«Una stamberga squallidissima. Disordine e caos regnano ovunque. Per terra, pezze vecchie, sacchetti di spazzatura, cartacce, sedie rovesciate; una foto in cornice raffigurante un vecchio, una sciabola antica, una maschera bianca, un ombrellino schiuso[…]». Con questa classica didascalia – che dà indicazioni sul luogo nel quale si svolgerà l’azione cui andremo ad assistere – si apre Scannasurice, testo scritto da Enzo Moscato e ambientato ai Quartieri Spagnoli, all’indomani del terremoto del 1980. Testo che il regista Carlo Cerciello ha riproposto all’Elicantropo – e, successivamente, a Roma, al Piccolo Eliseo, co-prodotto da Elledieffe e Anonima Romanzi, Premio della Critica 2015 come Miglior Spettacolo – e che vede, come unica interprete sulla scena, una straordinaria, appassionante e commovente Imma Villa.
E non è certo casuale la scelta di aprire, questa recensione, con il riferimento alla didascalia iniziale. Perché Carlo Cerciello opera, rispetto a quell’indicazione, una completa, intelligente e suggestiva traslazione, dal piano della semplice icasticità a quello della più complessa e significante dimensione allegorica. Affidandosi, infatti, all’inconfondibile estro di Roberto Crea, suo fedelissimo collaboratore, capace di costruire una vera e propria drammaturgia dello spazio, il regista sprofonda l’atto in una sorta di nudo scheletro o rudere di palazzo, simbolo e allegoria di una Napoli ventrale, sotterranea, inconfessabile, notturna. Ma quella desolata e straziante costruzione non rimanda, nella visionarietà teatrale di Cerciello, ad una esclusiva, univoca connotazione segnica. Lo spazio scenografico si fa, sotto i nostri occhi, come spesso è accaduto negli allestimenti del regista napoletano, elemento drammaturgico di una scrittura scenica aperta su una realtà ben più vasta e complessa dal punto di vista storico, sociale, esistenziale, economico e finanche teatrale. Dunque, ancora una volta, Politico. Il coefficiente scenografico-drammaturgico posto in gioco magistralmente da Cerciello, costruito sapientemente da Roberto Crea e dentro cui si muove e vive il travestito, protagonista dello spettacolo – quello scheletro, insomma, materico e informe – è sì Napoli, colta nei suoi aspetti più oscuri e meno folkloristicamente solari, ma anche un microcosmo all’interno del quale coabitano, tra attrazione e repulsione reciproca, tutte le marginalità e precarietà possibili: studenti, travestiti, immigrati, tossici, prostitute, forse attori e maschere, nonché, ovviamente, le zoccole: quei ratti, metafora di ogni rifiuto e di ogni stimmate sociale.
Una città/contenitore, ammorbata da una peste vagamente camusiana. Un misero perimetro esistenziale, abitato da Uomini e Topi di steinbeckiana memoria: uomini che vivono come ratti, e topi assurti a entità umanizzate. Due specie, due “razze” – quest’ultima espressione è lo stesso Moscato ad usarla, come grumo connotativo dalle molteplici sfumature semantiche – che si rispecchiano, si accompagnano, si inseguono, si combattono: prigioniere di un lager per dannati, diversi, ripudiati, miserabili. Guerra di poveri e tra poveri, esiliati sociali di un cataclisma, tangibile e figurato, i cui effetti sono il degrado e la fatiscenza, prima ancora che architettonici e urbanistici, culturali, emotivi, morali. Angolo di marciapiede per un clochard confinato ai bordi di un mesto carnevale, animato da maschere volgari, alle quali egli può soltanto irridere, ubriaco, tra sarcasmo e malinconia. Maschere di un Teatro di guerra e in guerra, simulacro, ormai, di sé stesso e di una cultura, di un sapere ridotto in macerie. Quel teatro che, giunto a tal segno – il segno di uno Scannasurice, appunto – per aspirare alla salvezza può e deve aspirare solo alla Morte, come affermava il grande regista polacco Tadeusz Kantor.
E allora, in quelle macerie e da quelle macerie abitative, teatrali, sociali, morali, vive e ci parla, per un’ora, il personaggio unico di questo struggente atto narrante: il femminiello, il travestito. Il suo monologare è fatto di una parola piena, evocatrice, materica, corporea; di un linguaggio interiore condiviso, che si esprime nella lingua materna vernacolare, carnale, ancestrale. Racconta Scannasurice, Attore e Topo; narra Scannasurice, Femminiello/immacolata e Madre/Puttana: immagini scolorenti con vertiginosa delicatezza, che si trasfigurano l’una nelle altre, attraverso il corpo cangiante dell’attrice sulla scena. E narra di storie, di mistero, di magia, come un novellatore delle fiabe del Basile.
Riallaccia i fili della Storia di Napoli e del suo popolo. Narra e si fa medium, sacerdote di un rito funebre ed osceno: attore/personaggio, dio/animale, uomo/donna en travestì; concidentia oppositorum, come diceva Nicola Cusano; figura retorica, secondo quanto sostenuto dallo stesso Enzo Moscato; o metonimia continuata sulla teatrale catena significante messa in opera, scavando tra le viscere del dettato poetico moscatiano, da Carlo Cerciello, attraverso l’ebbra interpretazione antimimetica di Imma Villa. Narra e si fa medium, si diceva, tra l’altrove: Es, mondo occulto, esoterico, metafisico, arcaico, dunque pre-storico; la scena: non-luogo extratemporale ed extraspaziale, perciò stesso, labirintico, cunicolare, materno ventre-inconscio in cui si mescolano desideri, castrazioni, trasgressioni, leggi, paure, audacie, pulsioni di vita e di morte, carne e parola, sesso e merda; e il pubblico, che qui è spettatore, coro e, quindi, soggetto sociale. E nella sua narrazione, rievoca morti, spiritilli, belle ‘mbriane, Luisella Sanfelice e Corradino di Svevia, fatti di cronaca, luoghi, in un continuo slittamento tra passato e presente, alla ricerca delle radici culturali di un popolo e di una città, che ama profondamente, e imprecando, quasi con i toni dell’invettiva, non disgiunti da quelli ironici e sarcastici, propri di un certo pessimismo dell’intelligenza, contro quella stessa città e quello stesso popolo, prede, non senza colpa, dello stupro intellettuale commesso dalla contemporaneità svuotata di senso, inquinata, caotica, fagocitata dall’omologazione neoliberista votata al Moloch del profitto e del dominio biopolitico.
D’altronde, il solo momento in cui lascerà quell’intimo ventre materno, quel misero perimetro esistenziale, quello squallido contenitore di rifiuti urbani, lo farà travestendosi, indossando la maschera della donna da marciapiede, per accedere al “ballo mascherato della celebrità” – come cantava De Andrè – in cui tutto si compra: il sesso e perfino l’amore. Quell’amore che la sua natura gli nega. Le nega! è questo uno dei momenti più toccanti e poetici dello spettacolo, in cui Scannasurice sembra dialogare con la luna e con sé stesso, in cadenze liriche, quasi leopardiane. Ed è, infatti, un pessimismo cosmico quello che invade e pervade, quasi improvviso, Scannasurice, tanto da condurlo al suicidio finale.
Ma è una morte, forse, non del tutto disperante. Una morte che presuppone una palingenesi, una rinascita. La rinascita di Napoli, che prenda le mosse dalla sua millenaria cultura e non già dalla trivialità delle trame di quel turbo capitalismo estortore, saccheggiatore e annichilente, il cui unico scopo è fare del mondo un immenso mercato, in cui, gli umani sopravvissuti alle guerre per il dominio, siano invitati, merci tra le merci, a partecipare dell’orgia barbarica dei consumi e dello spettacolo. La palingenesi, dunque, di quella Napoli mediterranea, araba, mediorientale, zingara. Di quella Napoli affratellata a Gaza, Kobane, Aleppo.
Napoli è per altro nella stessa weltanschauung moscatiana – lo straordinario paradigma paesaggistico, sociale e culturale della coincidentia oppositorum: crudele e accogliente madre/matrigna, in essa convivono i quattro elementi che, secondo il filosofo presocratico Empedocle, erano all’origine e alla fine di tutte le cose: fuoco, aria, terra, acqua. A Napoli, nell’antichissima Partenope, il dramma dell’uomo occidentale contemporaneo, sempre in bilico, sulla soglia del dentro/fuori, diventa, a tutti gli effetti, tragedia. Tragedia, a volte, venata di grottesco.
Scannasurice è perciò Napoli stessa, con tutta la sua innocenza, la sua ingenuità, la sua cattiveria, la sua cazzimma, la sua promiscuità, la sua carnalità, il suo candore, la sua insospettabile razionalità. Napoli cattolica e pagana. Sensuale e mortifera. Inferno sotto la cenere del Paradiso Perduto. Babele brulicante e meticcia, Napoli vive le sue contraddizioni fino in fondo. Napoli è l’eccesso che si fa realtà, sempre sul baratro di un abisso. Abietta e Nobile. Madre e Puttana. Redenta e Condannata. Sempre sospesa tra Vita e Morte. Eros e Thanatos.
Ed è così, dunque, che il femminello Scannasurice di Enzo Moscato, esperisce dentro di sé – e all’interno di una casa/ipogeo/abisso – queste immani contraddizioni. Contraddizione vivente egli stesso. Egli stesso, eccesso: ma non in senso caricaturale, bensì sapienziale. Perché Scannasurice, creatura senza un’identità sessuale, metafora di incompletezza e inadeguatezza come solo i femminielli di Moscato sanno essere, figura mitologica, quasi magica, è, almeno in questa febbrile, lancinante, poetica, perfino grottesca e amaramente ironica messinscena di Cerciello, Dioniso: il dio della mania, del culto proibito, esiliato; il dio mascherato che s/maschera la verità. E il Dioniso/Scannasurice di Cerciello, di verità, su Napoli e sulla nostra vacillante umanità, ne smaschera e ce ne dice parecchie!
Eccoci però, giunti al punto. Perché, se questo risultato è possibile, è solo grazie alla memorabile prova attoriale offerta da Imma Villa, sotto la guida registica di Cerciello che non faccio fatica a definire un atto d’amore per la sua compagna. Infatti, grazie ad un lavoro di regia minuzioso, che incide nel profondo del corpo recitante dell’attrice, pur senza mai farne sentire il peso, senza mai soverchiarne la libertà espressiva, Carlo Cerciello conduce per mano Imma Villa verso territori interpretativi inesplorati, complessi, non facilmente articolabili, che si fanno creazione poetica, fisica e vocale, in continue variazioni di registro che sembrano tenere insieme più entità recitanti. è come se si inverasse, insomma, sulla scena, e attraverso il corpo di Imma Villa, quanto scriveva Giorgio Colli su Dioniso, ne La sapienza Greca: «Dioniso è il dio della contraddizione, di tutte le contraddizioni».
In breve, Imma Villa ha condensato, in quest’interpretazione, tutta la magia, la sapienza, la tecnica, di un corpo/voce attoriale, giunto all’apice della conoscenza dei suoi più intimi recessi, delle sue suggestioni più misteriose, dei suoi riflessi più inconfessati nel reale e, pertanto, risonanti sulle note di un’anima, fatta di cristallo e di carne, e capace, nel cerchio di fuoco dell’artificio scenico su cui, libera, può ardere la Verità, anche la più atroce, senza vincoli e senza compromessi, di far scempio e sacrificio del corpo, altare e celebrazione del fuori di sé, nel rituale che la consacra attrice. Qui ci troviamo al cospetto di un’anima capace di far rintoccare ogni nota del suo pentagramma, di far vibrare ogni modulazione del suo canto interiore, di far riecheggiare una musica di confine, al limite tra il cromatismo blues dei toni vocali ed una jam session jazz-bebop, che cuce insieme segmenti gestuali, distorsioni posturali e stati d’alterazione di un corpo sempre sull’orlo del baratro anti rappresentativo, mai in quiete, cangiante, in continua metamorfosi kafkiana.
I toni caldi di Iasa Danieli, l’ironia malinconica di Pupella Maggio, il marionettismo di Totò, la severità timbrica di Eduardo, sembrano distillarsi, a piccoli flussi, nel corpo-mostro di quest’attrice che ci dona, come si è detto, un’interpretazione indimenticabile. Guardando Imma Villa, ho visto Dioniso sulla scena e l’origine stessa del Teatro nella S-prosa poetica della parola di Moscato. Che si è fatta carne e fuoco, soffio e pietra, grazie a questa grandissima attrice.
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