Difficile è cogliere il significato profondo della bella riscrittura della fiaba popolare Riccardin dal ciuffo, proposta da Amélie Nothomb (edizioni Voland, 2016). Ma la narratrice francese ci ha ormai abituato alla sua capacità di penetrare le ombre della società contemporanea, e dietro un semplice recupero di un intreccio apparentemente innocuo, racconta di noi a noi stessi.
Due storie parallele e simmetriche si sviluppano senza sorprese. Un protagonista maschile, Deodato, segnato da un’esuberante bruttezza somatica e deforme nel fisico, è presentato dalla sua prima infanzia all’età adulta come capace di far leva su un particolare genio intuitivo e una sorprendente vivacità intellettuale. Il personaggio compensa lo svantaggio estetico con un evidente vantaggio cognitivo.
Parallelamente scorre la vita di Altea: bambina bella – anzi bellissima – ma unanimemente riconosciuta come profondamente stupida, o quanto meno ingenua. Senza troppe sorprese, le due biografie si incrociano nelle ultime pagine, quando le due solitudini finiranno felicemente per completarsi in uno sbocciato amore.
Ma questo è solo il lato estrinseco della vicenda. Amélie Nothomb traccia in realtà un quadro impietoso del nostro mondo. Deodato, l’orrendo bambino generato da un’amabile coppia di sposi, precipita da subito in un ambiente drammaticamente ostile. Ripudiato, marginalizzato per il suo aspetto fisico, trova strategie relazionali alternative, fino a sublimare tutta la sua attenzione nello studio dei volatili, di cui diventerà uno studioso esperto. Incapace di camminare sul suolo della vita ordinaria, si proietterà nel volo. Solo così riuscirà a maturare, attraversando un’adolescenza segnata per un verso dalla solitudine, per altro da rapporti umani consumati nell’indifferenza.
Altea, analogamente, è marginalizzata per la sua troppa bellezza, invidiata dalle compagne di scuola che approfittano della sua lentezza reattiva per vittimizzarla: “una bella adolescente suscita ancora più odio di una bella bambina”, ammonisce Nothomb. L’ambiente che la circonda, più che ostile, è semplicemente meschino. Ma l’autrice lo ricostruisce con una tale noncurante sapienza da farcelo riconoscere come il nostro naturale ambiente di vita. E ci rattrista.
L’esibizione dello squallore sociale dei nostri tempi esige quanto meno un passaggio per il mondo dello spettacolo, argomento non nuovo all’autrice, che in Acido solforico aveva addirittura immaginato un reality show ambientato in un campo di concentramento.
I due ragazzi, per una serie fortuita di circostanze, si incontreranno in occasione di un talk show, e la descrizione del contesto preparatorio cui sono sottoposti gli ospiti televisivi, condotti all’esasperazione da un forzoso isolamento nei camerini (nella speranza che diano in escandescenze durante la diretta), è l’ultimo sintomo della società malata in cui viviamo.
È vero, l’autrice propone il lieto fine e lo rivendica nell’epilogo. Ma è un finale poco credibile, e sembra quasi esaltare il resto: quel drammatico sfondo di acredine nel quale siamo costantemente immersi.
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