A distanza di pochi mesi dall’uscita del libro “Giovani a sud della crisi, in occasione della ristampa, gli autori – Noi Restiamo – propone una versione aggiornata dell’introduzione. Per chi fosse interessato all’acquisto del libro contatti all’indirizzo noirestiamo@gmail.com.
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Sono ormai dieci anni che qualunque testo di politica, sociologia o economia, deve necessariamente includere nelle prime righe dell’introduzione il conteggio degli anni di crisi. Dieci anni in cui ogni analisi è stata necessariamente mossa alla luce di una crisi «sistemica» del capitalismo, un periodo di recessione pari solo a quello del 1929 o seguito alla devastazione della Seconda Guerra Mondiale; dieci anni che hanno visto crolli bancari, la crisi dei mutui e a gente buttata fuori dalle proprie case, l’aumento senza precedenti della disuguaglianza, il risorgere della povertà assoluta nei paesi «sviluppati» dell’Occidente, la fine del sogno della «convergenza» tra i paesi europei più ricchi e quelli più poveri.
E per fare fronte a tutto questo i governi hanno risposto con politiche che hanno ulteriormente sviluppato questi problemi: austerità, tagli allo stato sociale, dalla scuola alla sanità alle pensioni, precarizzazione del mercato del lavoro, privatizzazioni e svendita del patrimonio pubblico.
A più di un decennio dall’inizio della recessione, l’economia europea sta attraversando una fase instabile, fra strascichi della crisi che ancora si fa sentire per larghe fasce dei settori popolari, segnali di ripresa da alcuni comparti ma anche indicazioni di una nuova possibile fase recessiva. Fra i paesi mediterranei, Spagna e Portogallo negli ultimi anni hanno mostrato segni di dinamismo. Per conto suo la Grecia ha appena visto i funzionari della Troika andarsene dopo un vero e proprio commissariamento durato otto anni, benché rimanga legata ai pesanti vincoli post-memorandum. La vicenda tragicomica intorno all’ultima legge di bilancio ha messo in luce come sia l’Italia adesso a preoccupare le elìte europee additata ormai apertamente come malato d’Europa, con un tasso di crescita anemico e costantemente rivisto al ribasso.
Ma se Atene piange, Sparta non ride, perché pure la famosa locomotiva tedesca mostra segni di appannamento, con export in diminuzione e produzione industriale in affanno.
Se i caratteri della nuova fase appaiono dunque ancora indefiniti, quello che è certo è che la società non è tornata a essere quella del 2007, così come non sono uguali i rapporti economici e di produzione, la situazione geopolitica e le alleanze internazionali. In dieci anni di crisi sono stati triturati partiti politici europei con una storia centenaria e ne sono sorti dei nuovi, per cui neanche l’agone politico è più quello di prima.
Dopo la fase di compromesso keynesiano post-seconda guerra mondiale e il quarantennio di neoliberismo inaugurato da Thatcher e Reagan, potremmo stare entrando in una nuova fase storica del capitalismo, e il periodo attuale si potrebbe certamente caratterizzare come quell’interregno “in cui il vecchio muore e il nuovo non può nascere”, per usare una frase assai abusata ma assai efficace di Antonio Gramsci.
Mentre molti dei caratteri specifici di questo periodo saranno più chiari solo con un attento e continuo studio, alcune caratteristiche sono già evidenti e al centro del dibattito economico-politico: l’accentuarsi della competizione globale fra macro-blocchi imperialisti o aspiranti tali, che comporta l’incrinatura della storica alleanza USA-UE e il rischio, sempre meno latente, di una guerra dei dazi che interrompa l’avanzamento apparentemente implacabile del libero commercio; le tensioni riguardo alla possibile uscita “disordinata” del Regno Unito dall’Unione Europea; le guerre asimmetriche che si avvicinano sempre più ai confini europei (vedi la Libia, ma soprattutto l’Ucraina) portate avanti con uno spregiudicato schema di alleanze a geometria variabili, dove il tuo alleato di ieri può diventare immediatamente tuo nemico (si veda il calderone della Siria); l’apertura di una frattura politica sempre più forte tra elitaristi e populisti che si affianca e sembra soppiantare la storica divisione tra destra e sinistra (o tra popolari e socialdemocratici, entrambi finiti pienamente nel primo schieramento); la catena produttiva del valore, che da una parte diventa sempre più frammentata, mentre aumenta sempre di più l’importanza della velocità di circolazione e di valorizzazione, e quindi la strategicità del settore della logistica; il lavoro che non è tornato alla condizione del 2007, ma oltre, addirittura a quello di inizio ‘900, pagato a cottimo, estremamente ricattabile fino al licenziamento immediato, con sempre maggiori ostacoli alla sindacalizzazione.
Basti pensare alla situazione italiana: se è vero che a livello quantitativo l’occupazione è tornata a quella pre-crisi, a livello qualitativo si è osservato un progressivo spostamento della struttura occupazionale verso lavori precari e malpagati, mentre le istituzioni a difesa del lavoratore sono state progressivamente smantellate.
L’analisi della realtà, che deve sempre andare di pari passo con la lotta per la trasformazione sociale, deve tenere conto di questo periodo di transizione, partendo dal tentativo di capire quali sono stati i caratteri temporanei della fase che si sta concludendo, e quali invece sono diventati strutturali, e con i quali quindi continueremo a confrontarci nel prossimo, sul piano teorico come su quello dell’agire politico. La cornice dell’austerità, pur valido strumento analitico per il periodo della recessione, non basta più per descrivere l’attuale fase che l’economia europea attraversa. Se da un lato i vincoli sui conti pubblici rimangono pressanti (basti richiamare ancora una volta lo scontro sul deficit italiano dello scorso autunno), dall’altro la crescita elettorale in tutta Europa di forze euroscettiche ha portato le élite europee ad un tentativo di cambio di strategia.
Non si tratta solo delle tardive ammissioni di colpa sul disastro greco, come quelle pronunciate dall’ex capo dell’Eurogruppo Jerome Dijsselbloem o dal presidente della Commissione Europea Juncker, ma anche di cambiamenti più concreti. Si tratta, come notava cinicamente un editorialista del Wall Street Journal nel 2016, di «corrompere le rivolte contadine» con maggiore spesa pubblica. L’esempio più lampante che offrono gli eventi recenti è il caso francese con Macron in difficoltà per via delle proteste dei «Gilets Jaunes» si concede di sforare i vincoli di bilancio nel tentativo (per ora vano) di placare la rabbia della popolazione.
Andando oltre un’ottica di breve periodo, basta guardare le raccomandazioni emesse della Commissione Europea negli ultimi anni nei confronti di Germania e Olanda ad usare più spesa pubblica per far crescere l’anemica domanda interna e fare da traino al resto dell’economia europea.
C’è poi il «Piano Juncker» di investimenti per rilanciare la crescita del continente.
Si noti però che siamo ben lontani da un ritorno ad un keynesismo fuori tempo massimo. Nella visione della Commissione UE gli investimenti del piano Juncker si accompagnano a riforme del mercato del lavoro e dei prodotti, con un’ulteriore spinta verso le liberalizzazioni. E d’altronde lo stesso Juncker nel fare ammenda sulla Grecia ha comunque sottolineato che le ‘riforme’ strutturali restano essenziali.
Si tratta piuttosto di un tentativo diristrutturazione dell’economia europea per renderla maggiormente competitiva nei confronti di altre macro-aree come gli USA, tanto più che oggi i rapporti con l’ex alleato americano sono ai minimi storici. In questo senso, l’UE non rappresenta una forma superiore di democrazia sovranazionale, bensì lo strumento per avanzare gli interessi del blocco egemonico del capitale europeo.
Non si tratta dunque di un aumento di spesa pubblica generalizzato, ma di investimenti mirati di cui riescono ad avvantaggiarsi solo alcuni poli competitivi, lasciando indietro altri.
Questo è quanto sta accadendo ad esempio nell’università italiana: dopo anni di austerità che hanno visto pesantissimi tagli al finanziamento statale dell’istruzione universitaria, il livello di fondo di finanziamento ordinario è tornato quasi a livelli pre-crisi.
Nel frattempo, sono stati però istituti meccanismi di competizione fra università basati su presunte logiche meritocratiche per cui ad avvantaggiarsi dell’aumento dei fondi sono principalmente alcuni poli universitari di «serie A», sempre più internazionalizzati e proiettati su una dimensione europea, mentre il resto dell’università vede diminuire fondi e iscritti.
Questo tipo di dinamiche centro-periferie si osserva sia su scala nazionale che su scala europea. Benché, come ricordato nell’incipit, negli ultimi anni i paesi mediterranei siano tornati lentamente a crescere, la crisi ha accelerato gli squilibri del processo di integrazione europeo che erano stati nascosti dall’euforia finanziaria che aveva fatto seguito all’introduzione dell’euro.
Mentre le economie del centro produttivo a trazione tedesca si sono progressivamente specializzate nella produzione e l’export di beni ad alto valore aggiunto, le economie del sud Europa si sono progressivamente spostate in basso nella catena del valore, trovandosi a competere sul costo del lavoro. Sintomo di questi squilibri sono le dinamiche migratorie inter-europee, dove l’emigrazione dai paesi mediterranei verso l’Europa «core» rimane alta nonostante la ripresa, o meglio a causa delle sue caratteristiche.
A corollario delle politiche di investimento per rilanciare la competitività’ europea, le élite europee hanno aggiunto un progressivo indurimento delle politiche migratorie. Basti pensare al vergognoso accordo con la Libia per trattenere i migranti in campi di detenzione, o alle condizioni disumane dei campi in Grecia. In risposta alla crescente popolarità’ della destra xenofoba, Il controllo delle frontiere continentali è stato progressivamente «europeizzato», tant’è che di recente Juncker ha proposto il rafforzamento della forza di polizia di costiera europea.
E così dell’anti-europeismo di facciata delle destre xenofobe si risponde con politiche che nei fatti vanno nella stessa direzione.
Ci è sembrato quindi opportuno tirare le fila dei punti politici che hanno contraddistinto tutta la riflessione di Noi Restiamo, metterli a sistema per capire il quadro in cui ci troviamo e da cui siamo tenuti a ripartire: l’istruzione, il lavoro, l’emigrazione, il rapporto città-metropoli-periferie, il divario nord/sud sia europeo che italiano, l’antifascismo e la repressione. Un quadro sicuramente ampio e, non abbiamo paura di dirlo, complesso, e che per queste ragioni abbiamo sentito il bisogno di affrontare insieme ad altre realtà politiche, fino alla realizzazione nella scorsa primavera dell’assemblea Giovani a sud della crisi, da cui questo libro, all’interno del Collision Fest.
C’è un’ulteriore questione che collega i nostri punti con i compagni e le compagne insieme a cui questo libro è stato scritto: la questione giovani- le. Per quanto Noi Restiamo nasca come un’organizzazione giovanile, non si è certo rinchiusa in questa categoria, affrontando anche temi non direttamente riconducibili alla condizione generazionale, ma spaziando fino a grandi discussioni di carattere maggiormente teorico, affiancandosi in certe riflessione e pubblicazioni ad altre organizzazioni, dalla Rete dei Comunisti sulla teoria marxista e l’antimperialismo, all’Unione Sindacale di Base su alcune riflessioni sulla disoccupazione tecnologica e i possibili strumenti con cui rispondere, fino alla discussione su immigrazione/emigrazione all’interno della piattaforma Eurostop.
La natura «giovanile» delle organizzazioni che hanno contribuito a questo libro nasce dunque non tanto da una generica affinità anagrafica, ma proprio dai contenuti e dalla chiave di lettura di questa pubblicazione. I punti di cui sopra infatti sono affrontati con la lente particolare della questione giovanile perché i grandi cambiamenti economico-sociali, e soprattutto le «riforme» imposte dalla politica, hanno impattato in maniera fortissima proprio queste fasce della popolazione.
Crediamo che questo non sia successo per caso, e raccogliere la sfida di comprendere la logica dietro a queste trasformazioni possa servire proprio a capire su quali pilastri la nostra controparte abbia impostato il proprio progetto per gestire la transizione alla prossima fase. Se infatti tutte le fasce anagrafiche sono state attaccate dalla crisi e dalle riforme, tra cui la legge Fornero e il Jobs Act, il loro effetto strutturale parte sempre dai giovani, che subiscono «l’intasamento» del mercato del lavoro causato dall’innalzamento dell’età pensionabile e al tempo stesso soffrono maggiormente quando in questo riescono a entrare, a causa dell’indebolimento sulla disciplina dei licenziamenti, che aumenta ulteriormente la divisione fra il lavoro garantito e quello precario.
Un effetto strutturale ancora leggibile nel tasso di disoccupazione giovanile che rimane alto, così come quello dell’emigrazione.
Ma c’è inoltre l’altro lato della questione giovanile, quello che ribalta i ragazzi da oggetto degli attacchi politici a soggetto politico, soggetto che con tutti i problemi e le contraddizioni di trovarsi ad agire in un periodo storico fortemente apolitico e individualista (certamente, una delle maggiori vittorie dei nostri nemici), prova e tenta di reagire. L’ha dimostrato nel referendum costituzionale del 4 dicembre 2016, di cui molti politologi hanno nota to l’impronta generazionale, di una percentuale altissima di under 30 che ha bocciato la «controriforma» voluta da Renzi, dando una risposta piuttosto chiara alla chiamata della vuota retorica alla «rottamazione», al «nuovo», al «andare avanti» a tutti i costi, ovunque si vada, avendo forse capito, o quantomeno intuito, che la direzione in cui il PD voleva muovere le istituzione italiane non era altro che un’ulteriore stretta in senso elitario. E la stessa intuizione ha preso la forma, non certo felice per noi ma non per questo incomprensibile o risibile, alle elezioni del 4 marzo di un voto giovanile che è scappato a gambe levate dai partiti «storici» per cercare soluzioni e risposte nel M5S o nella Lega, in mancanza di una vera alternativa, quella che spetta a noi organizzare e costruire. Ma nello stesso tempo, sono sempre stati le ragazze e i ragazzi a dare impulso prima, e spina dorsale poi, a quel progetto di rappresentanza politica del nostro blocco sociale che ha preso forma nell’esperimento di Potere al Popolo.
Ed è anche da queste considerazioni prettamente politiche che prende la traccia questo libro. Abbiamo subito la crisi e l’attacco padronale e politico, ma non siamo crollati completamente nel conflitto ideologico, e ci sono tutti i segnali per cui una risposta giovanile è possibile, se a partire da noi comunisti riusciamo a mettere in campo teorie e analisi forti che possano servire alla costruzione e all’organizzazione politica necessaria al cambiamento sociale.
Per fare questo, occorre mettere al centro il tema della rottura della gabbia dell’Unione Europea, essendo però capaci di declinare questa parola d’ordine in senso internazionalista, senza ricadere in nostalgie patriottarde fuori tempo massimo né in retoriche altre-europeiste.
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Comrade Kosmonaut
“Rompere la gabbia europea senza ricadere in nostalgie patriottarde o retoriche altroeuropeiste” . Mi può spiegare che vuol dire?
Fatto salvo che a me della patria non importa nulla, non sono certo un patriota, però della sovranità popolare sì, la sovranità non è un qualcosa di sbagliato, nonostante la stampa mainstream ormai associ il termine a Salvini e altri personaggi impresentabili.
Forse intendeva questo? Patriottardi no ma sovranisti sì? Sarebbe sovranista anche pretendere che sia il parlamento europeo, e non le varie commissioni, a decidere sulle questioni importanti della UE, o forse questo auspicio ricade nell’estremo opposto, l’altroeuropeismo?
Voi dirigenti, attivisti, intellettuali, ecc… dei partiti di sinistra dovete capire che la base è composta in maggioranza da gente che non ha studiato (o che, come me, ha fatto scuole tecniche) quindi dovreste cercare spiegarvi nel modo più chiaro possibile.
Redazione Contropiano
Giusto il richiamo alla necessità di un linguaggio più “popolare”, anche se spesso questo compito risulta difficile, specie quando si scrive sempre di corsa…
Su sovranità, sovranismo, ecc, c’è inoltre una volutamente diffusa confusione diffusa con autentico cinismo da giornalacci di regime (tipo Repubblica o Corriere). In materia, comunque, abbiamo provato far chiarezza: https://contropiano.org/news/politica-news/2018/09/24/la-cura-del-linguaggio-3-sovranita-sovranismo-e-sciocchezze-0107841