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Giovani a sud della crisi: coniugare l’analisi con una prospettiva di classe

Sono passati ormai all’incirca cinque anni da quando ebbi l’opportunità di leggere un libro edito da La casa Usher e scritto da un collettivo di cui a quei tempi avevo appena sentito parlare – Clash City Workers – e che poi ha avuto una cospicua circolazione negli ambienti della sinistra antagonista, ossia “Dove sono i nostri – Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi”. Dopo decenni di torpore in quell’occasione mi accorsi, e come me tanti altri, che quelle generazioni che sembravano assopite e colpevolmente inermi dinanzi ad una crisi dilagante, invece stavano iniziando a reagire e a trovare piani di organizzazione e di elaborazione teorica di tutto rispetto. Ricordo che lo stupore fu tale e generalizzato che i compagni (e le compagne) autori del testo furono invitati a centinaia di presentazioni in tutta Italia, stimolando il dibattito su temi che per anni erano rimasti intrappolati tra mura troppo strette. E la cosa più stupefacente era che i relatori non corrispondevano più alle consuete figure di militanti navigati, con numerose lotte alle spalle, bensì a compagni e compagne che difficilmente raggiungevano i 30 anni, essendo nati a cavallo della fine del socialismo reale e che, nonostante un’età giovane, presentavano capacità analitiche di tutto rispetto.

Oggi, anno 2018, dopo quasi un lustro dall’episodio riportato, mi è stata regalata una copia del libro “Giovani a sud della crisi” del collettivo Noi Restiamo. Appena ho messo gli occhi sulle pagine ho percepito la stessa freschezza – in senso del tutto positivo – che mi sembrava permeare anche il volume dei CCW qualche anno prima. Incoraggiato dunque a continuare nella lettura, mi sono imbattuto in un testo estremamente dettagliato sia dal punto di vista quantitativo che da quello qualitativo. La meticolosità con cui vengono descritte le politiche comunitarie (e locali) nella programmazione dell’insegnamento di scuola superiore e università è tale che riesce a fornire adeguati spunti di riflessione anche a chi, come chi scrive, si occupa di ricerca e sviluppo per professione. La capacità di spiegare e contestualizzare, ad esempio, la gestione del programma Horizon 2020 è apprezzabile giacché fornisce un quadro esaustivo e al contempo sintetico di un sistema di finanziamenti composto da innumerevoli intrighi di bandi e norme all’interno di cui è difficile, se non impossibile, districarsi. Stesso discorso per quel che riguarda sia l’analisi comparata delle più recenti riforme universitarie, in ambito sia locale che internazionale che per quel che concerne il mercato del lavoro e l’analisi delle migrazioni.

Dal punto di vista qualitativo ciò che sembra essere più convincente è il tentativo, riuscito nella gran parte dei casi, di riuscire a coniugare l’analisi normativa e statistica con una prospettiva di classe che nel conflitto capitale/lavoro vede la sua dinamica principale, se non esclusiva. Sottolineare e discutere che nella mente del legislatore “la responsabilità della formazione debba essere assunta dall’industria” (p.75) è un modo di voler affrontare le questione dal lato giusto ossia da quello che riesce ad individuare un filo conduttore tra tutti i pezzi della crisi che, invece, difficilmente possono essere ricomposti come puzzle. Dunque, viene messa da parte in maniera abbastanza chiara una prospettiva riformista dei problemi fatti emergere – sebbene talvolta non sia chiarissima la presa di distanza dal keynesismo – che vengono invece ricondotti più correttamente all’interno di una strategia ordita chiaramente per consolidare il dominio della classe dominante su quella dominata, per quanto le bandiere partitiche del potere borghese possano cambiare, solo in apparenza. Al tempo stesso, gli autori respingono giustamente le “nostalgie pattriottarde” che tanto vanno di moda in questi mesi e tanto più giochi “altro-europeisti” che incalcolabili danni hanno creato e continuano a produrre nell’immaginario politico della classe di cui siamo espressione.

La prima parte del testo, e più precisamente i primi 5 capitoli, è dunque assai utile per fornire elementi di analisi – sia qualitativa che quantitativa – in grado di rappresentare l’impatto della crisi originatasi negli anni 70 ed esplosa nel 2008 sui giovani che, però, come è ben spiegato in tutto il testo, diviene una questione non esclusivamente giovanile, bensì di classe e dunque per definizione intergenerazionale. In questa maniera viene di fatto confutata l’ideologica tendenza, ampiamente adottata dei lacchè della classe dominante che ha l’obiettivo di condurre la crisi in un vicolo cieco e ascientifico come il conflitto tra generazioni obnubilando così la lotta di classe che è il vero motore della storia. I capitoli conclusivi – alla cui redazione hanno partecipato altri collettivi, quali il CAU di Napoli, il Collettivo Laika di Grosseto, il Collettivo Porco Rosso di Siena e Coniare rivolta di Roma – affrontano tematiche solo apparentemente diverse, quali la lotta contro l’austerità e la repressione, la questione meridionale, il debito pubblico e lo spazio metropolitano nella crisi. Sia a livello metodologico che nelle conclusioni, l’analisi precedente viene dunque avvalorata e corroborata di spunti di riflessione assolutamente validi che mostrano una condivisione più ampia dei risultati già sviluppati.

 

  1. A cosa ci può servire

Al di là dell’interesse sicuramente ampio generato dalle tematiche sviscerate in maniera approfondita dal testo, è importante chiedersi come riuscire a proiettare questo lavoro nella quotidiana conflittualità di classe che, volenti o nolenti, ci troviamo a combattere sui nostri posti di lavoro.

Senza dubbio, un’analisi di questo tipo è rilevante perché permette a tutti, e dunque non solo alle generazioni “a sud della crisi” di fare un passo in avanti sul terreno della lotta teorica che fin troppo spesso finiamo per abbandonare a favore di più rinvigorenti momenti della prassi. In altri termini, senza voler citare troppe volte Lenin, è sempre importante tenere a mente che senza teoria rivoluzionaria è impossibile pensare di poter fare una lotta rivoluzionaria. In questo senso il testo, pur non riportandolo troppo spesso in maniera diretta, sembra presentare e fornire una interpretazione dei fenomeni utilizzando il marxismo come riferimento teorico principale. Questo elemento evidentemente fa la differenza, giacché permette di coniugare una analisi teorica a sbocchi pratici che non siano imbevuti di un miope riformismo come, invece ad esempio, potrebbe suggerire una adesione al keyenesismo. Dunque, proiettare le istanze dei più giovani – che, come detto, sono del tutto intergenerazionali e dunque interessano la classe lavoratrice nella sua totalità – su un piano di conflittualità contro chi detiene i mezzi di produzione, sembra essere una questione cruciale che fa ben sperare sui futuri sviluppi delle lotte necessarie per ampliare le contraddizioni esistenti all’interno del modo di produzione del capitale.

In alcuni passaggi, sembra oltretutto esplicita l’adesione di almeno una larga parte degli scriventi al movimento politico organizzato, nato quasi un anno fa “Potere al popolo!”. Negli ultimi mesi – complice anche un infantilismo politico di enorme portata dimostrato da alcune anime che componevano originariamente il movimento – il progetto, come è noto, ha vissuto una fase densa di scossoni che hanno talvolta fatto sbandare anche i suoi rappresentanti più lucidi. In questo senso, ora che si è aperta una nuova fase del movimento, con l’elezione del coordinamento nazionale e dei suoi rappresentanti, sembra opportuno passare alla sostanza, elaborando e proponendo cioè un programma minimo propedeutico all’aggregazione di forze necessarie alla creazione di un fronte unico di classe in grado di riequilibrare almeno un po’ i rapporti attualmente esistenti. Da questo punto di vista, lo studio approfondito, così come la capacità analitica presentata nel libro, frutto anche di un lavoro pratico quotidiano all’interno delle lotte, potrebbe essere senza dubbio di grande aiuto nel tentativo di elaborare quella parte del programma che necessariamente dovrebbe essere dedicata alle possibili modifiche del sistema istruttivo sia superiore che universitario, tenendo in conto anche la centralità della disposizione di fondi ricerca utili per lo sviluppo di un cervello sociale (general intellect) che, nella fase attuale, di pertinenza esclusiva dei proprietari delle condizioni di produzione.

Ormai si parla in maniera abbastanza condivisa di un nuovo aggravamento della crisi del capitale che dagli anni settanta in poi si trascina in maniera sempre più comatosa. La risposta che per ora sembra preferire la classe dominante è quella di trasformare lo stato liberale in qualcosa di profondamente dispotico. L’affermazione di Trump, Bolsonaro, Salvini, Orban ecc. ecc. stanno forse a rappresentare una sovrastruttura che si sta adeguando ad una struttura sempre più in difficoltà. La classe ha necessità delle intelligenze di tutti utili a proporre soluzioni all’interno di una unità che, specie in Italia, sembra sempre più una chimera considerati i numerosi personalismi e individualismi che permeano da decenni la sinistra antagonista. In questo senso, il testo può essere utile: una base teorica rigorosa, priva di futili nuovismi, può essere adatta ad accompagnare una lotta seria che almeno un po’ possa far ricalibrare quei rapporti di forza al momento assai sproporzionati dalla parte di chi ci domina.

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