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Il Bonzo Sindacale

Dialettica dell’illuminismo è un libro singolare. La forma piuttosto poco chiara dell’esposizione – dice Habermas (Disc.*) – non consente di distinguere a prima vista la netta struttura della linea di pensiero. Nelle sue parti essenziali è nato da appunti presi da Gretel Adorno nel 1944, nel corso di discussioni tra Horkheimer e Adorno a Santa Monica – California. Pubblicato tre anni dopo per Querido-Verlag di Amsterdam è rimasto invenduto per quasi venti anni. Tuttavia, dice Habermas, la sua influenza è stata inversamente proporzionale alle vendite.

Se fossi stato in contatto con la Scuola di Francoforte, dice Foucault (Coll.*), se l’avessi conosciuta quando ero studente, non avrei detto un sacco di stupidità che invece ho detto, e avrei potuto evitare molti giri tortuosi che ho fatto cercando di perseguire il mio modesto percorso quando, invece, alcune strade erano state aperte dalla Scuola di Francoforte.

Adorno – scrive Arendt in due lettere a Jaspers del 18 aprile e del 4 luglio 1966 – è uno degli uomini più ripugnanti che conosco. Mezzo ebreo, aveva sperato di farla franca grazie alla sua discendenza italiana da parte di madre.

Anche l’opinione di Ernst Bloch non è tenera.

In un’intervista alla televisione francese rilasciata a José Marchand nel 1974, Bloch racconta di un giovane Adorno estremamente dotato.

Aveva diciotto anni, dice Bloch, quando, colpito dal mio libro Spirito dell’utopia, si decise a farmi visita a Berlino, dove trascorsi gli ultimi anni Venti. Ci comprendemmo subito ottimamente e diventammo amici. Gli feci conoscere Brecht, il quale fece un gran bene al giovane Adorno che si sentiva marxista. Poi venne il periodo francofortese, che fece emergere quella componente della sua personalità che non disprezzava il compromesso. Rinnegò Brecht, che aveva ammirato sopra ogni altro. Cadde sotto l’influenza dei finanziatori dell’Istituto per la ricerca sociale (Institut für Sozialforschung), che Kracauer chiamava Istituto per la falsificazione sociale (Institut für Sozialfälschung), e si allontanò sempre più dalla sinistra.

Benché non si possa dire che si spostasse a destra, non c’era, in ogni caso, più traccia del suo vecchio impeto rivoluzionario, posto che sia mai stato davvero a sinistra. Era pur sempre lui, dice Bloch, ma entro curiosi paludamenti, quelli dello snobismo e dell’esoterismo. La fine, che tutti conoscono, fu che chiamò all’Istituto di Francoforte la polizia, quando venne sfottuto da alcune studentesse abituate a chiamarlo col soprannome Teddy, le quali, in tale occasione, gli si avvicinarono con i seni scoperti mentre era in cattedra. Era fatto così. Amava la bella forma, il lusso, soprattutto i titoli nobiliari, specialmente quando erano le donne a possederli.

Dialettica dell’illuminismo è una presa di distanza dal socialismo reale. Ma prima ancora è una presa di distanza dalla Rivoluzione francese, dalle sue promesse di liberazione dal mito e dalla superstizione, promesse rappresentate dalle scienze positive dell’Ottocento. Pensatori come Adorno, Heidegger e Foucault – scrive Rorty (Scritti filosofici) – hanno fuso assieme, da un lato, le critiche che Nietzsche ha rivolto alla tradizione metafisica e, dall’altro, le sue critiche alla civiltà borghese, all’amore cristiano e alla speranza del XIX secolo che la scienza avrebbe reso il mondo un luogo dove condurre una vita migliore.

Si tratta di capire se questa presa di distanza abbia allontanato Adorno anche dalla lotta di classe, dall’idea cioè di un’emancipazione dei lavoratori.

La teoria critica, dice Habermas, era stata sviluppata dapprima nella cerchia intorno a Horkheimer, per elaborare le delusioni politiche sulla mancata rivoluzione in Occidente, sullo sviluppo stalinista nella Russia sovietica e sulla vittoria del fascismo in Germania. Essa poteva spiegare il fallimento delle previsioni marxiste, senza però rompere con le intenzioni di Marx.

Tuttavia, dice Habermas, negli anni più duri della seconda guerra mondiale, l’ultima scintilla di ragione dovette spegnersi, e con essa spegnersi anche la speranza dell’avvento del Regno della libertà. I proletari erano stati definitivamente e irrevocabilmente omologati, insieme al loro rappresentante e bonzo sindacale (Bonzo è un termine che appare proprio in Dialettica dell’illuminismoGewerkschaftsbonzen).

L’aumento della produttività economica, si legge nella Premessa alla Prima edizione di Dialettica dell’illuminismo, genera, da un lato, le condizioni di un mondo più giusto, dall’altro lato, fornisce all’apparato tecnico e ai gruppi sociali (sozialen Gruppen**, non classi sociali) che ne dispongono una immensa superiorità sul resto della popolazione. Il singolo, di fronte alle potenze economiche, è ridotto a zero. Mentre sparisce davanti all’apparato che serve è rifornito da esso meglio di quanto non sia mai stato. Nelle condizioni attuali anche i beni materiali diventano elementi di sventura.

Non si salvano nemmeno i beni immateriali. Poiché l’elevazione del tenore di vita degli inferiori si rispecchia nell’apparente e ipocrita diffusione della cultura. Il cui vero interesse è la negazione della reificazione (Verdinglichung). Lo spirito non può che dileguarsi quando è consolidato a patrimonio culturale e distribuito a fini di consumo. La libertà cui anche il Sessantotto tenderà è costituita da una valanga di informazioni minute e di divertimenti addomesticati che scaltrisce e istupidisce nello stesso tempo.

Se le forze produttive, dice Habermas, entrano in una nefasta simbiosi con quei rapporti di produzione, che un tempo esse dovevano far saltare, allora non vi è più alcuna dinamica in cui la critica potrebbe riporre le proprie speranze. Dunque, ha ragione Bloch nel dire che quella di Adorno fu senz’altro la morte di un uomo che, nato nell’infelicità, finì nell’infelicità. Senza contare Horkheimer, che nel frattempo era diventato reazionario.

Un discredito generale era caduto sul sindacalista – sul Gewerkschaftsbonzen.

Nel numero 20 del 12 novembre 1970 del quindicinale Lotta Continua si può leggere un’accusa forte e chiara contro il sindacato. Innanzitutto, si dice, bisogna «lottare contro ogni delega». La delega non va bene. È contro l’iniziativa diretta. L’iniziativa diretta è importante, perché solo chi è invischiato nei processi che contesta, può averne una conoscenza appropriata. Il delegato, invece, rispetto al mondo della vita e del lavoro effettivo, è sempre fuori contesto. La sua visione è sempre dedotta da un protocollo redatto nelle segreterie, e sempre a cose fatte, oppure deriva da un piano teorico, rispetto al quale i fatti veri e propri ne costituiscono la verifica o la smentita.

La lotta non può scaturire da un’intesa che si produce al di sopra dell’esistenza dei lavoratori. Essa deve, piuttosto, assomigliare a un avvenimento storico che non cancella nessuno dei legami con i fatti che chiarisce o che contribuisce a far accadere.

Il burocrate sindacale non conosce «per nome e per cognome il proprio nemico». Guarda le cose dal suo punto di vista, ma questo punto rimane strutturalmente al di fuori del contesto dove i fatti accadono e le battaglie si consumano. La sua conoscenza dello stato delle cose, che ai più può apparire precisa e puntuale e priva dei vizi e degli errori di cui soffre il sapere di chi nelle lotte vi è sprofondato completamente, è una conoscenza fredda e disinteressata, che si abbatte sulle cose inquadrandole in un ordine perfetto.

Da questa idea di perfezione deriva la continua pulsione alla scissione.

Poiché il mondo non si adatta mai perfettamente alle idee contenute nei programmi e nei manifesti, l’umile funzionario, malgrado il suo distacco, si ritrova sempre invischiato negli affari del mondo, con in mano un resto che non sa come gestire. Investito dall’imbarazzo, cerca in ogni modo di liberarsi del fardello, ma senza riuscirci, e non prima che il lavoratore lo colga con le mani affondate nella cruda verità di quei fatti dai quali voleva slegarsi.

La traccia della realtà che lo perseguita è anche il sintomo del suo fallimento come funzionario della perfezione. E tutto ciò perché la sua costituzione è distacco e separazione, delega e rappresentanza.

La lotta, invece, non si rappresenta. Non si delega. Non si pensa al di fuori della lotta stessa.

«La lotta fa un passo avanti – scrive ancora Lotta Continua – quando distrugge la politica come attività separata, come specializzazione, come momento sindacale».

Lotta Continua «significa combattere lo specialismo e il burocratismo di cui siamo oggettivamente affetti, significa cessare di misurare la nostra crescita sul metro delle riunioni – chiuse – e unirci alle masse nelle loro sedi, nelle piazze, nelle strade, nei bar, nelle case».

Il sindacalista, invece, si colloca al di fuori della realtà che lo riguarda. Anche rispetto a ciò con cui ha un legame più intimo, come il suo impiego, adotta l’attitudine dell’uomo che guarda, che non si pone all’interno degli eventi su cui dirige il proprio sguardo.

Il bonzo sindacale pretende di raggiungere quella distanza critica, necessaria al pensiero, per cogliere la cosa al di fuori di ogni coinvolgimento emotivo. Opera come uno scienziato. Si preserva il potere di retrocedere, di tirarsi fuori, di non investire con le sue emozioni, trasformandolo, l’oggetto di studio. Il sindacalista è uno scienziato, un piccolo burocrate che si prende cura del lavoratore, così come lo specialista si prende cura della milza di un paziente, con la stessa logica, la stessa separazione, lo stesso trattamento seriale, come se ad essere curato non fosse il paziente, ma solo una milza, una milza in generale, una milza qualsiasi, degna di un trattamento qualsiasi, definito in un protocollo scientifico validato da un collegio di pari – monta l’onda new age.

«Il rifiuto dello specialismo, di una politicizzazione falsa perché unilaterale, – scrive Lotta Continua – deve riflettersi anche sul modo di porre il problema dell’illegalità e della violenza. La sua organizzazione non è prerogativa di un’avanguardia trasformata in debole e patetico drappello militare, essa è parte integrante dell’esperienza di massa».

Il rifiuto degli sfratti o dei pignoramenti, l’autodifesa contro la polizia, la cosiddetta criminalità giovanile, la violenza politica che trova sfogo negli stadi o nei concerti non possono essere rappresentate. La decisione di un lavoratore che scende in piazza e grida che ribellarsi è giusto non si rappresenta, non si delega. Non c’è avanguardia che tenga, non ci sono intellettuali e maître à penser che possano conoscere meglio di chi la vive la situazione di chi scende in piazza e si ribella contro lo stato delle cose.

È l’idea stessa di sindacato che qui viene messa in discussione. Ad essere attaccato non è il burocrate in generale – l’impiegatuccio che aspira a diventare un borghese piccolo piccolo – ad essere attaccata è la composizione degli interessi. Questa composizione, dice Lotta Continua, deve avvenire in modo diretto, spontaneo, immediato.

Inutile segnalare i debiti di questa impostazione con la fenomenologia, con l’esistenzialismo, con l’intenzionalità di Husserl. Voler far ricadere tutto sulle spalle di Adorno sarebbe davvero esagerato. Come è inutile dire che questo romanticismo dell’immediatezza ha sparso letame non solo sul funzionario, ma sull’interna opposizione di classe.

* J. Habermas, Il discorso filosofico sulla modernità, 1983

* Michel Foucault, Colloquio con Gilles Raulet, Strutturalismo e post-strutturalismo, 1983

* Prendiamoci la città, Lotta Continua, anno II, n. 20 12 novembre 1970,.

* Adriano Sofri, Sull’organizzazione, 1969

* I quaderni di Avanguardia operaia. Lotta Continua: lo spontaneismo. Dal mito delle masse al mito dell’organizzazione. Sapere edizioni 1972.

* Emmanuel Lévinas, Scoprire l’esistenza, Cortina 1998.

** Terminologia filosofica (I, 62): «La stessa espressione «gruppo» non ha carattere rigorosamente logico, ma è un’espressione più o meno occasionale; vale a dire che nel linguaggio parlato e vivo non ha affatto un significato così stabile. Possiamo così parlare di un gruppo di persone che fra le nove e le dieci di sera guardano la televisione, o di un gruppo che dimostra davanti al consolato del Ghana per qualche motivo, o di un qualche altro gruppo, senza che ciò contraddica a questo concetto».

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