare subito i nostri nemici e mettere sotto gli occhi di tutti le loro imbarazzanti storie.
7. Quali sono i militanti, i padrini e gli amici che appoggiano e sostengono Casa Pound e il rinato “movimento neo-fascista”? E quali sono oggi secondo voi i loro obiettivi e interessi?
Per quanto riguarda Napoli, rinviamo alla lettura del dossier, dove i padrini e gli amici sono indicati per nome e cognome, e per appartenenza di partito (soprattutto PDL e La Destra, ma anche l’MPA). Ma leggendo i giornali ed i contributi degli altri compagni, pensiamo di poter estendere i risultati del nostro lavoro a tutto il territorio nazionale. I militanti sono quasi sempre giovani borghesi o piccolo-borghesi, tranne in alcune zone, come nella periferia romana, dove effettivamente i fascisti sono riusciti a contagiare anche segmenti proletari.
I padrini e gli amici sono, molto di più che in passato, esponenti del PDL. Come abbiamo cercato di dimostrare nel dossier, non si tratta solo di esponenti del PDL che vezzeggiano i gruppi dichiaratamente fascisti per trarne voti: esiste anche una strategia entrista di Casa Pound nel partito al momento più influente d’Italia. Insomma, ci sono sul piano locale alcuni esponenti del PDL che sono direttamente emanazione dei “fascisti del terzo millennio”.
Ovviamente non si tratta di asserire che Casa Pound rappresenti tout court il settore giovanile del PDL, per quanto in parte assolva proprio questa funzione, colmando lacune di aggregazione che i partiti di potere hanno sempre scontato (da questo punto di vista l’estetica rivoluzionaria e “non conforme” rende bene allo scopo). Si tratta invece di dire che, oggi come in passato, i gruppi neofascisti sono parte integrante di un blocco reazionario di potere, con le cui componenti dominanti si relazionano dialetticamente.
In questo senso profondo i loro obbiettivi e interessi restano quelli del passato: sono una propaggine delle forze repressive, i “reparti scelti” della controrivoluzione preventiva. In un momento di crisi, che ha fatto precipitare anche una buona parte del ceto medio in una proletarizzazione crescente (si pensi al movimento ormai ventennale di privatizzazione e precarizzazione degli ambiti lavorativi), in un contesto di debolezza soggettiva dei movimenti antagonisti, la presenza di organizzazioni neofasciste può orientare il malcontento, arginare le lotte sociali, prevenire l’esplosione. È in quest’ottica che vanno letti i fatti di Piazza Navona, e tutto il progetto di Casa Pound, fortemente imperniato sulla dimensione metropolitana.
8. Per vostra opinione, Casa Pound è la continuità e la diretta erede di quelle “politiche” della formazione neofascista “terza Posizione” presenti negli anni 70? Trovate nella vostra analisi nessi e legami a tutta quella galassia denominate negli anni 70 formazioni neo-fasciste?
Chiaramente sì. “Terza Posizione” è sicuramente il riferimento politico per eccellenza di Casa Pound. I “fascisti del terzo millennio” si richiamano a quelle parole d’ordine, tentando in apparenza di sfuggire al discorso degli opposti estremismi (come ieri scandivano “né fronte rosso né reazione”, oggi dicono “né rossi né neri”). La strategia è la stessa degli anni ’70: infiltrare i movimenti, minarli dall’interno, utilizzare slogan di protesta e le modalità dell’estrema sinistra per sottrarre giovani forze alla lotta, ed incanalare la loro rabbia ed il loro interesse per la politica verso opzioni reazionarie.
Ma la continuità di Casa Pound con “Terza Posizione” è anche materiale. L’intellettuale di riferimento di tutto il movimento delle comunità nere è Gabriele Adinolfi. Ricordiamo la sua carriera: vicino all’MSI, tesoriere di “Terza Posizione”, poi sostenitore dei NAR, latitante per quasi 20 anni, oggi fa parte della Guardia d’Onore della cripta di Benito Mussolini, e gira l’Italia per formare i “quadri dirigenti del nuovo movimento fascista”.
Adinolfi ha scritto il «che fare» e il «come fare» di Casa Pound, dove c’è, condensato e semplificato per menti non certo eccelse, il suo progetto politico: Sorpasso Neuronico. Il documento è tutto pervaso dalla critica contro quella che Adinolfi chiama “destra terminale”, nostalgica, residuale. Dopo aver testato i vari partitini estremisti, i leader di Casa Pound hanno infatti provato a prendere il controllo del Movimento Sociale Fiamma Tricolore. Non ci sono riusciti, e hanno constatato che a) l’unità fra le varie componenti della destra è impossibile, per personalismi, opportunismi, mancanza di un progetto comune; b) che il marchio “fascista doc” non tira più, che la gente “se ne frega” e che i vari partitini negli ultimi dieci anni hanno sempre avuto risultati elettorali pessimi, raschiano l’1-2% dei consensi; c) che conviene quindi presentarsi nelle liste civiche, dove si può nascondere la propria identità, o direttamente con il centrodestra, anche perché nel PDL sono confluite componenti di AN che restano molto vicine al fascismo. Adinolfi si propone quindi di «attraversare» il variegato panorama partitico della destra e di «contaminare» i partiti al potere, Lega e PDL. Decide di muoversi in maniera spregiudicata, utilizzando singoli esponenti come sponda sul piano locale. Una volta ottenuto il proprio referente nelle istituzioni, si può costruire un vero e proprio gruppo di pressione con cui partecipare alla spartizione dei fondi. È in quest’ottica che Casa Pound Roma ha invitato a parlare il sottosegretario Stefania Craxi e il mafioso Dell’Utri, amico intimo di Berlusconi, personaggi notevolmente contro il sistema…
Nel frattempo, l’azione nel sociale diventa il modo per allontanare la tetra ombra neofascista. Attraverso la costituzione di associazioni e comitati si guadagnano le “coperture” con cui penetrare in alcuni quartieri strategici delle città e farsi assegnare gratuitamente degli spazi in cui formalmente si erogano servizi alla cittadinanza. Darsi la forma di associazione permette poi di partecipare ai vari bandi sociali e culturali di Comuni, Province, Regioni e Comunità Europea, di infiltrare amministrazioni, di dialogare molto più facilmente con i media, di porsi come soggetti molto più “disinteressati” e “passionali”, lontani da una “politica delle poltrone”. Più facile così sia sdoganarsi nei “piani alti” della politica e diventare interlocutori legittimi, sia recuperare consensi fra i giovani nauseati dalla politica istituzionale. Contestualmente, la strutturazione del network nero passa dalla proposizione di un progetto “culturale” posticcio, ma galvanizzante per un pubblico rozzo. Un progetto che cerca disperatamente la relazione con i più disparati ambienti estranei al neofascismo. Da questo punto di vista, dall’ex brigatista Valerio Morucci a Piero Sansonetti, gli utili idioti non mancano mai. La parola d’ordine è quindi «trasversalità» in modo da veicolare una percezione di Casa Pound plurale, democratica, attiva e innovativa.
Insomma, a scavare, niente poi di così nuovo: l’idea di Adinolfi e Iannone è la riproposizione di uno schema “movimentista” vecchio di almeno 20 anni (cfr. l’esperienza di “Base Autonoma”), con meno skinheads e alcune novità date da un contesto a loro più favorevole. Ora la riscrittura della Costituzione, il rimpatrio dei migranti, le corsie di favore per gli italiani nell’accesso ai Servizi Sociali, la retorica nazionalista e bellicista non sono solo il programma dei fascisti militanti, ma anche i punti all’ordine del giorno del Governo.
9. La borghesia e i mass-media di potere generalizzano, dicendo che sono tornati i tempi degli opposti estremismi tra “rossi” e “neri”. Cosa ne pensate di queste dichiarazioni, e che ne pensate dell’attuale clima politico?
Anche qui non c’è una sostanziale novità. La strategia degli “opposti estremismi” è sempre stata usata per appoggiare mozioni centriste e reazionarie, per creare consenso ntorno ad un progetto politico di stabilizzazione. Prima la portava avanti soprattutto la DC, ora indifferentemente il centrodestra e il centrosinistra. Passati i tempi del “terrorismo”, diminuito drasticamente il conflitto sociale, il bersaglio da criminalizzare si abbassa, e deve diventare pericoloso anche solo uno slogan o un atteggiamento “deviante”. Questo perché si tenta di chiudere una volta per tutte la partita, si cerca di prevenire (sia direttamente, con i manganelli e le denunce), sia indirettamente (con linciaggi mediatici, o chiacchiere insensate sull’importanza del dialogo) l’insorgenza dei movimenti. Si tenta cioè di produrre un clima di consenso intorno a certi assunti di base, che possano poi produrre una stabilizzazione che lasci mano libera sul lavoro e sulle città, e dunque permetta profitti per il capitale a tutti i livelli (dai palazzinari alle imprese di smaltimento rifuti, dalla FIAT alle cooperative, per non parlare dei call center…). Oggi il senso comune va cementato intorno all’anticomunismo più becero, ed al sanzionamento di ogni forma di violenza, persino verbale. In questo senso una sorta di “fascismo democratico” è la cornice ideologica e materiale in cui ci troviamo a vivere.
10. Che vuol dire essere antifascisti oggi?
Nella sostanza, essere antifascisti oggi vuol dire quello che voleva dire ieri. La continuità è lampante se non ci si ferma al solo fascismo “visibile”, ma si mira al fascismo “invisibile”, quello meno identitario ma più efficace. Questo fascismo va compreso nei suoi nuovi aspetti e tattiche, ma va chiaramente identificato nella sua essenza, quella di essere controrivoluzione preventiva, dittatura terroristica delle classi dominanti, minaccia gerarchica ed autoritaria che pesa sulla vita di ognuno.
Per questo motivo per noi essere antifascisti non vuol dire soltanto rispettare e ammirare chi ha combattuto contro i regimi autoritari, dalla Spagna al nostro Sud, riconoscersi in quella storia, odiare invece chi si rivendica i massacri in Etiopia o nei Balcani, le leggi razziali, l’alleanza con Hitler… Non vuol dire solo ricordare le centinaia di morti provocati dall’estrema destra negli anni ’70, con le bombe nelle piazze e sui vagoni, con gli agguati contro operai e giovani di sinistra, grazie alla complicità e al silenzio degli apparati dello Stato… Non vuol dire solo far presente che il fascismo solo negli ultimi sei anni ha causato la morte di tre ragazzi (Davide Cesare, Renato Biagetti, Nicola Tommasoli) e centinaia di aggressioni e devastazioni…
Essere antifascisti vuol dire anche continuare quella lotta di libertà e uguaglianza oggi, renderla attuale e comprensibile alla massa “spoliticizzata”, ai ragazzi a cui viene fatto credere che “le ideologia sono finite”, proprio mentre trionfa la peggiore delle ideologie: l’individualismo, la guerra fra poveri, la logica del profitto. Essere antifascisti oggi vuol dire capire dove e come avanzano i “nuovi” fascismi, scorgendone gli addentellati nelle istituzioni e nelle forze dell’ordine, nelle “nuove” forme di autoritarismo e di razzismo, nelle politiche antipopolari. Vuol dire disporsi ogni volta a mettere in discussione le proprie conoscenze, per verificare la presenza di un fascismo più sottile e pervasivo, la cui opera di repressione dal basso (pestaggi a militanti, migranti, omosessuali) è sinergica alle indicazioni repressive che vengono dall’alto (denunce, attacchi al diritto di manifestare e di scioperare, respingimenti dei migranti, violenza nelle carceri, provvedimenti contro l’autodeterminazione della donna, contro ogni forma di “diversità”). Essere antifascisti vuol dire essere pronti a contrastare tutto questo, senza ambiguità e soluzioni di comodo, sia dal punto di vista critico-intellettuale, recuperando e difendendo la nostra storia, facendo valere le nostre ragioni, sia dal punto di vista materiale, riprendendo l’iniziativa nei quartieri, sui luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, riprendendosi spazi di decisione e protagonismo dal basso. Non è un valore astratto, ma insito nella pratica quotidiana della lotta.