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Leonetti : L’utopia dell’eversione permanente

Pubblichiamo con piacere questo ricordo di Francesco Leonetti, scritto da Marco Rustioni. Abbiamo ricordato Leonetti in occasione della sua scomparsa, avvenuta il 17 dicembre scorso.

Rustioni è uno studioso di letteratura italiana contemporanea, un saggista (Volponi, Pasolini e Bianciardi sono gli autori a cui ha dedicato più attenzione) ed un insegnante della scuola secondaria a Firenze. Anni fa ha pubblicato Il caso Leonetti. Utopia e arte della deformazione (Pacini Editore, 2010).

L’utopia dell’eversione permanente

Quando nel 2009 Leonetti ha ricevuto a Milano l’Ambrogino d’oro ero presente alla premiazione. Mi era sembrato quantomeno curioso che l’amministrazione Moratti avesse manifestato tanta sensibilità nei confronti di un ex dirigente del Partito Comunista (marxista-leninista) Italiano. Invece accadde l’inaspettato; molti sorrisi di circostanza, certo, ma anche la sensazione che fosse arrivato un giusto riconoscimento, in presenza di un gruppo non più così ristretto di amici e di giornalisti.

Ecco, è stato in quel momento che ho coltivato (lo riconosco, in modo ingenuo) la speranza che Leonetti avesse cominciato ad uscire dal cono d’ombra dove si trovava ormai relegato da circa quindici anni. Per chi non lo ha studiato e conosciuto, le ragioni di una tale rimozione sono facilmente riassumibili e non è questa l’occasione per occultarle. Leonetti è stato un autore dall’intuito straordinario, ma frettoloso nella realizzazione delle sue opere. Per rendersi conto di questo, è sufficiente scorrere il romanzo Tappeto volante (1967), forse l’unico romanzo beat del nostro panorama culturale, assimilabile per struttura e contenuti a her di Ferlinghetti. E tuttavia, come ricordato da Calvino in una lettera inviata all’autore, solo una parte del testo può dirsi perfettamente riuscita, mentre nella restante prevale quell’effetto coacervo, di costante interpolazione tra saggistica e narrazione che mal connota molta parte della sua produzione narrativa, finanche il suo libro più importante, Campo di battaglia, uscito nel 1981 per Einaudi.

Diverso sarebbe il discorso che riguarda la poesia. Fino all’ultima raccolta, Versi estremi, con una molteplicità di soluzioni e di scelte inventive, Leonetti è stato uno straordinario poeta che è riuscito a trasformare le fonti della tradizione praticate durante gli anni di «Officina» (Parini, Leopardi, Carducci), in una originale forma di canto riflessivo, oscillante tra cavillosità filosofica e ricerca d’avanguardia. Eppure, anche in questo caso, Leonetti è rimasto fuori dalle antologie più significative e solo recentemente ha trovato posto lontano dall’Italia in Those who from afar like files (2017), antologia curata da Cavatorta e Ballerini.

Anche questo un paradosso? Studieremo e ameremo Leonetti per semplice conformazione ai modelli di ricezione americani? Sarebbe un’altra illusione: perché il motivo per cui oggi Leonetti è scomparso dall’orizzonte culturale è fin troppo legato al tentativo di rimozione e di dissoluzione che riguarda un’intera fase culturale. Penso all’Italia che aveva sviluppato tipologie sperimentali e contestastive in ogni campo artistico e che tra gli anni Sessanta e Settanta ha provato a collegare tali esperienze estetiche a modelli comportamentali e politici del tutto nuovi, gli stessi che venivano praticati anche fuori dal nostro Paese. Quando molti anni dopo una fase di ricerca si è conclusa (grossomodo tra la chiusura di «Alfabeta» e l’esperienza del gruppo ’93), il mutamento nel senso comune era probabilmente già in atto. Essere eccentrici, privi di collocazione, non assumeva più valore estetico, se non all’interno delle logiche di mercato.

Da qui scaturisce, anche, il generico rifiuto di quel particolare modo di essere autore che aveva Leonetti, caratterizzato da un tipo di scrittura fluida e aperta alle dinamiche del contesto, tesa ad analizzare e a cogliere gli aspetti culturali più significativi del momento. Questo atteggiamento ha alimentato le riserve maggiori verso la sua opera, quelle che lo hanno relegato ai margini del discorso letterario a partire dagli anni Novanta. Eppure, nella sua prosa permane il tentativo di offrire una registrazione costante del presente e questo elemento è il segno della sua straordinaria vitalità. E allora mi chiedo se negli ultimi anni non sia avvenuto qualcosa di diametralmente opposto a quanto di norma accompagna l’immagine di questo autore. A venire meno non è stata la sua forza propulsiva, ma l’orizzonte dialettico entro cui avrebbe potuto dialogare.

È la realtà, insomma, ad aver perso spessore ed è questa, pertanto, a rivelarsi depotenziata, ad offrirsi alla nostra percezione in forma di simulacro. Ecco perché leggere Leonetti rappresenta ancora un valore, perché è sempre possibile vedere riflessa, nel caleidoscopio di temi e di vicende da lui toccate, l’immagine della crisi contemporanea. In fondo è facile dire che certi argomenti risultano ormai sorpassati, o che affiorano da dibattiti polverosi, tanto da meritare di finire nell’interdetto generale. Più difficile invece specchiarsi in quelle vicende e chiedersi come mai certe forme di protesta, che trovano il sostegno di spazi critici sempre più esigui, non entrano più a far parte dei meccanismi di costruzione dell’identità sociale: è davvero  bene che ci sia stato questo superamento?

Credo che per questo motivo Leonetti rimarrà, per lungo tempo, un autore dimenticato. Ma è lo stesso motivo per cui vale la pena, ancora, leggerlo e ricordarlo.

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