Menu

Le università e i giovani nel tritacarne della crisi e dei diktat europei

Una recensione del volume “Giovani a Sud della Crisi”, basata sulla relazione presentata durante il dibattito sul libro tenutosi a Firenze l’8 maggio 2019 nell’ambito del festival Unifight organizzato dal Collettivo Politico di Scienze Politiche

Dopo l’approvazione della riforma Gelmini nel 2010, l’attenzione per le sorti del sistema universitario italiano è calata paurosamente. Il disinteresse sociale è andato di pari passo con il drastico ridimensionamento dell’istruzione universitaria. Dopo gli anni della “bolla formativa” gonfiata dalla propaganda sugli “obiettivi di Lisbona”[1] e sull’ “economia della conoscenza”, crisi e austerità hanno tolto sostanza a molti appetiti baronali e padronali, ed è rimasta nuda e cruda sul terreno una realtà fatta di precarietà, sfruttamento e salari da fame. Una realtà che, per chi l’ha voluta vedere, è sempre stata il pane quotidiano delle generazioni che hanno frequentato le aule universitarie negli ultimi decenni.

Il corpo docente ha continuato, tranne rare eccezioni, a tacere, mentre l’Università italiana si asserviva agli imperativi dell’accumulazione capitalistica su scala europea. E senza dubbio è venuto calando, sotto i colpi della repressione, anche il livello di conflittualità studentesca[2]. Se questo è lo stato dell’arte, il lavoro di Noi Restiamo è meritorio, prima di ogni altra considerazione, perché nasce in un contesto culturale difficile, che si è reso sempre più sordo se non ostile ad ogni forma di riflessione collettiva. I suoi meriti però non si limitano affatto a questo. Il libro è prezioso perché affronta in modo organico il nesso tra tre processi che sono di fondamentale importanza:

  1. la ristrutturazione del sistema formativo universitario
  2. l’accumulazione del capitale su scala europea
  3. le ricadute di tale accumulazione sui territori e sulle sovrastrutture politiche e giuridiche

Nel seguito cercherò di chiarire l’articolazione e i legami reciproci di questi processi partendo proprio dall’angolo di osservazione offerto dalla realtà universitaria – quella che conosco meglio[3]. Spero, così facendo, di comunicare al potenziale lettore quello che per me è stato il principale motivo di interesse per questo libro, che ha l’ambizione di individuare gli spazi per una trasformazione rivoluzionaria dell’esistente.

La ristrutturazione dell’Università

Il libro ricostruisce in modo esaustivo i principali passaggi di una trasformazione del sistema della formazione superiore che si è sviluppata, nell’arco di due decenni, sotto l’egida dell’Unione Europea[4]. In particolare gli autori individuano 3 snodi principali:

  1. autonomia / aziendalizzazione (Legge Ruberti, 1990)
  2. segmentazione del processo formativo (Legge Berlinguer/Zecchino, 1999)
  3. gerarchizzazione / precarizzazione del corpo docente e degli atenei (Legge Moratti, 2005, e Legge Gelmini, 2010)

Lasciando mano libera all’iniziativa baronale mentre assimilava gli atenei ad aziende, la legge Ruberti stabiliva per principio che il sistema universitario si dovesse rendere pienamente funzionale agli interessi economici esterni. Sebbene all’epoca questi fossero spesso legati a potentati locali, allora più floridi di oggi, con il senno di poi possiamo dire che l’autonomia ha aperto la strada verso la subordinazione di tutto il sistema universitario  al capitale monopolistico europeo. Questo obiettivo non avrebbe potuto essere raggiunto se la classe docente, nella propria stragrande maggioranza, non vi avesse attivamente cooperato, allettata dai finanziamenti che Ministero e Unione Europea hanno manovrato sapientemente allo scopo. Grazie ai tantissimi docenti che si sono venduti alla sua logica, l’autonomia universitaria ha beneficiato nel tempo un ceto baronale ristretto, concentrato in una élite di istituzioni cosiddette “eccellenti”, per lo più localizzate nel Nord Italia, mentre ha impoverito culturalmente ed economicamente la maggioranza degli atenei.

La segmentazione del processo formativo è stata imposta, attraverso le leggi Berlinguer/Zecchino, per frazionare la forza lavoro in formazione e incanalarla più rapidamente verso un mercato del lavoro che, nello stesso periodo, veniva ristratificato attraverso la precarietà (pacchetto Treu / legge Biagi). Dispositivi fondamentali di questo processo sono stati i crediti formativi, il cosiddetto “3+2” , i tirocini. La funzione di questi strumenti è spiegata esaurientemente nel libro, evidenziandone con chiarezza la logica classista sottostante. Più sotto vedremo come la frammentazione dei percorsi formativi, favorendo le decisioni di emigrazione, abbia rappresentato un tassello fondamentale dei processi di accumulazione capitalistica nel contesto della crisi.

La controriforma della funzione docente ha coronato il processo di ristrutturazione del sistema universitario. Con la precarizzazione della figura del ricercatore e il rafforzamento del potere dei professori ordinari sui concorsi, la legge Gelmini ha concentrato il potere accademico in pochissime mani. Si è rafforzato il modello di governance di stampo aziendalistico / autoritario, aumentando ulteriormente i poteri dei rettori e del CDA quale veicolo degli interessi esterni che devono egemonizzare l’università. Infine, si è aumentata la subordinazione del corpo docente alla burocrazia ministeriale usando dispositivi come PRIN, Anvur,  VQR, adesso anche gli scatti stipendiali, per sottomettere ulteriormente la vita accademica alla logica della competizione economica.

Il baronato in salsa “europeista”

E’ importante sottolineare che, dentro questo processo, il baronato universitario si è profondamente trasformato. Analizzare questa trasformazione ci porta necessariamente ad analizzare la trasformazione dei processi di accumulazione capitalistica nel contesto della crisi. Questo perché, se definiamo, correttamente, il barone come il terminale nel corpo accademico degli interessi capitalistici a cui l’università si rende funzionale[5], le trasformazioni del baronato non possono che dipendere dalle trasformazioni di quegli interessi.

Il primo elemento da considerare a questo riguardo è la relazione strettissima che si è venuta costruendo negli ultimi tre decenni tra sistema universitario, corpo accademico e Unione Europea. Le strutture della UE, Commissione in primis, hanno agito attivamente usando la leva dei finanziamenti per fare dell’università uno dei propri principali organi ideologici in seno alla società[6].  Le strutture ministeriali hanno fatto la loro parte per veicolare l’ideologia europeista nel corpo accademico, promuovendo la logica della competizione nella caccia ai finanziamenti europei mentre tagliavano i fondi nazionali. Così la comunità accademica è diventata il prototipo della collettività cosmopolita che incarna il tipo perfetto della cittadinanza europea secondo la tecnocrazia UE (la famigerata generazione Erasmus).

I valori di cui questa comunità si fa portatrice non sono certo quelli della libertà di ricerca e  di critica ma quelli della competizione, dell’efficienza, della libera circolazione.

Le conseguenze culturali dell’ideologia europeista sulla vita quotidiana che si svolge dentro le facoltà sono state a mio avviso drammatiche. La logica della competizione la fa da padrone nei rapporti quotidiani tra studenti e tra docenti così come nelle relazioni tra dipartimenti e facoltà. Lo spazio per il pensiero critico è ridotto ai minimi termini per impedire che si sollevino domande scomode su che cosa viene insegnato e studiato nelle aule e nei laboratori universitari, ovvero su chi sono i beneficiari ultimi dei soldi pubblici impiegati nell’Università. Si soffoca la vitalità del sapere per mantenere incatenata la società ad un potere capitalista sempre più a corto di idee, che non può permettere che venga messa a nudo la propria incapacità di offrire una soluzione alla crisi epocale che l’umanità sta vivendo.

Accumulazione capitalistica e questione meridionale

Non è una forzatura dire che per la UE i ricercatori e i finanziamenti devono circolare ed essere distribuiti in modo efficiente esattamente come i capitali vengono allocati efficientemente, secondo la teoria economica borghese, dai mercati finanziari. Secondo questa logica il ricercatore “meritevole” è quello che, grazie alle strutture dell’Unione Europea, ha possibilità di finanziare le proprie ricerche e lavorare nelle istituzioni “eccellenti”, il ricercatore “sfigato” è quello che lavora invece in qualche università “periferica” usando fondi nazionali resi sempre più magri dalle politiche di austerità. Specularmente, le università “di eccellenza” sono quelle poche in grado di attirare, grazie ai finanziamenti europei, gli studenti e i ricercatori più “bravi”. Per le altre, ovvero la maggioranza, restano solo gli “scarti”, i futuri precari. Le università “eccellenti” offrono una educazione specializzata e di alto livello attraverso master e dottorati prestigiosi, le università “sfigate” addestrano una forza lavoro dequalificata o al massimo servono da trampolino di lancio per chi, avendo più opportunità come studente o ricercatore, le abbandona appena possibile per qualcosa di meglio.

Se il sistema universitario viene rimodellato sulla logica dei mercati finanziari, non ci si può stupire che ne riproduca le conseguenze in termini di diseguaglianza. Nell’epoca del capitalismo moribondo, quella in cui viviamo, la riproduzione del capitale esige più spesso la distruzione delle forze produttive che non la loro crescita. Se la polarizzazione tra la metropoli e la periferia colonizzata o semicolonizzata è un dato strutturale dell’età dell’imperialismo, nell’epoca della crisi strutturale di un capitalismo maturo come quello europeo i confini della periferia si allargano e quelli del centro si restringono. L’Unione Europea è l’organo di questo progetto imperialista che possiamo definire di centralizzazione gerarchica[7]. In particolare, creando studenti, ricercatori e università di serie A e di serie B si sono rifunzionalizzati i sistemi educativi nazionali ai bisogni di nuovo centro imperialista di marca “europeista”, che assume dei contorni geografici via via più ristretti, sull’asse Parigi – Bruxelles- Amsterdam – Berlino a Nord e sul triangolo Monaco, Vienna, Milano a Sud.

Le ricadute sociali dei processi di accumulazione appena descritti sono drammatiche. Le periferie o semiperiferie in cui ci ritroviamo a vivere sono sempre più desertificate, svuotate dalle opportunità e dalle proprie forze migliori.  Il libro esamina in particolare i flussi di immigrazione ed emigrazione comparando i paesi del centro (Germania, Olanda, Francia) con quelli della periferia europea (Italia, Spagna, Grecia, Portogallo). Il quadro che ne risulta è devastante: intere porzioni di territori dell’Europa meridionale si stanno svuotando. Le decisioni di emigrazione, che coinvolgono in modo particolare le fasce giovanili, si prendono a valle di un contesto formativo e lavorativo come quello che abbiamo descritto, dove il messaggio che arriva nei territori dell’Europa meridionale alle famiglie e ai giovani della media e della piccola borghesia e delle fasce popolari è molto chiaro: se vuoi avere delle opportunità vattene. Non possiamo quindi stupirci se il Sud Italia è ritornato ad essere, specialmente dopo il 2008, terra di emigrazione di massa. Non possiamo neppure stupirci se, al di fuori di un triangolo geografico stretto tra Lombardia, Emilia e Veneto, che cerca di restare agganciato alla filiera produttiva tedesca, il resto del paese viene lasciato affondare economicamente e socialmente.

Le disuguaglianze territoriali rappresentano una contraddizione strutturale del capitalismo italiano che deve essere agita consapevolmente da chi aspira a definirsi rivoluzionario. Uno dei meriti principali di questo libro è quello di aver riportato l’attenzione sulle disuguaglianze territoriali in questo Paese e in particolare sulla questione meridionale.

Chiaramente su questo argomento c’è poco da inventare, basta rifarsi a una gloriosa tradizione di pensiero. Sappiamo bene che lo stato della borghesia italiana nasce con un carattere marcatamente coloniale, costringendo il Meridione ad essere lo sbocco per le merci prodotte da una industria settentrionale allora non in grado di vendere sui mercati esteri. Il processo di spopolamento delle regioni meridionali comincia in quel momento, quando l’emigrazione verso l’estero serve come valvola di sfogo per una popolazione eccedente che non può essere occupata a causa della mancanza di un vero processo di sviluppo. Nel secondo dopoguerra cambia la destinazione dell’emigrazione: centinaia di migliaia di persone partono per riempire le fabbriche del Nord. Allo stesso tempo, i progetti industriali che vengono avviati su iniziativa statale portano essi stessi i segni del colonialismo e del sottosviluppo: le assunzioni avvengono su base clientelare, i salari contrattati sono più bassi, le lavorazioni prescelte sono quelle più inquinanti e gli standard di sicurezza molto inferiori ai migliori disponibili. Taranto docet.

Meridione e Unione Europea

A partire da queste premesse storiche già così pesanti, chiediamoci ora quale ruolo abbia svolto l’Unione Europea per il Meridione negli ultimi decenni. A mio parere possiamo tranquillamente asserire che la UE è stata il veicolo per una ricolonizzazione del Sud Italia. Prima di tutto, l’Europa di Maastricht ha cancellato la Questione Meridionale dall’orizzonte ideologico di questo paese insieme alla vecchia idea keynesiana di un ruolo economico dello Stato come riequilibratore di processi di sviluppo che nel capitalismo seguono necessariamente un ritmo diseguale. Non che le politiche keynesiane avessero mai realmente intaccato la natura coloniale dello Stato italiano, né tanto meno modificato la natura capitalistica della nostra economia. Tuttavia quelle politiche portavano su di sé il segno di un’epoca in cui le economie capitalistiche si dovevano confrontare con un modello statale e sociale alternativo in cui la sfera dell’economia era realmente messa a servizio dei bisogni umani e che su questo piano ha ottenuto, per un lungo periodo di tempo, risultati straordinari. Mi riferisco, per chi avesse dubbi, all’Unione Sovietica e al suo modello di economia socialista, che per 4 decenni almeno ha costituito un bel grattacapo per la borghesia mondiale. Per questo, nello scenario post 1989, la visione keynesiana doveva essere rapidamente cancellata per reinstallare al suo posto l’ideologia neo/ordoliberale secondo la quale l’unica funzione dei poteri pubblici è assecondare lo spontaneo funzionamento delle forze del capitalismo.

L’Unione Europea ha impedito ogni forma di aiuto diretto alle imprese in difficoltà vietando gli aiuti di stato e ha imposto la privatizzazione dell’industria pubblica. Così facendo ha agevolato la desertificazione industriale di intere regioni, in particolare quelle meridionali. Al contempo ha elargito finanziamenti per riqualificare il territorio in direzione di uno sfruttamento turistico sempre più intensivo, secondo una logica tipicamente neocoloniale, con conseguenze negative sia in termini sociali che ambientali. Infine ha finanziato la formazione professionale e universitaria dei giovani meridionali con la conseguenza, data la mancanza di opportunità di lavoro sul territorio, di spingerli all’emigrazione.

Per questo possiamo dire che la ristrutturazione del sistema formativo e universitario ha giocato un ruolo di primo piano nella ricolonizzazione del Sud, e purtroppo questo elemento, che è ben individuato nel libro, non è stato invece, a mio avviso, sufficientemente compreso e agitato dal movimento studentesco che si è opposto a suo tempo alle controriforme dell’università. Questo è avvenuto perché il movimento stesso non si è reso sufficientemente autonomo sul piano ideologico, anche nelle proprie soggettività meridionali che hanno mostrato una grande reticenza nel mettere con forza sul piatto i problemi drammatici dei propri territori e si sono invece accodate ad una narrazione dominante, di stampo settentrionalista, che si limitava ad attaccare il taglio dei finanziamenti ma non metteva affatto in discussione l’impianto della riforma. Questa posizione rifletteva i timori degli atenei settentrionali di vedere ridotta la propria competitività, e faceva quindi pienamente propria l’ideologia capitalistica della competizione e della produttività.

Liberarsi definitivamente da queste scorie ideologiche, abbandonare la reticenza verso la questione meridionale e recuperare al contrario un forte orgoglio meridionalista ritengo siano passaggi politici di fondamentale importanza per rovesciare il falso modello di sviluppo imposto dal capitalismo alle regioni meridionali.

Crisi della rappresentanza e crisi dello stato nazionale

Le contraddizioni del capitalismo, in Italia come negli altri Paesi europei, stanno diventando sempre più pesanti. Il ridimensionamento progressivo dei meccanismi di redistribuzione determina una frattura sociale e territoriale che si traduce in crisi della rappresentanza. Da questo punto di vista, la classica contraddizione tra struttura e sovrastruttura fornisce una ottima chiave di interpretazione di fenomeni politici apparentemente disparati. Tra questi possiamo menzionare, solo per citare i principali, il movimento indipendentista catalano, la Brexit, i Gilet gialli, oppure il cosiddetto “populismo / sovranismo”, nelle varianti di destra e di sinistra, che ha riscosso negli ultimi tempi grande successo proponendosi come illusoria alternativa allo status quo rappresentato dai partiti europeisti.

Ciascuno di questi fenomeni meriterebbe un approfondimento specifico. Quello che mi preme sottolineare è che lo sviluppo del capitale europeo, in questa fase, distrugge necessariamente il tessuto sociale ed economico degli stati nazionali. Per questo le contraddizioni sociali prendono anche la forma di contraddizioni geografiche sempre più acute che per ora hanno determinato una crisi della rappresentanza politica, ma stanno ponendo le basi di una vera e propria crisi degli stati nazionali, di cui si intravedono i segni.

La forma specifica che questa crisi assume è diversa nelle diverse realtà statali per ragioni storiche legate al loro  processo di formazione, ma emerge credo con chiarezza una tendenza comune. Vediamo infatti che si riacutizzano linee di frattura geografiche che non sono mai state realmente sanate nel corso di oltre 2 secoli di capitalismo.

Su come agire lungo queste linee di frattura dobbiamo ragionare in termini sia tattici che strategici. Però ritengo che la crisi delle sovrastrutture nazionali sia una pessima notizia per la borghesia europea. Questo perché l’Unione Europea come sovrastruttura imperialista si appoggia giuridicamente e politicamente sugli stati nazionali. La crisi catalana ha evidenziato come stati nazionali e sovrastruttura europeista si legittimino l’uno con l’altra e agiscano di concerto sul piano repressivo. In questo momento storico, cambiare un tassello della sovrastruttura rischia seriamente di mettere a repentaglio l’intero progetto europeista, e da questo punto di vista la crisi politica di uno stato membro dell’Eurozona apre scenari inediti e sicuramente dirompenti, che la borghesia “europeista” non è preparata ad affrontare.

Come rivoluzionari dobbiamo cogliere ogni opportunità storica per approfondire le contraddizioni che la situazione ci mette davanti. In questo momento questo vuol dire sostenere con la massima forza le rivendicazioni dei settori popolari del Mezzogiorno e delle tante periferie di questo Paese, dei territori resistenti dal Salento alla Sicilia alla Val Susa, per far saltare il banco della borghesia italiana[8]. Per far questo dobbiamo rilanciare le ragioni della solidarietà popolare contro l’egoismo, il nazionalismo, il razzismo, per una lotta di classe che sia capace di farsi lotta di liberazione sociale a tutto tondo. E dobbiamo guardare ai popoli che vivono ancora più a Sud, partendo dalla sponda opposta del Mediterraneo, dove osserviamo una ripresa della conflittualità. Perché la solidarietà di classe e l’internazionalismo restano il faro nella notte che stiamo attraversando.

[1]https://it.wikipedia.org/wiki/Strategia_di_Lisbona.

[2]Le difficili vicissitudini del movimento studentesco nell’ultimo decennio rappresentano un tema di grandissimo interesse politico ma vanno oltre i limiti di questa recensione.

[3]Un analogo percorso di analisi sarebbe possibile, ritengo, prendendo a riferimento iniziale la ristrutturazione del sistema scolastico.

[4]http://noirestiamo.org/2019/06/25/bologna-process/

[5]Vedi Assemblea di Scienze Politiche “Oltre l’onda – luci e ombre del movimento contro l’università-azienda”, 2010.

[6]Il piano ideologico non è stato certamente l’unico su cui l’Unione Europea è intervenuta. In ambito tecnico-scientifico le istituzioni comunitarie hanno agito, sebbene tra notevoli contraddizioni nazionali, come capitalista collettivo per sostenere i monopoli europei nella competizione tecnologica internazionale. Per una analisi riferita in particolare al settore militare si veda S. Maulicino, La ristrutturazione dell’industria militare euroatlantica, https://contropiano.org/news/news-economia/2019/07/27/la-ristrutturazione-dellindustria-militare-euroatlantica-0117613.

[7]Penso che questo concetto sia ben chiaro, perché lo abbiamo visto all’opera nella guerra economica scatenata contro la Grecia, e lo viviamo sulla nostra pelle attraverso politiche di austerità che durano da decenni.

[8]Da questo punto di vista la cosiddetta autonomia differenziata, ricercata dai governatori di Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna rappresenta non meno un’opportunità che una minaccia: https://contropiano.org/news/politica-news/2019/08/15/il-sud-conta-e-ora-si-vede-pure-0118068.

 *ricercatore di economia politica all’università di Firenze.

- © Riproduzione possibile DIETRO ESPLICITO CONSENSO della REDAZIONE di CONTROPIANO

Ultima modifica: stampa

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *