Qualche anno fa, recensendo Trianon – spettacolo nato da un testo di Enzo Moscato, che ne era anche il regista – definii Isa Danieli «un vero e proprio monumento alla recitazione». Oggi, a distanza di tempo, devo riconoscere che, una simile definizione, pur data per esaltarne le straordinarie qualità recitative, poco si attaglia ad un’attrice e ad una donna come lei. Isa Danieli, ottant’anni quasi interamente vissuti sul palco, con i monumenti, con la loro retorica celebrativa, la loro cristallizzata immagine nello spazio e nel tempo, ha difatti ben poco a che spartire. Quando, per la seconda intervista del ciclo, che abbiamo voluto intitolare Il volto femminile della resistenza teatrale, la incontro al Teatro Trianon – gli scherzi del caso! – di Piazza Calenda a Napoli, dove a breve sarebbe andata in scena l’ultima replica dello shakespeariano Sogno di una notte di mezza estate, riscritto per lei da Ruggero Cappuccio, con la regia di Claudio Di Palma, mi trovo di fronte ad una signora energica, intensa, arguta, ironica, riflessiva, dalla risposta pronta, critica, mai acquiescente alle logiche ed alle dinamiche di un mondo dello spettacolo e di un sistema politico-economico che sembrano ormai tutt'uno.
Fiera del suo essere attrice e, soprattutto, orgogliosa di un percorso artistico – tre premi Ubu vinti, nel corso della carriera – mai convenzionale, sempre controcorrente, nato nel segno di fuoco di un’avanguardia che, ancor prima d’essere teatrale, è, essa sì, Politica. Quella vivacità, quel senso critico si esprimono e si rivelano tutti nella dimensione attoriale di un corpo e di una voce che sanno fondere, con la semplicità e la limpidezza con cui scorre l’acqua dalla fonte, il dettato della lezione classica e la più audace delle inclinazioni, gestuali e timbriche, di cui il teatro contemporaneo, con la sua eterodossia di codici, la sua infinita possibilità di inventare registri interpretativi, si compone.
Insomma, Isa Danieli non è un monumento alla recitazione. Isa Danieli è il Teatro stesso che si fa carne, sangue, corpo, intelligenza. Carne, sangue, corpo e intelligenza d’attrice. Teatro di Donna e, perciò stesso, rivoluzionario.
Signora Danieli, allora. Una vita sul palcoscenico. Com’è nata in lei l’idea di fare teatro? Insomma, come ha cominciato?
Non credo sia stata un'idea, ma il naturale passaggio da dietro a davanti alle quinte. Sono figlia d’arte. Mia madre, Rosa Moretti, era un soprano leggero che poi, per necessità, divenne attrice di Sceneggiata, una forma di spettacolo ormai estinta. Mio padre, Renato Di Napoli, era fratello del più famoso Gennaro e di Ninuccio Di Napoli. Cominciai presto, dunque, come tutti i figli d’arte di quelle antiche tribù.
Quando ha iniziato, come donna, ha dovuto affrontare difficoltà , pregiudizi, discriminazioni di genere?
Ero troppo piccola e avevo dalla mia la sfrontatezza dell’adolescenza. Certo, crescendo, ho dovuto faticare e lottare, ma non in quanto donna; direi, più che altro, in quanto persona che sceglieva e sceglie generi e temi non convenzionali.
Secondo lei, oggi, le cose – almeno in Teatro – sono cambiate o le donne devono ancora scontrarsi con stereotipi e atteggiamenti emblematici di quella cultura discriminatoria, figlia del dominio maschile, che si traduce, poi, in disparità di trattamento economico, lavorativo, morale?
Credo ci sia, attualmente, un arretramento forte, innanzitutto sul piano culturale, circa la nostra condizione di donna. Quei diritti che ci sembravano affermati ed accettati, oggi sono messi in discussione e minacciati. In teatro, anche se ci provano, è difficile nascondere il talento o far finta che ci sia. Per quel che concerne le altre forme espressive e di comunicazione – Cinema e TV soprattutto – spesso, come un tempo, l’apparire prende il posto della sostanza. È questa la discriminazione che mi offende di più. Più di quella di genere.
Cosa significa per lei, Isa Danieli, fare teatro?
Le rispondo con le parole del mio maestro: "Sul palcoscenico so cosa fare, nella vita sono uno sfollato".
Bellissima! Ma che valore ha, oggi, fare teatro all’interno di una società e di un sistema che hanno, come ideologia, il Mercato?
Fare teatro ha sempre avuto un valore formativo, sia per chi lo fa che per chi ne fruisce. Ma oggi è diventato peggio di trent’anni fa. Far accettare, agli esercenti, testi di drammaturgia contemporanea, che si occupino di storie del nostro tempo, o spettacoli cha abbiano un vago senso di attualità, con qualche valore politico e sociale, che non sia in linea con l’ideologia del Potere dominante, è pressoché impossibile. Basta guardare i cartelloni dei teatri, zeppi di titoli da film o televisivi, forzatamente portati sulle scene. Tra poco faranno pure Rintintin! Se a questo, poi, si aggiunge che hanno sancito per legge che i contributi ministeriali vengano erogati non per ciò che si fa, per la qualità dell’offerta, ma per quanto si fa, affidandosi alla fredda logica dei numeri, l’aberrazione è totale. La storia delle compagnie teatrali, i loro progetti, le persone che li hanno sostenuti, non hanno più alcun valore. Quel che conta, alla fine, è solo il numero di contributi versati e il volume d’affari. Ma le sembra normale?
Il Teatro può essere ancora – com’ è accaduto spesso in passato – un avamposto, una sacca di Resistenza politica e sociale? E, in senso più ampio, che valore ha, per lei, questa parola: Resistenza?
Il teatro è stato sempre una trincea. Avere davanti persone che hanno deciso di uscire di casa per venire a vederci e ad ascoltarci è sempre una scommessa. Resistere rientra in questo “gioco delle parti”, e ancor di più al giorno d’oggi. Per me, poi, questa parola, Resistenza, ha origini remote. Dovetti resistere da subito, contro il divieto di mia madre che, pur essendo artista ella stessa,non voleva che intraprendessi il suo stesso mestiere, per quanto ne aveva sofferto. Successivamente, dovetti resistere per abbandonare il mondo della “Sceneggiata”, in cui avevo debuttato da piccola, perché avevo saputo dell'esistenza di un teatro “più serio e silenzioso”, che era quello di Eduardo. Dovetti resistere per abbandonarlo, quando mi accorsi che potevo imparare di più con l’esperienza dell'Avanspettacolo dove, appunto, imparai a ballare e cantare. Poi vennero gli anni caldi della contestazione e della rivolta, e mi ritrovai anch’io tra i picchetti di protesta, insieme ad alcuni miei colleghi. E una forma di resistenza fu, senz’altro, il gesto che compii quando mi lanciai, dal palco del S. Ferdinando, sugli autoriduttori del biglietto, mentre facevamo La Gatta Cenerentola di Roberto De Simone – dove prendevamo, compreso lui, 23.000 lire al giorno – per spiegare, a quegli stessi autoriduttori che chi lavorava e lavora, producendo cultura, non è per forza un borghese, narcisista ed egocentrico. Non si può mettere tutti sullo stesso piano. C’è chi fa questo lavoro con l’intento di restituire qualcosa d’importante, sul piano culturale, e di donare una parte di sé agli altri. Coltivando intimamente – cosa che, forse, più conta – un alto senso etico, civile, sociale. In una parola, ancora una volta, Politico.
Può il Teatro e, all’interno di esso, un’attrice, contribuire alla liberazione femminile da quei “ruoli sociali” imposti da una struttura fortemente gerarchizzata, tanto in termini economici quanto, conseguentemente, in termini di differenza di genere?
Certo che può! Il teatro è uno strumento potentissimo. Ma libera tutti, non solo la donna, quando le storie che si raccontano hanno, al centro del loro universo, l’essenza stessa dell'umanità. Certo, c’è una selezione di genere, rispetto ai titoli da scegliere. Il teatro del ‘900 – come, d’altronde, spesso quello del passato – non ha scritto tanto per le attrici, così quanto ha fatto per gli attori.
Il corpo della donna in teatro, al cinema, all’interno degli spot pubblicitari, in TV e, di riflesso, nella società, sembra essere stato liberato da tabù e ipocrisie passatiste. Non pochi, però, tra filosofi, pensatori, sociologi, intellettuali e appartenenti al Movimento di Liberazione della Donna, trovano questa liberazione fittizia, falsa; nulla di più di una mistificazione che diviene strumento – addirittura più subdolo della stessa cultura patriarcale, che imponeva alle donne una certa castità e morigeratezza di costumi – per imporre, alle donne stesse, non solo il modello maschilista, ma per subordinare sempre più il corpo femminile al desiderio maschile, spettacolarizzandone la pura fisicità a fini meramente economici o, appunto, sessuali. Cosa ne pensa?
Penso che se, per vendere una colla o una macchina, si usano donne seminude, allora sono saltati tutti i parametri psicologici, sociali e culturali della comunicazione. Eppure, mi hanno spiegato che c'è gente che studia per confezionare messaggi subliminali, così da invogliare al consumo. Beh, come donna, in questi casi, non mi sento per nulla invogliata. Altro caso emblematico è la famigerata famiglia del Mulino Bianco, spacciata come nucleo familiare ideale, modello da perseguire. E' francamente avvilente! Non si ha il coraggio di denunciare, in Italia più che altrove, che la famiglia è il luogo dove si consumano da anni i delitti più efferati, proprio sul corpo della donna. Altro che family day! Penso, comunque, che ogni liberazione, ogni diritto acquisito debba essere, in qualche modo, sorvegliato e protetto, quindi condiviso. Da quando si è smarrita questa capacità di condividere, ma anche di denunciare come collettività, si sta mettendo a rischio ciò che si è conquistato in anni di lotta e di sacrifici. La cronaca nera quotidiana è appestata, ormai, da notizie di femminicidi o di violenze perpetrate da bulli, fuori e dentro le scuole. La cosa grave è che tutto viene ridotto a fenomeno di ordine pubblico o giudiziario e non trattato come ciò che è: una tragedia culturale! Forse perché nelle aule scolastiche, dove gli insegnanti sono sottopagati e precari, non si parla a sufficienza dei temi della persona, in genere, e della donna in particolare, e del suo diritto all’autodeterminazione. Così come non se ne parla, o se ne parla poco, nelle stesse famiglie. Vogliamo dirlo? Oramai le mamme, che si atteggiano a “compagne-sorelle” dei figli, neanche s’accorgono più di un turbamento o di un disagio dei propri ragazzi. Inoltre, vent’anni e più di “berlusconismo” – ma sia ben chiaro, il "cavaliere" non è l'unico imputabile per un simile scempio – con questa storia che bisogna essere ricchi, giovani, belli ed eterni, hanno contribuito a devastare definitivamente ogni memoria, ogni ricordo di quel che eravamo e di quel che avevamo conquistato, producendo, con l’arretramento culturale di cui si sono resi responsabili, una pericolosissima deriva maschilista di ritorno. E la donna ne sta pagando, inevitabilmente, il prezzo più alto!
Nel corso della sua lunghissima e intensissima carriera, lei ha interpretato numerosi e importanti personaggi femminili: da Filumena Marturano, di Eduardo De Filippo, a Donna Clotilde di Lucanigro, la baronessa borbonica del Ferdinando di Annibale Ruccello; da Regina Madre, di Manlio Santanelli, a Luparella, di Enzo Moscato; dalla Celestina, di Fernando de Rojas, a Ecuba, di Euripide; fino alla Titania del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, riscritto da Ruggero Cappuccio. Molti ruoli, inoltre, li ha interpretati al cinema. Cosa le dicono, come donna, questi personaggi? Come parlano di lei? E cosa ci dicono?
A parte i grandi drammaturghi del passato, ho avuto la fortuna di incontrare, sulla mia strada, giovani autori e giovani autrici che hanno scritto per me testi straordinari, con personaggi femminili altrettanto straordinari. Parlo, riferendomi a Napoli, di quel “Dopo Eduardo”, di quella Nuova Drammaturgia Contemporanea, nata dalle macerie del terremoto, in una città squassata, non solo dalle scosse ma anche da una politica ormai corrotta e camorristica. Ebbene, da quell’inferno, nacquero fiori bellissimi. Autori e poeti, anche molto diversi tra loro, per anagrafe e per formazione culturale, si ritrovarono su un fronte comune a resistere, appunto, ed io con loro. Avevo un piccolo nome, in quel momento, ma in qualche modo ci "riconoscemmo". Diventai, per riconoscenza appunto, la "musa" della nuova drammaturgia contemporanea, non solo napoletana. Scrissero per me il toscano Ugo Chiti: un meraviglioso Kirie, tratto dai vangeli apocrifi; e Letizia Russo, appena ventunenne, alla quale devo quella struggente tragedia moderna dal titolo Tomba di cani, che evocava gli echi di guerra della ex Jugoslavia. In breve, su quel piccolo nome di Isa Danieli, viaggiarono, a fatica, quei testi e quelle parole che stridevano coi titoloni dei cartelloni dei Teatri Stabili o dei santuari dell'abbonato, come il Teatro Eliseo o il Quirino. Fu durissimo. Un viaggio tutto in salita. Stima tanta ma piazze poche. Il nome mio, insieme a quelli di Annibale Ruccello, di Enzo Moscato, di Manlio Santanelli e dei bravissimi compagni di viaggio, che furono i miei colleghi di quel tempo, non bastavano ad aprire le porte del grande teatro. Abbiamo impiegato tempo e fatica. Ma quando, a Parigi, dove interpretai Luparella, di Enzo Moscato, non riuscivo a rientrare in camerino per i tanti applausi, la soddisfazione fu grande. E fu immensa, al Quirino di Roma, quando lessi "sold out" per il Ferdinando di Ruccello. In quell’occasione, vidi tremare gli occhi di Annibale, il quale mi guardò e mi disse: "'O sipario, nun l’aggio mai avuto 'o sipario…". Quindi sì, quei personaggi parlano di me e io di loro. Quasi tutti hanno un filo rosso che li lega a un’idea, a un sentimento. Quel sentimento che Moscato sintetizza in una frase: "Noi non facevamo quella cosa – scrivere e dire di teatro – noi eravamo quella cosa”. Ecco, io ero e sono la fortunata, che ha in sala chi ha scritto ciò che sta dicendo, e con il quale poter discutere, tagliare, limare battute e pause. Meraviglioso: il cuore vivo di questo bellissimo mestiere!
Lei ha incontrato, artisticamente, e conosciuto, personalmente, Eduardo. Cosa deve al grande padre del teatro napoletano? Cosa le ha lasciato quell’incontro?
Quello che può lasciare un genio in una bambina di 13 anni. L’ho spiato, l’ho derubato, finché ho potuto, di tutta quella scienza. Per circa vent’ anni, sono stata in compagnia, condividendo quel percorso – nessuno mai lo dice – con attori straordinariamente bravi e all’altezza dello stesso Eduardo. È stata la mia scuola e la mia educazione sentimentale. Quando lo lasciai, per irrequietezza, per curiosità e per "resistenza" appunto, se la prese a male. Ma poi, da lui andai – e da chi sennò? – per chiedere consiglio per un progetto che mi avevano affidato e di cui avrei assunto la responsabilità del nome in ditta, per la prima volta. “Il Direttore” – come lo chiamavamo noi della tribù – mi fece un po’ soffrire e poi mi diede una sua commedia, con sotto il suo nome anche da regista. Era Bene mio, core mio: un affresco crudelissimo sugli affetti familiari.
Da anni, critici e storici si scontrano e dibattono sulle due grandi figure del teatro napoletano del ‘900: Eduardo e Viviani. Per molti, Eduardo rappresentava un mondo fatto di aspirazioni piccolo borghesi, raccontato attraverso una scrittura densa ma, spesso, prolissa. Viviani, di contro, con la sua immediatezza drammaturgica, il suo dialetto “sporco” e la sua capacità di fondere poesia e musica, ben raffigurava la Napoli popolare dei vicoli e affamata. Lei cosa ne pensa ma, soprattutto – e so che è una domanda cattiva – a chi dei due va la sua preferenza artistica?
Viviani è il nostro Brecht. È impressionante l’attualità della sua drammaturgia e della sua poesia. Pensiamo a Fravecature: se apriamo il giornale, i morti sul lavoro hanno la stessa faccia e, spesso, anche la stessa lingua di quelli di un tempo. La sua lingua, la sua poetica è sorprendente. Ma è stata anche la sua "prigione". Allora, come adesso, gli rimproverano, in maniera strumentale, la complessità della sua lingua. Eduardo – che, vorrei sottolinearlo, non ha scritto solo di famiglie piccolo-borghesi, ma almeno in tre commedie, Napoli Milionaria, Il Sindaco del rione Sanità e Filumena Marturano, aveva al centro della vicenda un mondo sottoproletario – viceversa, ragionava da capocomico e, quando si era in tournée al nord del paese, pretendeva che si “italianizzasse” il testo. Sua sorella Titina, ad esempio, per cui aveva scritto Filumena, non ha mai potuto recitarla così com’era scritta. Insomma, erano due modi diversi di scrivere e anche di interpretare il teatro. Viviani costruiva le sue storie intorno a sé stesso, alle sue esigenze culturali, le interpretava – nella stessa commedia anche più di un personaggio – e quasi costringeva, poi, gli attori, a recitare tutti come lui.
Non ha espresso la sua preferenza, ma capisco. Comunque, in tempi più recenti, ha portato sulle scene la drammaturgia post eduardiana: i già citati Moscato, Ruccello, Santanelli. Cosa può dirci dell’incontro con la poetica di questi tre autori tanto diversi, che hanno, negli anni ’80, restituito emozioni e voglia di riflettere al teatro in lingua napoletana?
Hanno una lingua diversa tra loro ma tutti e tre hanno, all’interno dei loro lavori, questa specie di non luogo dove avvengono storie con personaggi che potremmo definire deportati dell'anima. La Regina Giannelli di Regina Madre, di Manlio; la Baronessa Clotilde di Lucanigro, del Ferdinando di Annibale; la Nanà di Luparella, di Enzo, hanno tratti comuni e si assomigliano, per solitudine, per disperazione e per deportazione. Ognuno dei tre, però, li racconta in modo diverso: pinterianamente Santanelli, vivianescamente Moscato, proustianamente Ruccello. Ma il privilegio più grande, a parte il compianto Annibale – con cui ogni tanto pure parlo – sa qual è? È che posso sentirli al telefono e sono telefonate lunghissime e appassionate, in cui, lo sguardo sensibile e profondo di questi poeti, si allunga sulle ferite aperte di questo mondo.
Da ultimo, ha lavorato, come si accennava più sopra, con Ruggero Cappuccio, uomo di teatro di grandissimo respiro culturale, la cui riscrittura del Sogno di una notte di mezza estate, è andata in scena al Trianon. Cosa può dirci di questa esperienza?
Non è una "collezione" ma, nel lungo elenco che va da Santanelli, a Ruccello, a Moscato, passando per Francesco Silvestri, ci mancava solo Cappuccio. Ora, resta solo il compianto Antonio Neiwiller, altro grandissimo autore napoletano. Comunque, quando mi hanno proposto il Sogno, mi hanno convinto solo quando mi hanno detto che Ruggero l’avrebbe riscritto, reinventandolo, sul corpo e sulla voce mia e di Lello Arena (coprotagonista dello spettacolo, ndr). Anche qui ho avuto un sussulto, per la distanza dei percorsi di ambedue. Dopo aver letto le prime pagine della prima stesura, però, mi sono convinta, proprio per lo straordinario lavoro compiuto da Cappuccio. Così come sono stata felice di condividere il viaggio con Lello, persona squisita e bravissimo attore.
Secondo molti, il teatro italiano, tra i tanti mali che lo affliggono, soffrirebbe anche di una grave scarsità di autori. Lei concorda con questa tesi pessimistica o all’orizzonte intravede qualche novità interessante? E su Napoli, c’è qualche giovane autore che le piacerebbe interpretare?
Non è vero. Gli autori ci sono eccome! Io ho un paio di copioni nel cassetto di cui, per scaramanzia, non parlo. Gli autori ci sono ma non vogliono rappresentarli. Come dicevo prima, preferiscono i titoli dei film, su cui sdraiare i nomi di qualche attore noto e disoccupato.
Un altro grande autore da lei rappresentato è stato Roberto De Simone, esponente di quel teatro popolare e vernacolare che, negli anni ’70, tanto segnò le scene regionali italiane. Qual è il suo rapporto con la tradizione, la lingua napoletana e con il teatro, appunto, cosiddetto popolare?
Non parlerei di vernacolo ma dell’invenzione di una lingua e di una modalità teatrale che divenne uno spartiacque per lo spettacolo nazionale, e non solo. Con Gatta Cenerentola e Mistero Napoletano girammo il mondo con successi di pubblico e di critica. Da Edimburgo a Rio, da Buenos Aires a New York, da Berlino a Parigi a Vienna, quella lingua universale che è la musica, ne fece un abbraccio straordinario e magico. Io, che provenivo da un teatro convenzionale e borghese, mi ritrovai in quel ruolo, la lavandaia, con in bocca parole antiche e a volte impronunciabili e soprattutto a raccontare un sentimento, quello erotico e di abbandono, senza terra sotto ai piedi né “battute” da sostenere. Roberto mi accostò ad un mondo magico, nobile e plebeo di cui non ero a conoscenza, e lo fece non come riporto folklorico ma con una profondità e un rispetto che aveva e ha, la leggerezza che solo i grandi sanno dare, anche alle cose più complesse. Gliene sarò grata per la vita, perché quello fu anche il mio spartiacque artistico.
Veniamo ad un argomento spinoso: il Teatro Stabile-Nazionale Mercadante. Dopo le furiose polemiche circa la gestione – da molti addirittura tacciata di derive privatistiche – del direttore artistico Luca De Fusco, accusato di sperperare denaro pubblico in produzioni faraoniche, la cui conseguenza sarebbe il mancato pagamento degli stipendi; dopo gli scioperi delle maestranze, proprio a seguito di tali mancati pagamenti; dopo lo scandalo delle postille aggiunte ai contratti, con cui il Mercadante afferma che, l’eventuale mancato pagamento sarebbe da attribuire al ritardo nell’erogazione dei fondi da parte degli enti soci: Comune e Regione; dopo le polemiche tra De Luca e De Magistris, con classico rimbalzo di responsabilità; è di questi giorni, la notizia della chiusura dello Stabile a causa della mancata agibilità del sistema di sicurezza antincendio. Il tutto, all’indomani della nomina del nuovo presidente del Cda, Filippo Patroni Griffi, uomo vicino a Gianni Letta. Lei cosa ne pensa di questa situazione, quanto meno anomala?
Non entro nella polemica della gestione, così come mi sono tenuta fuori da ogni coinvolgimento artistico. Non condivido quelle scelte e quel modo di fare teatro. Certo, che i rimpalli sono imbarazzanti, ma come ha già rilevato qualcuno, ancora più imbarazzante è il silenzio che ne è seguito. Comme si avessero chiuso nu bar !
La nuova normativa dello spettacolo dal vivo, espressa dal cosiddetto decreto Franceschini/Nastasi, attribuisce, ai teatri, finanziamenti pubblici – quelli, per intenderci, del FUS – sulla base di un algoritmo, a dire di molti astruso. Come giudica tale regolamentazione? Secondo lei – che, tra l’altro, è stata la fondatrice della Compagnia degli Ipocriti – i piccoli spazi e le piccole compagnie ne vengono danneggiati?
Innanzitutto, non sono una fondatrice della cooperativa "Gli Ipocriti". Ne ho fatto parte come scritturata per 14 anni e, insieme a loro, ho sostenuto lo sforzo di divulgare la drammaturgia dei giovani autori. L’ho detto prima, mi sembra aberrante questo modo di finanziare il teatro e, poi, nessuno ricorda più un’antica legge: ci vogliono trent’anni per formare un pubblico e un paio di stagioni sbagliate per farlo scappare.
La cultura è, in genere, considerata uno strumento di crescita individuale, collettiva, di massa. Strumento di Potere e Contropotere. Lei come la intende?
Stare insieme e condividere il sapere e la bellezza è una cosa che fa crescere. Evidentemente, l’altra antica legge, “bisogna avere un popolo stupido e ignorante per governarlo meglio”, fa ancora molti proseliti.
Nel corso del ‘900, il teatro ha assunto un rilevante significato politico e di opposizione al Potere costituito. Secondo lei, può ancora esercitare questo ruolo?
Credo di sì, perché il teatro non ha bisogno di orpelli né di grandi mezzi. Per questo non morirà mai. Senza gli artisti il teatro non si può fare, senza burocrati e baroni sì. Diciamolo in napoletano, la nostra lingua: Ce basta 'na votte ‘e parole appuntute e overe.
Un’ultima domanda, tra il serio e il faceto. Attrice o Rivoluzionaria: cosa vuol fare da grande?
Per me è la stessa cosa. Far ridere o commuovere il signore in quarta fila, per me è un atto rivoluzionario.
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